Gentile: Manzoni e Leopardi
L’attenzione per l’opera di Giacomo Leopardi (1798-1837) e di Alessandro Manzoni (1785-1873) rimane costante in Gentile per tutta la vita. L’impegno critico dedicato a Leopardi, che Gentile apprezza molto come poeta ma che non gli è filosoficamente congeniale, è senz’altro maggiore rispetto a quello rivolto a Manzoni, più in sintonia con il suo idealismo religioso e risorgimentale. Entrambi sono assunti a simbolo della missione morale e culturale avviata dal Risorgimento italiano, della quale Gentile vede il compimento nel fascismo. La chiave di tale lettura di Leopardi e Manzoni come ‘profeti’ del Risorgimento gli proviene dall’interpretazione che di esso dà Vincenzo Gioberti (1801-1852). Un altro fulcro interpretativo risale all’orientamento critico di Francesco De Sanctis (1817-1883), secondo il quale la ricerca dell’uomo nell’artista passa attraverso quella di un contenuto reale, morale o religioso, addensato nelle forme espressive. Il valore estetico delle opere dei due poeti risorgimentali è dato quindi, secondo Gentile, dalla vitalità del loro contenuto; e, per converso, è possibile astrarre da esse un contenuto di pensiero, analizzarle sul piano filosofico, politico o religioso.
La preminenza in Gentile di un interesse di ricerca per Leopardi è testimoniata da uno scritto del 5 dicembre 1894 (G. Gentile, Leopardi, “Ultimo canto di Saffo” in Id., Frammenti di critica e storia letteraria, a cura di H.A. Cavallera, 1996, pp. 36-48), nel quale Giovanni risponde alla pressante richiesta del fratello Gaetano. Si tratta dell’abbozzo per una conferenza di Gaetano sull’“Ultimo canto di Saffo” insieme a una lettera esplicativa e allo «schema del contenuto delle singole strofi», cui – scrive – «ho aggiunto qualche noticina, che m’è parsa più necessaria». Le annotazioni mostrano la qualità dell’esercizio ermeneutico del diciannovenne studente pisano: grande attenzione al testo e buona conoscenza della letteratura critica, competenze acquisite al magistero di Alessandro D’Ancona (1835-1914), docente di letteratura italiana e direttore della Scuola Normale di Pisa.
Le prime prove leopardiane a stampa sono due brevi recensioni ai volumi di Catello De Vivo, Il sentimento della natura in Giacomo Leopardi (1895), e di Michele Losacco, Contributo alla storia del pessimismo leopardiano e delle sue fonti (1896), comparse sulla «Rassegna bibliografica della letteratura italiana» (1896, 8, pp. 86 e 227-28); come attesta il carteggio che corre con Losacco dal 1892 al 1920, Gentile rivolgerà anche in seguito «particolare attenzione» al saggio sul pessimismo leopardiano (Tatasciore 2012, p. 9). Un’altra recensione, a L’estetica nei “Pensieri” di Giacomo Leopardi (1904) di Romualdo Giani, appare sulla «Rassegna bibliografica della letteratura italiana» (1902, 4-6, pp. 109-11) e sulla «Critica» (1904, 2, pp. 144-47).
Tuttavia soltanto nel 1907 Gentile pubblicherà uno scritto più corposo dedicato a Leopardi: si tratta di un’ampia recensione, che verrà ospitata sempre sulla «Rassegna bibliografica della letteratura italiana» (1907, 5-7, pp. 173-83; riedita in G. Gentile, Frammenti di estetica e letteratura, 1920; poi in Id., Manzoni e Leopardi. Saggi critici, 1928, pp. 31-47) all’Esposizione del sistema filosofico di Giacomo Leopardi. Saggio sullo “Zibaldone” (1906), in due volumi, di Pasquale Gatti.
La posizione di Gentile a questa data è consona alla visione estetica e teoretica di Croce, che nega ogni pertinenza filosofica all’opera leopardiana (cfr. B. Croce, Leopardi, «La Critica», 1922, 20, pp. 299-313; poi in Id., Poesia e non poesia. Note sulla letteratura europea del secolo decimonono, 1923, pp. 103-19). L’opera di Gatti, di pura e semplice legatura tra una scelta di passi zibaldonici, viene condannata senza appello. Secondo Gentile l’autore si assume una responsabilità non propria, quella di parlare al posto di Leopardi, in una collazione del tutto artificiale. Gatti peraltro non tiene in alcun conto la dimensione diacronica, essenziale in un poeta che visse intensamente la sua breve esistenza e che utilizzò lo Zibaldone per raccogliervi variamente e senza ordine sentimenti e pensieri già noti nei Canti e nelle prose. Il periodo dello Zibaldone è
periodo lungo per ogni vita, lunghissimo per quella del Leopardi, che in 39 anni forse non visse meno che il Manzoni in 78 [sic, ma: 88]. Esso è anzi il diario degli anni in cui si svolse tutta la vita morale del poeta, e offre perciò [...] un riscontro a tutti i sentimenti, a tutti i pensieri già noti dai canti e dalle prose da lui stesso pubblicate (G. Gentile, Manzoni e Leopardi, cit., pp. 35-36).
Ma Gentile denuncia soprattutto in Gatti l’intenzione di vedere un Leopardi filosofo dove invece va riconosciuto «un poeta, un grande, un divino poeta». Certo, «in fondo a ogni mente umana, sopra tutto in fondo a quella dei grandi poeti, è incontestabile l’esistenza di una filosofia», ma si tratta di una «filosofia dei poeti» (p. 37) che non può risolversi nella vera filosofia. Anche quando Leopardi, nello Zibaldone, annota pensieri ricorrenti esprime «soltanto un suo stato d’animo, occupato, determinato e quasi colorito da certi pensieri dominanti» (p. 38). Non è in questa dimensione sentimentale trasfigurata poeticamente che si può cogliere «la filosofia vera e propria», la quale «non deve aver niente dell’anima individuale di chi la costruisce. Essa è una liberazione assoluta compiuta dal filosofo dai limiti della soggettività» (p. 39). La distinzione tra poeti e filosofi sta tutta nel contrasto tra ragione e sentimento. Ne consegue in Gatti un uso puramente strumentale di quella raccolta di «detriti» della poesia di Leopardi che, per Gentile, è lo Zibaldone, che è sì attraversato da interrogativi filosofici, ma proprio per ciò indica l’incapacità del poeta di
sapersi più spiegare quale possa essere il fine di quest’universo, che pur nella sua artificiosa costruzione e nella sua vasta armonia farebbe pensare a un’intima finalità. Qui non è affermata una verità obbiettiva; è bensì manifestata la situazione personale del poeta (p. 40).
Lo Zibaldone ci permette di «studiare, dunque, la sua filosofia, ma come vita del suo spirito, materia della sua poesia» (pp. 39-40), anche se la sua pubblicazione, che «è stata, in fondo, una certa quale indelicatezza, che nessun onesto avrebbe giustificato, vivo il Leopardi» (p. 43), «ha fortemente contribuito a fare smarrire questo criterio» (p. 40).
La svalutazione dello Zibaldone, unita alla mancata informazione sul vario impegno di Leopardi per pubblicarne parti o sezioni, è un segno di arretratezza nella comprensione dell’opera leopardiana. Entrando nel merito, Gentile nega la consistenza di un ‘sistema’ filosofico leopardiano e riconosce «il materialismo della sua metafisica, il sensismo della sua gnoseologia, lo scetticismo finale della sua epistemologia, l’eudemonismo pessimistico della sua etica» come motivi costanti del suo breve filosofare, ma in quanto «spunti filosofici, anzi che principii d’un pensiero sistematico», «credenze d’uno spirito addolorato, anzi che veri teoremi di un organismo speculativo» (p. 45). Le sue pretese dimostrazioni non vanno mai al di là dell’osservazione empirica e servono soltanto a dirci come Leopardi vedeva le cose. Differentemente da Michel Eyquem di Montaigne o da Blaise Pascal, «passione vera per la speculazione il Leopardi non ebbe mai», non conosceva la gran parte della filosofia e si dilettò a «prendere di qua e di là proposizioni contestabili, e accettarle come verità assiomatiche e principii di deduzioni pessimistiche». Tutt’al più nella sua «filosofia pratica» si può vedere «il retaggio dello scetticismo da Pirrone» (p. 46).
Ben più impegnativa appare la recensione alla Storia del pensiero di Giacomo Leopardi (1911) di Giulio Augusto Levi (1879-1951), scritta per «La Critica» (1911, 9, pp. 141-51; poi in G. Gentile, Frammenti di estetica e letteratura, cit., e in Id., Manzoni e Leopardi, cit., pp. 48-73). Nell’opera lo studioso ebreo, che dedicherà a Leopardi una monumentale biografia (1931) e una Scelta di operette, pensieri e lettere (1932), dissente da Gentile e da Losacco per la loro scarsa considerazione dello Zibaldone. Debitore delle ricerche di Otto Weininger (1880-1903) e di Oskar Friedländer Ewald (1881-1940), sostenitori, a proposito di Henrik Ibsen e dei romantici, di «un’identità essenziale fra la vocazione filosofica, la poetica e la religiosa» per cui «di ogni poesia grande deve esistere e potersi trovare una espressione metafisica» (G.A. Levi, Storia del pensiero di Giacomo Leopardi, cit., pp. ix-x), Levi sottolinea come sia pregiudiziale nella «storia del pensiero di Leopardi» la ricerca dell’unità, e la trova nelle Operette del 1824, che «rappresentano un progresso decisivo, e anzi contengono la conclusione dottrinale del pensiero leopardiano» (p. XII).
La recensione comporterà per Gentile un sovrappiù di confronto, con la replica che dovrà redigere dinanzi alle osservazioni di Levi, per la quale si farà inviare dall’amico Fortunato Pintor un’edizione delle Operette morali. Peraltro a differenza di Croce, che aveva definito il libro di Levi «una povera cosa» (lettera del 1° febbr. 1911, in B. Croce, Lettere a Giovanni Gentile. 1896-1924, a cura di A. Croce, introduzione di G. Sasso, 1981, p. 395), Gentile manterrà con Levi un contatto, indice di stima reciproca, come attestano le missive conservate nell’archivio della Fondazione Giovanni Gentile. Nella recensione del 1911 lo designa «uno degl’ingegni più fini tra gli studiosi di letteratura italiana, e dei più valenti e competenti interpreti del pensiero leopardiano» (G. Gentile, Manzoni e Leopardi, cit., p. 48), ma ribadisce il carattere strumentale dello Zibaldone per indagare un pensiero «la cui forma definitiva va piuttosto cercata nei prodotti più maturi, dove parve all’autore d’avere impressa l’orma definitiva del suo spirito, nei Canti e nelle Operette» (p. 49). In questa prospettiva, «l’idea centrale del saggio del Levi» permette a Gentile di calibrare diversamente quanto aveva scritto quattro anni prima: non manca a Leopardi l’attenzione per «il problema speculativo», ma – ricapitola in due punti – nello Zibaldone non c’è nulla «di più che non fosse negli scritti da lui pubblicati» e «la grandezza del Leopardi» va valutata «facendogli il conto del tanto di verità speculativa che è nella sua poesia», come fece Gioberti che pur nella «profonda simpatia col Leopardi» espresse «critiche profonde e ineluttabili» alla sua speculazione (pp. 50-51).
È legittimo pensare che Gentile, con il consenso di Croce, abbia voluto colpire con l’opera di Levi su Leopardi un’idea del nesso tra poesia e filosofia diffusa tra i vociani che cozzava a quella data con l’estetica neoidealistica, volta a considerare l’opera d’arte come intuizione pura e a distinguere nettamente la sfera del sentimento poetico da quella della ragione dialettica e filosofica. Peraltro, Levi aveva espressamente criticato, su questo punto, il neoidealismo.
Le puntualizzazioni consentono a Gentile di ribadire la sua posizione sulla presunta filosofia di Leopardi: nel quale ci fu sì
una filosofia; ma questa filosofia la vedo chiusa, compressa, fusa e assorbita nella intuizione immediata che questo spirito ha della sua personalità materiata di cosiffatta filosofia: per cui dico che egli non rappresenta una filosofia, ma la sua anima (p. 52).
Fermandosi poi sui punti specifici usati da Levi per ricostruire il pensiero di Leopardi, Gentile vede in particolare nel lungo pensiero del 27 novembre 1823, che correla potenza vitale, amor proprio e infelicità, l’incapacità di passare dalla semplice «coscienza della vita» a una dimensione spirituale superiore: «c’è la coscienza della vita, ma non c’è la coscienza (il concetto) di questa coscienza» (p. 57). In definitiva «il pessimismo è assolutamente inconciliabile col concetto del valore dello spirito; e questa è la vera e profonda ripugnanza che prova il Leopardi», che «non si solleva al concetto dell’essenza dello spirito». La conclusione è del tutto negativa: in Leopardi manca la filosofia perché la visione pessimistica della vita non gli consente di comprendere la realtà dello spirito, di essere spiritualista, e non c’è vera filosofia senza spiritualismo. C’è l’anima, la poesia, non la filosofia. Al più si può valorizzare, come fece De Sanctis in Schopenhauer e Leopardi (1858), «la grande situazione poetica» che vive nella
contraddizione intrinseca tra il sentimento, non elevato a concetto, dell’umana grandezza, e il concetto (contenuto della poesia leopardiana) della nullità dell’uomo di fronte alla natura e quindi della fatalità assoluta del dolore (p. 58).
Il primo vero contributo di Gentile agli studi leopardiani può essere considerato il proemio all’edizione delle Operette morali (già pubblicato con il titolo L’unità del pensiero leopardiano nelle “Operette morali”, «Annali delle università toscane», 1916, 1, pp. 1-59; poi in G. Gentile, Manzoni e Leopardi, cit., pp. 113-72) da lui curata e uscita nel 1918. Nell’opera, che avrà due edizioni successive (19252, 19403), si serve per le note del commento di Ildebrando Della Giovanna e di quello dell’amico Nicola Zingarelli; l’edizione fruisce per la prima volta del vaglio dell’autografo delle Operette del 1827 conservato alla Biblioteca nazionale di Napoli.
Richiamandosi ancora a De Sanctis qui Gentile però ne critica il metodo, per aver
creduto di poter cercare, per così dire, un Leopardi in ciascuna delle operette, presa a sé, invece di cercare il Leopardi di tutte le operette, che sono un’opera sola (Manzoni e Leopardi, cit., p. 124),
e prospetta un’interpretazione della struttura delle venti Operette del 1824 ripartendole in tre gruppi di sei, con la “Storia del genere umano” a prologo e il “Dialogo di Timandro e di Eleandro” a epilogo. Nella prospettiva gentiliana la tripartizione acquista un valore filosofico, in quanto
i primi due gruppi (l’uomo in faccia alla morte e al nulla, l’uomo nei suoi rapporti con la Natura) conterrebbero una demolizione di tutti i miti e le illusioni umane, mentre nel terzo gruppo si assisterebbe a una lieta e commossa ricostruzione di quei miti, soprattutto quelli della gloria e dell’amore, di quell’Amore figlio di Venere celeste che è il termine positivo a cui approda la Storia del genere umano (Blasucci 20112, p. 241).
Nella visione spiritualistica di Gentile la filosofia delle Operette non può compiersi nella concezione tragica di una vittoria della morte e del nulla sulla vita degli uomini e di una natura insensibile alle sofferenze umane. Darebbero una risoluzione positiva a tale quadro pessimistico le operette del terzo gruppo, che «ricostruiscono [...] quello che le prime dodici hanno abbattuto» (G. Gentile, Manzoni e Leopardi, cit., p. 153). La riprova di tale esito positivo è data da un lato dall’esclusione del “Dialogo di un lettore d’umanità e di Sallustio”, che «in questo cinico pessimismo, contraddice al motivo fondamentale delle Operette» (p. 155), dall’altro dalla preminenza della “Storia del genere umano”, posta a prologo, che costituisce per Gentile la chiave per la comprensione dell’intera struttura delle Operette. In Amore celeste – su cui aveva già posto l’accento Levi – Gentile vede l’esaltazione spirituale «dell’affetto che lega le anime con nodi divini, e della bellezza, della libertà, della patria, e di tutte le cose nobili e alte che fan grande l’uomo» (p. 162).
Tale lettura a chiave non verrebbe smentita neppure dalle nuove Operette che comporranno l’edizione del 1834 e costituisce – secondo Gentile – l’esito ultimo della filosofia leopardiana: «Questa coscienza dell’umana grandezza e sovranità sulla trista natura il Leopardi non smarrì mai; ed è l’anima di tutta la sua poesia, in cui queste Operette rientrano» (p. 163). Non a caso si aprono e si chiudono nel segno dell’amore: «Amore è la prima e l’ultima parola delle Operette. Le quali ebbero ancora una ripresa, come dicemmo, nel ’32, nei due dialoghi fiorentini: il Venditore d’Almanacchi e Tristano» (p. 167). Il “Dialogo di Tristano e di un amico” svolge infatti il ruolo attribuito nel 1827 al “Timandro”, quello di far trionfare l’amore: «l’amore trionfa del dolore, anche nella morte, che ci libera infine da quella vita che la natura e il fato danno all’uomo» (p. 172).
Questa interpretazione ebbe un’ampia risonanza, insieme a precise critiche, in specie da parte del filosofo e psicologo Adolfo Faggi, che recensisce l’edizione gentiliana delle Operette morali (Una nuova edizione delle “Operette morali” di Giacomo Leopardi, «Marzocco», 2 febbraio 1919, p. 2) dissociandosi da alcune scelte interpretative e soprattutto valorizzando il ruolo della filosofia ‘pessimistica’ nelle Operette. Gentile replicherà a pochi giorni di distanza in Prosa e poesia nel Leopardi («Messaggero della domenica», 23 febbraio e 2 marzo 1919; poi in G. Gentile, Frammenti di estetica e letteratura, cit., pp. 347-66; Id., Manzoni e Leopardi, cit., pp. 173-94), rinnovando la sua visione di un Leopardi «temperamento poetico sempre, che, canti o ragioni, cioè si proponga l’una o l’altra cosa, in realtà non riesce se non ad esprimere se stesso».
Il che non vuol dire – aggiunge – che non abbia anche lui la sua filosofia: ma è una filosofia fatta vita e persona, fatta vibrazione e ritmo del suo stesso sentimento, incapace come tale d’acquistare intera coscienza di sé, e perciò di superarsi (Manzoni e Leopardi, cit., p. 176).
In questa chiave, bisogna sottrarsi alla ricerca del filosofo mediocre, che non ci fa «vedere che cosa c’è propriamente in lui che è vivo ed eterno e grande» (p. 178), ovvero il poeta. Il presunto terzo ciclo delle Operette, che avvia al sentimento dell’Amore celeste,
non è una dottrina, bensì lo slancio naturale dello spirito che risorge con tutte le sue forze dalla negazione pessimistica. E il pessimismo, in linea di teoria, rimane la verità assoluta e insuperabile. Il Leopardi sente bensì e vive la verità superiore, ma non riesce a darle la forma riflessa e speculativa (p. 184).
In conclusione,
il Leopardi, pessimista di filosofia, e quasi alla superficie, fu invece ottimista di cuore, e nel profondo dell’animo: tanto più acutamente pessimista, col progresso della riflessione, e tanto più altamente e umanamente ottimista (p. 177).
Anche nella recensione del 1917 al libro di Giovanni Bertacchi Un maestro di vita. Saggio leopardiano, Parte I, Il poeta e la natura (1917), Gentile ricerca un’unità profonda nel pensiero e nella poesia di Leopardi. Critica nettamente l’opera, volta a illustrare il rapporto felice del poeta con la natura, per la sua vuota oratoria, ma ne trae occasione per aggiungere un tassello alla sua interpretazione di Leopardi. Qui, con una maggiore aderenza allo spirito della lettura desanctisiana e richiamando la lirica “A Giacomo Leopardi” (1848) di Alessandro Poerio (1802-1848), ricerca un’unità profonda nel pensiero e nella poesia di Leopardi ‘maestro di vita’, nonostante o grazie alla contraddizione tra «spirito buono» e «natura cattiva» nella quale «consiste proprio la radice, da cui trae alimento tutta la poesia del Leopardi; per intender la quale non bisogna lasciarsi sfuggire né l’uno né l’altro dei due elementi contraddittorii» (G. Gentile, Manzoni e Leopardi, cit., p. 75). Il tassello nuovo consiste proprio nella rivendicazione di tale «radice unitaria da cui nascevano e il pessimismo e la poesia del Leopardi» (Blasucci 20112, p. 240).
Qualche testimonianza sull’attenzione, anche filologica, di Gentile per gli scritti leopardiani spunta dal carteggio con Michele Barbi (1867-1941), in gran parte dedicato all’edizione nazionale delle opere di Manzoni. Nel 1927 il filosofo siciliano propone a Barbi la pubblicazione di due volumi di lettere inviate a Leopardi o che lo riguardano, reperite dal bibliotecario Giovanni Bresciano nella Biblioteca nazionale di Napoli. Il progetto viene fatto cadere da Armando Paoletti, direttore editoriale e proprietario della casa editrice Le Monnier dal 1922, e dallo stesso Barbi, che il 16 settembre 1927 scrive: «Appare però dalla prefazione che non è qui raccolto tutto il meglio delle carte napoletane». Il 5 maggio 1930 Gentile torna a segnalare a Barbi una rara lezione dell’autografo di una lettera di Leopardi al padre del 19 agosto 1828, da includere nell’epistolario che Francesco Moroncini sta approntando per Le Monnier (uscirà, in sette volumi, nel 1934-1941).
Il 1927 segna il ravvivarsi dell’attenzione per Leopardi, in occasione dell’inaugurazione, il 13 febbraio, del corso di letture leopardiane presso l’Università di Macerata. L’impianto della prolusione (pubblicata con il titolo Introduzione a Leopardi, «Educazione fascista», 1927, 6-7, pp. 321-35; «Nuova antologia», 1927, 1335, pp. 5-20; poi in G. Gentile, Manzoni e Leopardi, cit., pp. 85-112) ha un aspetto retorico, nell’indirizzo al popolo italiano
raccolto nella coscienza di grandi doveri da assolvere e nel senso della necessità di rifare nella disciplina, nel lavoro, negli ordinamenti civili, nella educazione della gioventù a maschi propositi e metodi di vita l’antica fibra del carattere nazionale (Manzoni e Leopardi, cit., p. 87).
A questo impegno di unità nazionale non fa ostacolo il ‘pessimismo’ leopardiano, perché esso
non ha mai fiaccato, anzi ha rinvigorito gli animi; e lungi dallo spegnere, ha infiammato nei cuori la fede nella vita, nella virtù e negl’ideali che fanno degna e feconda la vita umana degl’individui e dei popoli (p. 88).
Il discorso tocca quindi il punto della sua religiosità patriottica, intrisa di spirito risorgimentale, che lo avvicina a Manzoni nella figura di padre poetico della nuova nazione:
Leopardi, con diversa temperie spirituale e cultura diversissima, è dell’età del Manzoni: figlio di quella nuova Italia che guarda alla vita religiosamente, e ne sente il valore e la serietà (p. 93).
«Anche Leopardi, razionalista e irrisore di superstizioni e di dommi, è uno spirito profondamente religioso, sempre faccia a faccia del destino». Nell’esaltazione della religiosità patriottica delle glorie letterarie nazionali Leopardi e Manzoni sono accomunati senza più distinguo tra poeti e filosofi. Con una vera palinodia, Gentile attribuisce ai «filosofi, diciam così, di professione, ai filosofi cioè che tengono a distinguersi dal resto degli uomini», l’opinione che
Leopardi filosofo non fu, non ebbe un sistema; e le idee speculative che si formò per la lettura dei filosofi recenti più affini al suo modo di sentire, non ebbero da lui svolgimento e impronta personale, perché non furono fecondate da una speciale ispirazione (p. 94).
Ma l’idea di filosofia va intesa nel senso più ampio di chi è «in cerca di risposta a domande che sorgono spontanee dal fondo della loro anima, insistenti, invincibili, e che essi perciò non saprebbero reprimere a far tacere». La filosofia non è solo per gli specialisti, ma «è in fondo allo spirito umano, e quindi all’animo di tutti» (p. 95). Questa idea di una filosofia universale è molto lontana dal neohegelismo del primo Novecento e consente di recuperare Leopardi come filosofo «in largo senso», anche se rimane prevalente la sua facies poetica: «Leopardi se fu un filosofo in largo senso, fu poi, viceversa, un poeta in senso stretto» (p. 99). E proprio per la sua filosofia, che nel canto poetico diviene popolare, egli diviene vate di una religiosità patriottica:
I poeti si traggono dietro il popolo, toccandone il cuore anche lievemente, con quella loro arte che “tutto fa, nulla si scopre”. Il Leopardi è tra essi; ma materia del suo canto è la filosofia (p. 100).
Al di là della superficie materialistica e sensistica, la filosofia di Leopardi suscita un profondo moto spirituale, possiede una sua religiosità, tale che – conclude Gentile riprendendo il paragone desanctisiano con Arthur Schopenhauer – provoca amore per la vita e un sostanziale ottimismo:
Quanto più mette in luce il deserto desolante e disamabile della vita, tanto più ce la fa amare; quanto più dichiara illusione la virtù, tanto più ce ne accende vivo nel petto il desiderio e il bisogno. [...] E di lui può dirsi che preso per metà è il più nero dei pessimisti; preso tutto intero, è uno dei più sani e vigorosi ottimisti, che ci possano apprendere il segreto della vita operosa e feconda (pp. 110-11).
Questa nuova interpretazione ‘filosofica’ di Leopardi si pone sulla linea inaugurata dalla Filosofia dell’arte (1931) che rielabora un corso tenuto proprio nel 1927-28 all’Università di Roma e documenta l’aspra polemica anticrociana, con l’esaltazione attualistica dei tratti di essenzialità e precategorialità del sentimento nella vita spirituale:
Il problema che ha assillato maggiormente Gentile nella sua interpretazione leopardiana – rimarca a ragione Vittorio Stella – è dunque quello del rapporto arte-filosofia, uno dei più insistenti e dominanti della prospettiva attualistica (Stella 1994, p. 39).
L’iniziativa di Macerata non condurrà alla nascita di un centro di studi intorno a Leopardi, come avverrà per Manzoni. Il Centro nazionale di studi leopardiani, il cui primo direttore fu Manfredi Porena, verrà costituito a Recanati dieci anni dopo, nel 1937, nel primo centenario della morte di Leopardi, e inaugurato il 29 giugno 1938.
Proprio in occasione delle celebrazioni del centenario Gentile è condotto a ripensare a Leopardi. A tal proposito terrà una commemorazione nella Seduta reale del 6 giugno 1937 della Regia accademia nazionale dei Lincei (Incanto e grandezza di Giacomo Leopardi, «Nuova antologia», 1937, 1567, pp. 3-14; con il titolo La poesia, in G. Gentile, Poesia e filosofia di Giacomo Leopardi, 1939, pp. 5-28). L’anno successivo, il 6 aprile, si soffermerà su La filosofia di Giacomo Leopardi al Lyceum di Firenze (pubblicato in Giacomo Leopardi, a cura di J. De Blasi, 1938, pp. 229-45, quindi in G. Gentile, Poesia e filosofia di Giacomo Leopardi, cit., pp. 29-55). Nelle due occasioni pubbliche Gentile torna simmetricamente a discutere del rapporto tra poesia e filosofia in Leopardi.
Nel 1937 Gentile ricorda come «il miracoloso progresso di questi cento anni, lungi dall’allontanare l’Italia dal Leopardi, l’ha portata sempre più vicino a lui, a misurare la sua grandezza» (Poesia e filosofia di Giacomo Leopardi, cit., p. 7). Tornano i richiami desanctisiani alla contraddizione leopardiana tra sentimento vitale e cruda rappresentazione, «momento satanico» e «forza d’una fede» (pp. 13-14), e lo sguardo si sofferma su alcuni Canti per meglio cogliere il «momento mistico», «di grande valore per la comprensione della sua anima» (p. 22), poiché «tutta la poesia del Leopardi attinge in quel punto mistico del ritorno alla gran madre la pace e la gioia» (p. 25). Il piccolo libro dei Canti va letto – conclude Gentile – per intero, perché spieghi «la sua dolce virtù consolatrice e animatrice» (p. 28).
Anche la conferenza del 1938 ribadisce alcuni concetti consolidati, come l’affermazione del primato in Leopardi del sentimento rispetto al pensiero: «L’essenza della poesia non è nel pensiero del poeta, ma nel sentimento che il poeta ha del suo pensiero» (p. 35). E quello dell’«unità fondamentale dello spirito del Poeta» (p. 41) che non può essere suddiviso nelle due fasi del suo ‘pessimismo’, storico e cosmico. Sottolinea anche maggiormente l’esistenza in Leopardi di due filosofie, una inferiore, il «crudo materialismo», e una superiore, il «mistico sentimento» della «vita infinita e divina» della Natura (pp. 46 e 48): «A questa religione, da cui la filosofia inferiore allontana, riconduce quella superiore, la ultrafilosofia» (p. 50). Se Gentile continua a non vedere «una vera e formata filosofia come opera riflessa e logicamente costruita su’ suoi fondamentali convincimenti e orientamenti» (p. 53), dà però qui un rilievo specifico al concetto di «ultrafilosofia», che è «la sua personalità, il suo modo di vedere e di sentire la vita» (p. 52).
Anche l’interesse e lo studio per Manzoni affonda le radici nella formazione universitaria di Gentile. Manzoni compare innanzitutto nella nota Victor Cousin e l’Italia («Rassegna bibliografica della letteratura italiana», 1898, 6, pp. 200-13), relativa alla biografia di Jules Barthélemy-Saint-Hilaire M. Victor Cousin, sa vie et sa correspondance (1895), nella quale Gentile illustra le lettere tra Manzoni e Claude Fauriel durante la composizione dei Promessi sposi e congettura intorno a uno scritto manzoniano sulla lingua nato contemporaneamente con il romanzo. Venticinque anni dopo, ristampando la nota negli Albori della nuova Italia (1° vol., 1923, pp. 123-50), si compiacerà nell’“Avvertenza” che tale scritto – il Sentir Messa – sia stato scoperto e pubblicato, grazie alla consegna del manoscritto posseduto da Matilde Schiff Giorgini, a cura di Domenico Bulferetti (1923).
Il primo saggio sul romanziere milanese risale tuttavia al 1923, anche in questo caso per un’occasione pubblica, la commemorazione a cinquant’anni dalla morte tenuta nel Teatro alla Scala di Milano il 23 maggio (pubblicata nei «Rendiconti del Reale istituto lombardo», 1923, 56, e in vari quotidiani; poi in G. Gentile, Dante e Manzoni, con un saggio su arte e religione, 1923, pp. 107-40; infine in Id., Manzoni e Leopardi, cit., pp. 1-30). Fin dall’incipit la figura di Manzoni viene estratta dalla categoria dei poeti – «come Omero, come Dante, non fu soltanto un poeta» (Manzoni e Leopardi, cit., p. 3) –, per essere vista come quella di «un grande maestro nazionale». In questo caso il legame con la religione, nazionale e cattolica, individuato attraverso l’interpretazione di Giuseppe Mazzini e di Gioberti, espressamente richiamata, è più evidente: i due ‘eroi’ risorgimentali «fin dal principio del loro apostolato, al Manzoni volsero e guardarono come alla più alta e degna guida spirituale degli Italiani» (p. 5). Manzoni, come Leopardi, è filosofo in senso ampio, che si fa intendere dal popolo, alla guisa di Socrate:
Non mai tanto filosofo da non potere essere inteso dai cuori più semplici, non così assorto nell’osserva-
zione e nell’amore di tutte le creature da non sollevarsi col pensiero costantemente ai più alti che son pure i più semplici concetti filosofici: saggio della saggezza pacata e longanime d’un Socrate, e come Socrate, perciò, ironico verso tutte le vanità e debolezze umane (pp. 8-9).
In visibile dissonanza rispetto all’interpretazione di Croce che nel 1922 aveva affermato che se si prende la parola poesia «con riferenza a certi particolari toni di passione» allora le opere anteriori al romanzo «rappresentano veramente la poesia del Manzoni, laddove nei Promessi sposi già s’inizia il lungo periodo della riflessione e della prosa» (B. Croce, Poesia e non poesia, cit., p. 135), per Gentile i Promessi sposi testimoniano nella loro interezza la vita dello spirito, espressa nell’animo umano e vanno perciò considerati poeticamente e filosoficamente in modo unitario:
La “vera” conclusione non è alla fine, né al principio, né in alcun altro luogo particolare del libro: sta nello spirito che lo anima, è in tutto il libro, come nella vita lo spirito è da per tutto poiché è nell’animo dell’uomo (G. Gentile, Manzoni e Leopardi, cit., pp. 12-13).
È questo il «santo Vero» che Manzoni invita a non tradire; vi è nell’opera manzoniana il riconoscimento pratico della verità, come aveva già visto «il Rosmini, il più grande amico del M., e per certi rispetti suo scolaro» (p. 15). Tale concretezza fa la grandezza di Manzoni, l’adesione all’ideale religioso cristiano
messo a contatto con l’umanità inferiore, e sogguardato, di tanto in tanto, con gli occhi di chi comincia da prima a sorriderne, e deve a lungo sperimentarne la forza e la potenza, per indursi, a grado a grado, a riconoscerne l’esistenza e il valore (p. 18).
Anche in Manzoni Gentile vede, come in Leopardi, la «grande tragedia» della vita, ma Manzoni ci offre la possibilità di scioglierne i nodi nella visione interiore di Dio. La poesia manzoniana inaugura quel miracolo spirituale che fu il Risorgimento italiano:
Essa sta sulla soglia del nostro Risorgimento, di quella sorta di miracolo che nella storia moderna di Europa fu compiuto da un “popolo di morti” – poiché morto parve agli stranieri il popolo italiano, – a segnare l’inizio di un’êra nuova (p. 21).
Per tale motivo Manzoni può essere considerato «il grande liberatore del popolo italiano dal secolare servaggio della letteratura, dell’arte pura, dell’indifferentismo e del dilettantismo, della rettorica e del classicismo vuoto e formale» (pp. 21-22). Egli è maestro di vita morale e di insegnamento patriottico:
E dal Manzoni gl’Italiani, in una forma o nell’altra, cattolici o no, impararono che è la fede a creare il coraggio, e che una fede era, perciò, necessaria per liberare
l’Italia dalla lunga servitù. E tutti percepirono il problema politico della patria, come un problema morale, poiché morale era il problema fondamentale, dopo il Manzoni. E tutti intesero, benché variamente, che il problema morale della vita è un problema essenzialmente religioso, perché richiede una regola che sia legge assoluta, di fronte alla quale l’arbitrio individuale non ha nessun valore: legge che sorpassa, perciò, infinitamente la sfera della iniziativa individuale, e non vi può penetrare se non con una forza che s’imponga imperiosamente, categoricamente, come può soltanto un divino volere (p. 24).
L’esaltazione dei Promessi sposi come «libro nazionale», affiancato alla Divina Commedia, conclude la conferenza.
«Tale ritratto manzoniano», osserva Blasucci, è stato considerato «quanto di più esaltatamente gentiliano e di meno manzoniano si possa concepire». Un’esaltazione che non può non condurre a «riflettere ancora una volta, insieme, sulla cecità soggettiva e sulla responsabilità oggettiva» di Gentile,
assorto in un suo velleitario programma di restaurazione risorgimentale, dove i nomi di Mazzini, di Gioberti, di De Sanctis risuonano ad autenticare una realtà così disforme dal loro spirito e ostinatamente piegata dal filosofo a un’interpretazione tutta sua, conforme alla sua fede “spiritualistica” ed “attualistica” (Blasucci 1962, p. 570).
In specie Gentile aveva curato l’anno prima la stampa degli scritti manzoniani di De Sanctis, il cui pensiero era definito «sempre vivo e possente, anche se non sempre ugualmente geniale» (G. Gentile, prefazione a F. De Sanctis, Manzoni. Studi e lezioni, a cura di G. Gentile, 1922, p. VII).
La costruzione dell’immagine di Manzoni come vate nazionale si consolida con il successo arriso a Gentile nella fondazione, nel 1937, del Centro nazionale di studi manzoniani che dirigerà fino alla morte. L’intensissima attività del Centro è evidente nei documenti d’archivio, che includono gli atti istitutivi, come il d.l. 8 luglio 1937, nr. 1679, il decreto di nomina di Gentile a commissario del Centro, unitamente a quello del bibliografo e pittore Marino Parenti a conservatore generale (11 dicembre 1937), le bozze e le modifiche dello statuto e del regolamento (i testi definitivi saranno pubblicati nel 1° volume degli «Annali manzoniani»). Alla Bibliografia manzoniana (1936) curata da Parenti Gentile aveva anteposto una prefazione nella quale ribadiva, richiamando Gioberti, l’immagine di Manzoni come antesignano della nuova Italia:
Il Manzoni aveva detto la parola che veniva su dal petto delle giovani generazioni italiane; e si trovò a un tratto, senz’esserselo proposto, ad essere il maestro e l’antesignano della nuova Italia: dell’Italia che cominciava a guardarsi dentro, nella coscienza, e a prendere la vita sul serio; dell’Italia del Risorgimento. Lo vedrà chiaramente e lo proclamerà nel ’38 il filosofo, che sarà la maggior voce del Risorgimento italiano: Vincenzo Gioberti (G. Gentile, prefazione a M. Parenti, Bibliografia manzoniana, 1° vol., 1936, p. IX).
Numerose le lettere e la documentazione attestanti l’impegno di Gentile nella gestione del Centro, a partire dalla definizione del piano dell’edizione nazionale delle opere di Manzoni, in 20 volumi, per il quale coinvolge Barbi. Nel ricchissimo epistolario con il dantista pistoiese l’attenzione ai lavori per l’edizione nazionale manzoniana, e in generale per tutto ciò che concerne il Centro, è preminente. Si segnalano, a titolo di esempio, alcune lettere del 1937, nelle quali viene delineato il piano dell’edizione nazionale, per la quale vengono definiti i seguenti volumi: 1°, Poesie, edizione critica e commento a cura di Porena; 4°, Osservazioni sulla morale cattolica, a cura di Gentile e Giuseppe Rotondi; 14°, Scritti vari (letterari, filosofici, politici ecc.), a cura di Gentile e Bulferetti; tra gli altri curatori previsti sono nominati Natalino Sapegno, Michele Ziino e Bruno Migliorini. Nelle missive traspare la volontà di dar rapido corso all’edizione nazionale; l’impegno a trovare un’adeguata collocazione fisica del Centro nella Casa manzoniana, dove Gentile nell’aprile 1939 trasferisce la raccolta dei libri dell’ex Sala manzoniana di Brera; la difficoltà nei rapporti tra i curatori dell’edizione nazionale e il conservatore Parenti, escluso da Barbi dagli aspetti più propriamente filologici e scientifici dell’attività del Centro; l’oculatezza nelle spese. Di qualche interesse anche le notizie sui rapporti con gli studiosi coinvolti nell’impresa (per es., Porena e Fausto Ghisalberti), e i consigli richiesti su figure di studiosi manzoniani, arrivati fino al duce, dei quali Gentile diffida, come nel caso di Giuseppe Lesca, curatore della prima edizione a stampa del Fermo e Lucia (1916) e dell’edizione di Tutte le opere (1928).
Curioso lo scambio epistolare con padre Agostino Gemelli, rettore dell’Università cattolica di Milano, relativo a una cerimonia da tenersi a Saint-Roch a Parigi per celebrare la presunta miracolosa conversione di Manzoni (lettere del 27 dicembre 1937 e del 7 gennaio 1938), che Gemelli smentisce («Che io sappia, scrittori di valore, pur essendo cattolici, non hanno mai affermato che si trattasse di una conversione miracolosa»). Dietro questa piccola polemica sono adombrate questioni ‘politiche’ relative alla presenza dell’Università cattolica nel consiglio del Centro manzoniano.
Desta una qualche preoccupazione a Gentile anche un’intervista sul «Popolo d’Italia» del conte Tomaso Gnoli, il quale vi appare come l’ideatore dei luoghi di attività del Centro, intervista che non piace al ministro dell’Educazione nazionale Giuseppe Bottai, avverso a Gentile, perché fa trasparire una concorrenza tra la Biblioteca nazionale braidense e il Centro. La vicenda si conclude con il trasferimento di Gnoli dalla Braidense.
Gentile prepara accuratamente, come mostrano i materiali d’archivio, il discorso d’inaugurazione del Centro tenuto il 27 marzo 1939, nel quale esalta Manzoni, dopo Dante, come «il primo poeta della nostra letteratura, che non fa letteratura», «un poeta di altissima ispirazione morale e religiosa, che parla infatti a tutti gli uomini, qualunque sia la loro fede e qualunque la loro opinione intorno alla lingua» (G. Gentile, Il Centro nazionale di studi manzoniani, «Annali manzoniani», 1939, 1, pp. 18 e 21).
La documentazione d’archivio dimostra che, sebbene Gentile manifesti un maggiore impegno sentimentale e di ricerca per Leopardi, è pur vero che molto di più si adopererà per la costruzione del ‘mito’ manzoniano, fino agli ultimi anni di vita e nel mezzo della guerra mondiale. Ecco perché, unendo Manzoni e Leopardi nel volume del 1928, replica implicitamente a uno scritto omonimo di Terenzio Mamiani (Manzoni e Leopardi, 1873) che sosteneva che entrambi «non conquistarono per sé l’avvenire» (p. 782), vedendo invece in essi gli antesignani di un’etica per la nuova Italia e anteponendo il cognome del romanziere milanese, anche se nella sostanza del libro e nelle sue ricerche prevarranno gli studi sul poeta recanatese.
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