GASPARINI, Gaspare
Nacque a Castignano, presso Ascoli Piceno, nel 1623. Entrato nell'Ordine dei frati minori conventuali, nel convento di S. Francesco del paese natale, conseguì il magistero in teologia. Nel 1661 fu nominato commissario della provincia d'Oriente e l'anno seguente provinciale. Rivestì questa carica per un triennio, recandosi a Costantinopoli e in Asia minore.
Terminato il mandato, il G. tornò in Italia e nel 1666 divenne guardiano del convento di Fano; quindi, nel 1672, intervenne alla congregazione dei conventuali che si svolse a Castignano. Nel 1675 fu commissario visitatore dei conventuali ad Avignone e in altre località della Francia; l'incarico gli valse l'assegnazione di una pensione reale di 300 piastre che impiegò nel riscatto di schiavi cristiani.
Il 15 dic. 1676 la congregazione di Propaganda Fide designò il G. vicario patriarcale di Costantinopoli. Il 25 apr. 1677 il patriarca Stefano Ugolini lo consacrò vescovo di Spiga (l'antica Pera, oggi Beyoglu) nella chiesa del palazzo di Propaganda. Il 31 maggio il G. assunse il titolo di vicario patriarcale; tuttavia dovette rimanere a Roma fino all'anno successivo a causa della lentezza delle trattative con gli ambasciatori di Francia e Venezia per la sua protezione. Partito infine per Costantinopoli, il G. prese possesso della diocesi il 2 apr. 1678, stabilendosi nell'antica chiesa conventuale di S. Francesco, nel quartiere di Galata. Qui visse per quasi trent'anni, occupandosi del governo dei fedeli di rito latino, delle relazioni con le autorità ortodosse, armene e turche e della protezione dell'ambasciatore della potenza occidentale di volta in volta più influente presso la Sublime Porta, da Venezia alla Francia e all'Olanda, senza troppo cedere alle pretese di esclusività di ciascuna.
Tra le prime occupazioni del G. fu un progetto di accordo con gli ortodossi, sollecitatogli dai francescani di Terra Santa, per la custodia dei luoghi santi, passati quasi tutti, con l'appoggio turco, ai Greci.
Il G. trattò personalmente con il patriarca ortodosso di Gerusalemme Dositeo, prefigurando una forma di coabitazione delle due confessioni sui luoghi contesi. Il progetto, già firmato dai due negoziatori, incontrò l'opposizione degli stessi che lo avevano promosso, i minori francescani che desideravano essere reintegrati nei loro esclusivi diritti anteriori. Essi riuscirono a bloccare la ratifica dell'accordo, inducendo il G. a protestare in un memoriale del 1680 alla congregazione di Propaganda. La protesta fu inefficace, giacché i minori a loro volta produssero un memoriale, il 12 marzo di quell'anno, presentando, a sostegno delle loro tesi, le firme dell'ambasciatore francese C. de Nointel e del bailo veneto P. Zivran. In realtà anche a Roma si contava più sugli appoggi politici per la tutela dei diritti dei cattolici in Palestina che non su una composizione della vertenza a livello puramente religioso. Dieci anni dopo, del resto, lo stesso G. e il custode di Terrasanta P. Marini appoggiarono l'azione di Luigi XIV che permise ai latini di rientrare in possesso del S. Sepolcro, della metà del Calvario, della pietra dell'unzione, della chiesa di S. Maria e del santuario di Betlemme.
Anche oltre quella data, però, il G. ebbe frequenti contrasti con i frati minori, tanto che nel 1696 riuscì a far richiamare a Roma il superiore della loro missione di S. Maria Draperis, accusandolo di aver oltrepassato le proprie funzioni. All'interno del suo Ordine, invece, nessuno si oppose all'accumulazione delle cariche di vescovo e di commissario generale e superiore di S. Francesco di Galata (1680).
Il G. ebbe rapporti molto buoni con gli Armeni, parecchi dei quali portò al cattolicesimo grazie all'opera di uno scelto gruppo di missionari, tra cui il georgiano P. Giambo: nell'agosto 1680 accolse la professione di fede cattolica del patriarca armeno di Egmiadzin Hacob IV, fatta in punto di morte; l'anno successivo fu la volta del patriarca di Adrianopoli; in seguito si avvicinarono a Roma, pur tra cautele ed esitazioni, le Chiese di Trebisonda ed Edessa, lo stesso patriarca armeno di Gerusalemme, Minas, e alcune popolazioni armene della Tartaria. Il legame di queste comunità con la Chiesa romana era estremamente debole, giacché bastava un mutamento al loro vertice per obbligare il G. a ricominciare il negoziato per l'unione, ostacolato anche dalla scarsa preparazione teologica del clero e dei fedeli armeni, sia greci sia latini. Per questo egli chiedeva continuamente a Roma l'invio di missionari versati nella lingua armena, e possibilmente armeni essi stessi, convinto della maggiore utilità del clero cattolico locale rispetto a quello straniero, pur se preparato nel migliore dei modi.
Tutto ciò non distolse il G. dal governo dei cittadini latini di Costantinopoli; egli giunse a estromettere, il 17 ott. 1682, una secolare istituzione che li rappresentava - la Magnifica Comunità di Pera - dall'amministrazione dei beni ecclesiastici, sui quali da tempo si commettevano abusi. Ne derivò la soppressione di fatto della stessa Comunità, a vantaggio dell'autorità del vicario, sanzionata più tardi da Propaganda Fide. Nel 1685, durante un'epidemia di peste, il G. accusò formalmente i domenicani, gli osservanti e i cappuccini di Costantinopoli di rimanere al sicuro nei loro conventi mentre solo i conventuali e i gesuiti si prodigavano per assistere la popolazione. Nel 1696 un incendio devastò Galata, danneggiando la chiesa di S. Francesco che, tra le vane proteste del G., fu confiscata dai Turchi e trasformata in moschea. Egli dovette così trasferirsi nel quartiere di Pera, in un'abitazione da lui acquistata, che sarà sede provvisoria del patriarcato latino di Costantinopoli fino al XX secolo.
Nello stesso anno un successore di Hacob IV, Nahapet, anch'egli cattolico, fu deposto dagli Armeni, contrari all'unione con Roma. Il G. riuscì a reintegrarlo nella carica grazie alle pressioni esercitate dall'ambasciata francese. Due anni dopo giunse a Costantinopoli l'abate Pietro Mechitar, che, nel convento dei cappuccini e con l'appoggio del G., istituì una congregazione, il cui obiettivo era il ritorno degli Armeni alla Chiesa di Roma, e impiantò una tipografia dove stampare libri per l'istruzione degli Armeni nonché una casa in cui preparare sacerdoti armeni da inviare missionari presso le comunità armene dell'impero ottomano.
Il G. era un assertore dell'identità nazionale armena e sosteneva che il ritorno a Roma l'avrebbe salvaguardata; tuttavia, aumentando di numero, le conversioni cominciarono a essere avvertite come una latinizzazione forzata, acuendo la secolare rivalità tra Armeni cattolici e ortodossi che sfociò, in quegli anni, in persecuzioni istigate dal patriarca armeno di Costantinopoli Efrem di Graphan. Il ricorso da parte del G. alla protezione dell'ambasciatore francese C. de Ferriol, se da una parte attenuò le vessazioni contro i cattolici, dall'altra approfondì la divisione tra gli Armeni, che raggiunse il culmine quando il Ferriol fece arrestare il nuovo patriarca armeno Avetik, deportandolo a Parigi.
Contrario a tali eccessi, tra il 1698 e il 1701 il G. lavorò a una riconciliazione tra gli Armeni, tradottasi nel "patto di concordia" firmato il 26 ott. 1701, dopo un lungo negoziato condotto dal cappuccino J. François, su direttive del G., da K. Arakelean e dal Mechitar.
Poiché le comunità armene vivevano circondate dagli Ottomani e non disponevano di chiese e clero cattolico in quantità sufficiente, il patto ammetteva l'uso del rito armeno e permetteva ai cattolici di frequentare le chiese antiunioniste e fare la comunione in divinis; da parte loro gli armeni dissidenti si impegnavano ad accogliere e rispettare i cattolici. La concessione della comunione in divinis attirò critiche sul G., il quale addusse a motivo della sua scelta la legge turca, che obbligava gli Armeni a battezzarsi, sposarsi e celebrare le esequie solo nelle loro chiese riconosciute - eccetto il caso di conversione all'islamismo - pena gravi sanzioni. L'accordo fu accolto da Propaganda Fide e da questa presentato al S. Uffizio, competente per l'esame definitivo, nel novembre 1702. Il S. Uffizio tardò a pronunziarsi finendo però, dopo la morte del G., con il contestare in singoli casi tutte le concessioni fatte. Infine, nel 1742, avrebbe deciso per la separazione ufficiale delle due comunità armene, dando vita al patriarcato cattolico di rito armeno. Solo l'azione del Mechitar, nel 1719, poté salvare alcune delle aperture volute dal Gasparini.
Gli ultimi, intensi, anni in cui il G. esercitò il vicariato patriarcale furono complicati dalla guerra della Porta contro Venezia e l'Impero. Abbandonati i legami con l'ambasciatore veneto, il G. allentò poi anche quelli con il francese per affidarsi infine alla protezione olandese. Nel 1700 dovette chiudere la missione conventuale di Adrianopoli poiché il missionario locale, sostenuto dall'ambasciatore austriaco, era stato troppo zelante nel sollecitare la liberazione dei prigionieri cristiani dopo la conclusione della pace di Carlowitz, sollevando le proteste turche.
All'inizio del 1705 il G., insieme con il vescovo di Smirne D. Duranti, respinse la pretesa dei Veneziani di riportare i francescani d'Oriente sotto la loro protezione, che ormai i religiosi ritenevano meno efficace di quella francese e olandese. Fu necessario un ricorso a Propaganda Fide, che si dichiarò unica protettrice dei missionari, senza però vietare loro, in via subordinata, il ricorso all'aiuto di tutte le potenze cristiane. Infine, nel 1706, i francescani passarono alla protezione austriaca. Questo nuovo mutamento della diplomazia patriarcale non poté essere sanzionato dal G., che morì a Pera il 22 ag. 1705.
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