GENTILE da Cingoli
Ignoriamo l'anno di nascita, che potrebbe essere collocato intorno alla seconda metà del XIII secolo, mentre la città d'origine di G. è unanimemente espressa, in sintagma col nome ("Gentilis de Cingulo"), dai documenti e dagli explicit di opere che lo menzionano come "reportator" o come autore; un'unica eccezione è costituita dalla più ampia formula "Gentilis de Panicali de Cingulo" utilizzata in una sottoscrizione quattrocentesca (New York, Columbia University Library, Plimpton Mss., 139, del sec. XIV: "Expliciunt flores gramatice edite a maistro Gentili de Panicali de Cingulo"; cfr. P.O. Kristeller, Iter Italicum, V, p. 306a), la quale trova esatto riscontro nella geografia della regione: Panicali è in effetti un piccolissimo borgo sito a 10 km da Cingoli (nel Maceratese) tra Pian de' Conti e Castreccioni, nei pressi di S. Maria Candelora. Grazie a un documento bolognese conosciamo il nome del padre, un tal "dominus Benvenutus"; dalla medesima fonte si deduce che nel 1295 G. abitava, a Bologna, "in domo domini Jacobini de Munariis in capella sancti Antholini". Ignoriamo se sia da identificare con G. un "magister Gentilis de Marca vel de Tuscia" accusato dall'Inquisizione di aver affermato che "homo per liberum arbitrium solum, quod habet a Deo, cum sit in pecato mortali, potest egredi de pecato mortali sine nova gratia Dei" (Acta S. Officii Bononiae ab a. 1291 usque ad a. 1310, a cura di L. Paolini - R. Orioli, Roma 1982, pp. 90 s.); in una lista di testimoni del 1302 compare poi un Bettino da Castello, "repetitor magistri Gentilis" (Colini Badeschi).
Il complesso delle fonti fornisce alcuni punti fermi relativi alla formazione parigina di G., e soprattutto alla sua attività di docente presso lo Studio di Bologna. Sappiamo che G. studiò presso la facoltà delle arti di Parigi sotto la guida di Giovanni Vate, cui fece da "reportator" in occasione di un corso sul De generatione animalium aristotelico, come testimoniato dalla sottoscrizione del ms. latore (Bibl. apost. Vaticana, Vat. lat. 4454: Questiones super librum de generatione animalium disputate per magistrum Johannem Vath et recollecte per magistrum Gentilem de Cingulo). Poiché l'opera di Giovanni Vate contiene citazioni dal Colliget (al Kulliyyāt), l'enciclopedia medica di Averroè, la cui versione latina, secondo il Tabarroni (1992), è datata 1285, lo studioso assume questa data come termine di inizio del soggiorno parigino di G.; è ovvio però che quest'anno avrà un rigoroso valore di terminus post quem solo per la cronologia del testo di Giovanni Vate e della reportatio gentiliana, mentre nulla vieta che G. seguisse i corsi parigini già negli anni immediatamente precedenti. Inoltre la data contenuta nell'incipit del ms. latore della traduzione (Cesena, Biblioteca Malatestiana, pl. D.XXV.IV, su cui cfr. La biblioteca di un medico del Quattrocento. I codici di Marco da Rimini nella Biblioteca Malatestiana, a cura di A. Manfron, Torino 1938, p. 204), condotta a Padova dall'ebreo Bonacosa, è il 1289; la traduzione viene invece datata 1255 dagli editori del De mixtione elementorum tomistico; di questo problema interpretativo dà conto Nancy G. Siraisi nel suo saggio sullo Studium padovano, la quale però, senza spiegazione ulteriore, attribuisce alla nota del cod. Malatestiano la data del 1255. Pertiene invece all'attività di docente a Bologna un interessante documento del 20 marzo 1295: un accordo "de tradenda philosophia" tra G. e il collega Guglielmo di Dessara, dottori "in eadem scientia", cioè in logica; per un triennio G. insegnerà filosofia extraordinarie agli allievi di Guglielmo, che invece spiegherà la logica ordinarie. Al 1295 si può far dunque risalire orientativamente l'inizio del magistero di G. nello Studio bolognese. Lì ebbe tra i discepoli Angelo d'Arezzo, sostenitore del monopsichismo in ordine all'interpretazione della dottrina aristotelica dell'intelletto; suo "reportator" fu Guglielmo da Varignana, come testimonia l'explicit del commento all'Isagoge porfiriana dato dal cod. che fu nella biblioteca del Salutati (Firenze, Biblioteca naz., Conv. soppr. J.X.30 (109), c. 16v: "recollecta sub […] Gentili de Cingulo per discipulum suum Guillelmum filium Magistri Bartolomei de Varegnana", su cui cfr. B.L. Ullman, The humanism of Coluccio Salutati, Padova 1963, pp. 174 s.).
Già il Kristeller (1956) sottolineava che, rispetto all'influsso dello Studio parigino sui primi aristotelici bolognesi, "the earliest tangible fact seems to be the notice that Gentile da Cingoli, who became a teacher of logic and philosophy at Bologna… attended a course on Aristotle by Johannes Vate". L'opera di G., costituita da commenti e questioni disputate, assume in effetti un notevole rilievo nella ricostruzione storica di quella translatio studiorum che comportò il trapianto fecondo, nel terreno dello studio bolognese, della speculazione già in rigoglio nella facoltà delle arti di Parigi: l'interpretazione della psicologia aristotelica nei suoi termini filosofici rigorosi, e il suo problematico rapporto col dogma religioso dell'immortalità dell'anima individuale; la concezione ilomorfica dell'individualità in ordine alla relazione tra forma e materia; l'elaborazione di una filosofia del linguaggio attraverso la combinazione dei grammatici tardo antichi con l'opera logica di Aristotele: in breve tutto quel ventaglio di questioni, più o meno legate all'interpretazione dell'opera aristotelica, che caratterizzarono gli albori della cultura universitaria europea. L'opera giuntaci sotto il nome di G. contiene due fondamentali nuclei epistemologici: quello logico-grammaticale e quello fisico-biologico.
G. è autore di commenti a una parte dell'opera logica di Aristotele (Categoriae, De interpretatione, 1300 circa, Analitica Priora), all'Isagoge di Porfirio, e al Priscianus minor, cioè gli Urtexten a partire dai quali si sviluppò, dall'inizio del secolo XIII, la riflessione sullo statuto disciplinare della grammatica: a partire dal principio aristotelico per cui non si dà scienza del particolare, ma solo dell'universale, si pose il problema di stabilire se l'oggetto della grammatica rientrasse tra quelli della scienza. La posizione che si andò affermando fu appunto che è suscettibile di riflessione grammaticale la struttura universale, comune a tutte le lingue, al di là del modo particolare e accidentale con cui ogni idioma esprime e risolve questi principî strutturali, tra i quali rientrano i modi di significare. L'intelletto astrae dalle cose particolari le loro caratteristiche comuni ed essenziali; questi modi essendi, conosciuti dall'intelletto, divengono concetti, cioè modi intelligendi, e vengono poi tradotti in serie foniche, le quali ricevono la loro forma e divengono lessemi attraverso una "prima articulatio vocis", per acquisire poi dalla "secunda articulatio vocis" i morfemi, cioè i modi significandi che le pongono in relazione tra loro in quanto parti del discorso. I maestri che sostennero questo orientamento speculativo furono perciò detti modisti; l'opera di uno di essi, il De modis significandi di Martino di Dacia, venne commentata da G.; essa fu composta, a quanto si ricava dall'accessus, prima che Martino acquisisse il titolo accademico di "magister in theologia", dunque prima del 1288; poiché G. nomina Martino come vivente, il suo scritto può collocarsi tra il 1288 e il 1304; il fatto che non si applichi a Martino il titolo di "cancellarius" del re di Danimarca Erik VI, anch'esso acquisito nel 1288, potrebbe valere, con la fragilità di un argomento e silentio, ad avvicinare decisamente la composizione del commento a quella dell'opera commentata. Attraverso questo commento avvenne, "vent'anni dopo la sua affermazione allo Studio di Parigi, l'ingresso ufficiale della grammatica speculativa nel "curriculum studiorum" dell'Università bolognese" (Alessio, p. 3); il commento a Martino di Dacia presenta la fisionomia tipica del testo destinato all'insegnamento: è infatti diviso in ventitré lectiones, e corredato da tredici questiones.
Ad altri scritti cui è affidato il pensiero di G. in ordine a questioni fisico-biologiche: la questione Utrum species sensibilis vel intellegibilis habeat virtutem alterandi corpus ad caliditatem vel frigiditatem, che il Pinborg scambiò per un commento al De anima aristotelico; e la questione disputata De mixtione elementorum, trasmessa dalle cc. 99r-105r del ms. 1533 (C.IV.20) della Biblioteca Casanatense di Roma, attribuita nell'explicit a un "magister de Cingulo".
R. Hissette segnalò per primo, nel 1980, questo testo, e riconobbe nell'imprecisato magister "sans doute Gentile". Nell'incipitario curato da L. Thorndike e P. Kibre, A catalogue of incipits of mediaeval scientific writings in Latin, London 1963, l'incipit del testo casanatense ("Queritur utrum elementa manenant in mixto") manca; vi compare invece (col. 1645) una questione assai simile (Parigi, Bibl. nat., Fonds latin 15805, cc. 26v-31r: "Utrum elementa sub formis propriis manenant in mixto"), attribuita a Taddeo da Parma o a Giovanni Gianduno dal Grabmann (1936) in base alla contraddittorietà delle indicazioni attributive offerte dai codici: se nel ms. parigino l'explicit restituisce la disputa attorno alla mixtio elementorum a Taddeo da Parma, una nota marginale recata da un secondo testimone (Firenze, Bibl. naz., ms. I.iii.6, cc. 140r-146r) la riferisce invece al Gianduno. Approfonditi questi elementi, e stabilita la seriorità della glossa marginale, Hissette ebbe a concludere che il testo fiorentino e quello parigino riportano effettivamente la medesima disputa, e che questa è da attribuirsi a Taddeo; poiché d'altronde il testo di Roma, pur centrato sul medesimo argomento, differisce nettamente da quello parigino e da quello di Firenze, rimane del tutto plausibile l'identificazione del "magister de Cingulo" nella figura del nostro autore; il fatto che G. appartenesse alla generazione immediatamente precedente a quella di Taddeo può anzi far ipotizzare - e tale è l'orientamento dell'Hissette - che Taddeo si dedicasse, nella sua questio, a un argomento cui l'esempio - e forse il diretto magistero - di G. lo sensibilizzò durante la sua formazione universitaria. Al di là dell'ipotesi plausibile ma non provata di un discepolato diretto, va considerato che il tema della mixtio elementorum ebbe una sicura rilevanza, nella sensibilità degli scolastici di fine Duecento, per il suo legame con il problema dell'unità delle forme sostanziali; a questo tema dedicò infatti un opuscolo il dottore che apportò il contributo speculativo fondamentale alla definizione dell'unità sostanziale tra materia e forma, Tommaso d'Aquino. Il suo De mixtione elementorum, composto tra il 1269 e il 1272 può costituire un utile termine di confronto per una sommaria descrizione del testo di G., tuttora inedito. La pertinenza del confronto è suggerita dal fatto che lo scritto tomistico, dedicato a Filippo de Castro Caeli, docente di medicina prima a Napoli e poi a Bologna, poté aver diffusione nello Studio ove operò G. In particolare gli editori sottolineano la presenza di questo testo in raccolte di argomento medico, in conseguenza della critica al tradizionale insegnamento della medicina mossa nel Colliget da Averroè: il filosofo arabo considerava necessario che i medici acquisissero quel bagaglio scientifico denominato nella tradizione galenica come "medicina teorica" - cioè le questioni relative alle complessioni, agli elementi e alle loro commistioni - direttamente dalla filosofia naturale e dai suoi testi (De generatione et corruptione e Meteorologica di Aristotele). Ora, se l'ipotesi della sollecitazione averroistica può essere ipotecata, per Filippo de Castro Caeli, dalla incerta datazione della traduzione padovana del Colliget prima ricordata, questo ostacolo cronologico non sussiste più per l'epoca di G.; anzi, egli dà, nella sua questione inedita, un grande spazio all'esposizione di quanto scrisse Averroè "de mixtione elementorum" nel commento al De coelo et mundo. Tommaso espone in maniera sintetica l'idea averroistica secondo cui le forme elementari, semplicissime e dunque vicinissime alla materia, sono intermedie tra le qualità accidentali e le forme sostanziali, e, suscettibili di aumento e diminuzione, permangono nel composto in quanto mezzo della stessa commistione, per rifiutarla come impossibile: quanto affermato da Aristotele (De generatione et corruptione, 307 b 29-31), cioè il fatto che le forme elementari nel composto non permangono né si corrompono, ma ne continua a sussistere solo la virtù, è inteso dall'Aquinate nel senso della resistenza, nella commistione, delle qualità elementari, le quali costituiscono qualcosa di distinto dalle loro forme sostanziali, e che tuttavia agisce nella virtù di queste ultime. G. nel suo testo parte dall'analisi di questa posizione aristotelica per dichiararne poi l'oggettiva difficoltà di interpretazione. La posizione averroistica, esposta, come quella di Avicenna, molto diffusamente, e desunta soprattutto dal commento al De coelo et mundo, è rifiutata con le stesse argomentazioni tomistiche: l'impossibilità, cioè, di un medio tra sostanza e accidente; tuttavia l'interpretazione del principio aristotelico citato in partenza è affidata da G. a un argomento diverso da quello di Tommaso. La posizione di G. (c. 101v: "Dico ergo quod ipsa elementa manent in mixto non sub actibus propriis, sed solum virtute, quia […] forma posterior et perfectior includit virtutem priorem et imperfectiorem, ut habetur secundo de anima, sicut trigonum in tetragono [...] sed forma istius mixti est posterior et perfectior formis elementorum, ideo ipsa forma mixti virtute includit formas elementorum, et […] qualitas mixti includit virtute qualitates elementorum, eo quod trigonum non est in tetragono sub actu distincto sed solum virtute") è che sia le forme sia le qualità elementari sono contenute potenzialmente nella forma e nella qualità del composto, secondo quello stesso principio di inclusione geometrica per cui la potenza superiore dell'anima comprende in sé quella inferiore. Egli non distingue dunque, come fa Tommaso per eliminare ogni via alla pluralità delle forme, tra forma e qualità; d'altronde lo scritto tomistico, forse proprio per evitare di accedere alle conseguenze che il problema del misto può generare nel rapporto tra anima e corpo prima che la questione venga risolta, non cita affatto il De anima. Nello svolgersi del ragionamento di G., invece, non solo la connessione col problema psicologico è immediatamente impiegata, ma lo stesso principio tratto dal De anima, per cui la forma più perfetta contiene quella più imperfetta, permette il recupero della posizione averroistica almeno in merito all'idea che sull'imperfezione delle forme elementari possa basarsi la loro inclusione nel composto; infatti G. dimostra alla fine un atteggiamento di conciliazione della posizione di Aristotele con quella di Averroè, e dichiara che quanto ha concluso va riferito "ad auctoritates philosophi et commentatoris que erant in oppositum", talché "quecumque dicta sunt in questione, dicta sunt secudum eorum sententiam" (c. 105r). È interessante il fatto che al termine della questio (c. 105r: "Explicit questio quedam disputata de mixtione elementorum a magistro de Cingulo"), è trascritta di seguito, a mo' di complemento del testo di G., la q. 5 del quodlibet III di Guglielmo di Ockham (1323 circa), dedicata al medesimo argomento. Ockham, come Tommaso, dice contenute potenzialmente nel composto non le forme elementari, ma solo le qualità; questa nota del quodlibet occamistico potrebbe voler riportare la posizione di G. a quella di Tommaso e di Guglielmo.
Appena abbozzata dall'Hissette (1980) è l'ipotesi che G. sia da riconoscere nel "magister Gentilis de Monte Sancte Marie in Georgio ordinis heremitanorum Sancti Augustini", autore di un Tractatus de arte et modo disputandi, e di un De fallaciis.
Ignota è la data di morte di Gentile. Urbano Averroista nella sua Expositio commentarii Averrois super Physicam, risalente al 1334 lo menziona come già morto.
Edizioni delle opere di G.: Quaestiones diputatae a magistro Gentili de Cingulo super Prisciano minori, a cura di L. Miccoli, in Linguistica medievale. Anselmo d'Aosta,… G. da C., Occam, Bari 1983, pp. 233-314; Quaestiones supra Prisciano minori, a cura di R. Martorelli Vico, Pisa 1985; G.C. Alessio, Il commento di G. da C. a Martino di Dacia, in L'insegnamento della logica a Bologna nel XIV secolo, a cura di D. Buzzetti - M. Ferriani - A. Tabarroni, in Studi e memorie per la storia dell'Università di Bologna, n.s., VIII, Bologna 1992, pp. 3-71; A. Tabarroni, G. ed Angelo d'Arezzo sul "Peryermeneias" e i maestri di logica a Bologna all'inizio del XIV secolo. Appendice. Una questione sul verbo attribuibile a G. da C., ibid., pp. 426-440.
Fonti e Bibl.: M. Sarti - M. Fattorini, De claris archigymnasii Bononienis professoribus a saeculo XI usque ad saeculum XIV, a cura di C. Albicini - C. Malagola, Bologna 1889-96, I, pp. 592 s.; II, pp. 231 s. n. XIII; L. Colini Badeschi, Lo Studio di Bologna e la Marca d'Ancona, in Studi e memorie dell'Università di Bologna, V (1920), p. 130; M. Grabmann, Mittelalterliches Geistesleben, II, München 1936, pp. 263-265; III , ibid. 1956, pp. 207-209; Id., G. da C., ein italienischer Aristotelesaufklärer aus der Zeit Dantes, in Sitzungberichte der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, Philosophisch-historische Abteilung, 1940, n. 9; B. Nardi, L'averroismo bolognese nel secolo XIII e Taddeo Alderotto, in Rivista di storia della filosofia, IV (1949), pp. 11-22; P.O. Kristeller, Studies in Renaissance thought and letters, Roma 1956, p. 576 n. 63; B. Nardi, Studi su Pietro Pomponazzi, Firenze 1965, p. 341; J. Pinborg, Die Entwicklung der Sprachtheorie im Mittelalter, Münster 1967, p. 97; C. Lohr, Medieval Latin Aristotle commentaries, in Traditio, XXIV (1968), pp. 153-155; L. Marchegiani, G. da C. tra aristotelismo e averroismo, in Annali della Facoltà giuridica di Camerino, XXXVI (1970), pp. 81-131; N.G. Siraisi, Arts and sciences at Padua. The Studium of Padua before 1350, Toronto 1973, p. 155 n. 61; R. Hissette, Note sur G. da C., in Recherches de théologie ancienne et médiévale, LXVI (1979), pp. 224-228; Id., Note complémentaire sur G. da C., ibid., XLVII (1980), pp. 281 s.; A. Maierù, La grammatica speculativa, in Aspetti della letteratura nel sec. XIII. Atti del primo Convegno internazionale di studi dell'Associazione per il Medioevo e l'umanesimo latini, a cura di C. Leonardi - G. Orlandi, Firenze 1986, p. 147; A. Tabarroni, Predicazione essenziale ed "intentiones" secondo G., in Atti del Convegno internazionale di storia della logica. Le teorie della modalità, San Gimignano,… 1987, a cura di G. Corsi - C. Mangione - M. Mugnai, Bologna 1989, pp. 277-282; R. Lambertini, "Utrum genus possit salvari in unica specie". Problemi di semantica dei verbi universali tra G. e Radulphus Brito, ibid., pp. 283-288; M. Bertagna, Il commento agli Analitici primi attribuito a G., in L'insegnamento della logica a Bologna nel XIV secolo, a cura di D. Buzzetti - M. Ferriani - A. Tabarroni, in Studi e memorie per la storia dell'Università di Bologna, n.s., VIII, Bologna 1992, pp. 241-276; R. Lambertini, La teoria delle "intentiones" da G. a Matteo da Gubbio. Fonti e linee di tendenza, ibid., pp. 277-351; C. Marmo, La teoria delle relazioni nei commenti alle "Categorie" da G. a Matteo da Gubbio, ibid., pp. 353-391; Lexikon des Mittelalters, IV, coll. 1246 s.; Dict. d'hist. et de géogr. ecclésiastiques, XX, coll. 503 s.; P.O. Kristeller, Iter Italicum. A cumulative index to volumes I-VI, p. 230.