GARSENDONIO (Graxendonius, Grascendonius, Grassidonius)
Si ignorano luogo e data di nascita di G., vescovo di Mantova. Torelli - accogliendo le tesi degli studiosi mantovani sette-ottocenteschi più degni di fede (Visi e D'Arco) - lo ritiene figlio del marchese Alberto d'Este sulla scorta di alcuni documenti degli anni Cinquanta del secolo XII, nei quali si fa riferimento appunto ad Alberto "quondam pat[er] ipsius episcopi".
Alcuni eruditi mantovani lo ritennero di stirpe tedesca, ma non vi è alcuna testimonianza diretta a sostegno di tale ipotesi che nacque a posteriori, forse in considerazione della familiarità che legò G. all'imperatore Federico I Hohenstaufen, del quale fu sempre fedelissimo sostenitore e alleato nelle lotte che coinvolsero l'Impero e i Comuni dell'Italia settentrionale.
La sua nomina è da collocarsi certamente dopo il 1135, anno in cui lo si trova attestato ancora come laico; la prima notizia che lo riguarda come vescovo di Mantova risale al maggio 1148, allorché prese parte alla consacrazione di una chiesa alla presenza di papa Eugenio III. Lo stesso papa intervenne nel 1151 in una controversia tra il vescovo G. e i monaci di S. Andrea, concedendo una bolla in favore della Chiesa mantovana. Il nome di G. è ricordato nella lapide celebrativa apposta nel 1154 alla nuova chiesa di S. Stefano, che fu ricostruita in quell'anno sul luogo di una precedente intitolata al medesimo santo; ancora nel 1154 G. concesse all'abate del monastero cittadino di S. Ruffino il possesso di una chiesa nei dintorni della città.
Assai più che per la sua azione pastorale, G. si distinse per le iniziative politiche e per il ruolo istituzionale svolto nel governo cittadino.
Il Comune mantovano era sorto nel 1126 per iniziativa di un ragguardevole ceto di arimanni, cioè di proprietari che, dopo il crollo del dominio canossiano, cercarono di ampliare i loro possessi prendendo a livello terre appartenenti al vescovo, titolare di un vasto patrimonio fondiario e di beni e diritti anche in città, e nello stesso tempo di proteggere i loro interessi nel commercio, che si svolgeva soprattutto lungo il Po e sul Garda. A Mantova non vi fu, come altrove, una contrapposizione violenta tra l'aristocrazia fondiaria legata da vincoli di vassallaggio e clientela al vescovo cittadino e il popolo.
Il vescovo G., che entrò in carica poco dopo la formazione dell'organismo comunale, riuscì a coagulare intorno a sé e a farsi rappresentante degli interessi non soltanto di un gruppo dominante di grandi proprietari, ma di una più vasta collettività urbana che a lui si coordinò mediante rapporti beneficiari o livellari. Inoltre G. faceva parte del medesimo ceto eminente che controllava il governo cittadino, cosicché quando egli assunse, di fatto e poi anche di diritto, funzioni di rappresentanza della collettività urbana non vi fu, rispetto al periodo anteriore, alcuna frattura all'interno del gruppo dirigente. Non a caso, per quasi tutto il XII secolo e fino alla fine del vescovato di G. i consoli continuarono a essere reclutati nelle medesime illustri famiglie.
In questo torno di tempo si manifestò appieno la saldezza del legame che univa il vescovo mantovano all'imperatore e alla sua causa: G. fu presente nel 1158 alla Dieta imperiale convocata a Roncaglia. L'anno successivo fu emanato il primo dei diplomi di Federico I (che peraltro ricalcava in gran parte quelli già emanati dai suoi predecessori) in favore della Chiesa e della città mantovane, sue fedeli sostenitrici. Federico, "interventu et peticione fidelissimi principis nostri Graxendonii mantuani episcopi, qui fidelitatem preclaram nobis et Imperio magnificis exhibuit obsequiis", confermò beni e diritti di tutti coloro che risiedevano in città, nella fortificazione chiamata Porto e nei villaggi di San Giorgio, Cipada e Formigosa, concesse loro i diritti di pesca e un tratto dei fiumi Tartaro e Oglio, i diritti di teloneo e di ripatico sul Garda, nel Bresciano, a Ferrara, a Comacchio e a Ravenna, luoghi in cui i Mantovani avrebbero potuto commerciare senza subire alcuna imposizione. Per alcuni anni, nell'opera svolta dal vescovo trovò espressione una convergenza di interessi fra aristocrazia fondiaria e arimanni; la costante fedeltà di G. alla causa imperiale incrinò soltanto temporaneamente tali profondi nessi.
Nel 1160, quando lo scontro tra Federico e i Comuni sostenuti dal papa si manifestò apertamente, G. - e con lui la città - si schierarono decisamente nel campo imperiale, riconoscendo e promettendo fedeltà all'antipapa Vittore IV, nel corso di un concilio convocato dal Barbarossa a Pavia. Nel febbraio dello stesso anno Federico ricompensò la fedeltà dimostratagli concedendo un privilegio alla Chiesa mantovana, con il quale le confermò la proprietà del monastero dei Ss. Probo e Ruffino con le sue curtes, di alcune pievi e delle relative possessioni, delle proprietà donate dalla contessa Matilde di Canossa, dei diritti di teloneo, di ripatico e di mercato e il diritto in perpetuo di battere moneta. Il riconoscimento dell'antipapa costò però a G. la scomunica emanata da Alessandro III nello stesso anno 1160.
L'influenza del vescovo filoimperiale, la valutazione dei benefici che sarebbero potuti derivare dall'alleanza con Federico e una spedizione militare intimidatoria sul proprio territorio nel 1161 indussero la città a mantenersi estranea al conflitto scoppiato apertamente fra l'Impero e i Comuni. G. fu a più riprese presente, nella primavera e nell'estate del 1161, ad atti emanati in Pavia dall'imperatore e, in un documento del 1162, egli si sottoscrisse con la qualifica di comes camerae imperialis, mentre l'anno successivo comparve con il titolo di imperialis aule comes. In questi anni il vescovo non tutelò soltanto gli interessi della Chiesa, ma anzi accentuò anche il suo ruolo di protettore della città di fronte all'Impero. Nel 1164 i Mantovani ottennero, per intercessione di G., un nuovo diploma nel quale il Barbarossa faceva dono di una regalia di 100 lire, rimetteva il contributo dovutogli per la sovvenzione delle sue spedizioni militari, prometteva di non stanziare le sue truppe a Mantova e di non distruggere né danneggiare la città e il suburbio. Nel luglio dello stesso anno Federico confermò la sua protezione e le proprietà e i diritti alla chiesa cattedrale di S. Pietro; in questa occasione G., per intercessione del quale venne ancora una volta emanato il documento, fu definito "karissimus et fidelis princeps noster", un titolo puramente onorifico, ma non per questo meno significativo. Nel 1165 fu inviato, come vicario dell'imperatore, a pacificare i contrasti scoppiati a Cesena.
La posizione di Mantova stava però rapidamente mutando, cosicché nel 1167 la città cambiò schieramento e aderì, insieme con Bergamo, Brescia, Cremona e Milano, alla Lega lombarda. G., la cui politica filoimperiale era servita al Comune come "bandiera" delle sue stesse posizioni, ma che ora diventava scomodo testimone del brusco voltafaccia, venne deposto dalla sua carica nello stesso 1167 o al più tardi l'anno successivo. Secondo alcuni eruditi locali, coerentemente con l'ipotesi di una sua origine tedesca, egli si sarebbe recato in Germania; ma è invece assai probabile che sia rimasto ancora per qualche tempo nella sua sede, come dimostra il fatto che nell'aprile 1168 una donna di Mantova donò una casa a G. (designato ancora come vescovo della città). In seguito fu eletto al suo posto Giovanni, che forse non poté entrare subito in carica dal momento che la sua presenza in Mantova è attestata soltanto dal 1174.
L'allontanamento di G. segnò il dissolvimento di antiche e consolidate alleanze all'interno del gruppo egemone cittadino, fino ad allora compatto intorno al vescovo; il cambiamento fu sottolineato dal fatto che fu un gruppo di homines novi a guidare il Comune nel conflitto contro l'Impero. Il vescovo deposto continuò tuttavia a partecipare attivamente, a fianco dell'imperatore, agli eventi politici di quegli anni, minacciando forse anche l'integrità della sua antica sede e del nuovo presule, visto che i rettori della Lega, nel giuramento di fedeltà pronunciato nel 1170 dai Bolognesi, imposero ai nuovi alleati l'obbligo di negare qualsiasi aiuto e assistenza a G. "quondam Mantuanus episcopus".
Nel 1177, quando si giunse all'accordo tra la Sede pontificia e l'Impero, G. fu ricompensato della fedeltà al Barbarossa: avendo abiurato lo scisma, egli fu reintegrato nella sua carica, mentre il vescovo che in quel momento occupava la sede mantovana sarebbe stato trasferito. Sintomo del suo intatto prestigio è la circostanza che egli, nella pace di Venezia, insieme con altri nove principes dell'Impero, fu tra coloro che giurarono il trattato in nome di Federico; in quell'occasione si qualificò "quondam Mantuanus episcopus". Nello stesso 1177 o al più tardi nel 1178 G. tornò definitivamente e con pieno riconoscimento, sia papale sia imperiale, alla sua sede; a lui scrisse Alessandro III, mentre l'imperatore confermò la transazione da questo conclusa fra il monastero di S. Benedetto e gli uomini di Pegognaga. Nel 1179 G. presenziò al II concilio Lateranense, ma nel marzo dello stesso anno era ormai reinsediato e presente in città, dal momento che fece stipulare un documento notarile "in camera domni episcopi".
Il vescovo G. aveva assolto, nel primo periodo del suo governo, una funzione di protezione e di tutela degli interessi della città nei confronti dell'imperatore senza tuttavia assumere cariche ufficiali e istituzionali quali ebbe invece dopo il suo ritorno in città. Egli, inserendosi pienamente e legittimamente nell'organismo comunale, divenne, a partire almeno dal 1181, rector civitatis oltre che vescovo; più avanti, dal 1184, G. assunse il titolo di potestas, che ebbe fino alla sua morte in alternativa a rector e accanto a quello episcopale.
Il suo zelo filoimperiale ha fatto ritenere ad alcuni studiosi che G. stesso avesse chiesto e ottenuto da Federico l'investitura ufficiale del titolo di rettore e podestà cittadino - benché di tale supposta nomina non vi sia traccia documentaria - e che egli esercitasse dunque con piena legittimità un ruolo politico. La cosa non sembra del tutto verosimile per il fatto che, in base al trattato di Costanza, l'imperatore aveva concesso l'investitura del consolato a uno dei plenipotenziari mantovani; è probabile che il potere rimanesse sempre nelle mani di G. e che il console designato non esercitasse alcun ruolo significativo.
Intorno al vescovo G. si raccolse nuovamente l'antico ceto dirigente aristocratico e comunale e si ristabilirono le vecchie alleanze di potere. Non si spezzarono i legami del vescovo con il potere imperiale: tra il 1185 e il 1187 egli fu testimone di diversi atti emanati da Federico I e da Enrico VI.
L'atto del 1187 è l'ultima attestazione in vita di G.; secondo il Breve Chronicon Mantuanum, il vescovo fu podestà cittadino per tre anni consecutivi, dal 1184 al 1186, ma è probabile che abbia ricoperto tale carica anche nel 1187, benché nel documento di quell'anno egli avesse soltanto la qualifica di episcopus. Morì quasi certamente nel 1187 o al più tardi nel 1188; in una bolla di Clemente III emanata nel giugno 1189 si faceva infatti riferimento a un contratto stipulato tra l'abate di S. Benedetto e G. "quondam Mantuanus episcopus". A conferma di questa data c'è il fatto che il vescovo suo successore, Sigefredo, è attestato a partire proprio dal 1189.
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