GANO di Fazio (Gano da Siena)
Non si conosce l'anno di nascita di questo scultore senese che, a lungo confuso con tale Galgano di Giovanni, architetto e monaco certosino (Thieme - Becker), è documentato a Siena come abitante nel rione di Vallepiatta e contribuente del Comune tra il 1302 e il 1317 (Bacci). Nel Catasto del 1318 sono infatti nominate le figlie, eredi del maestro scomparso, la cui maggiore età permette di situare la nascita dello stesso G. non oltre il 1270.
Scarse sono le notizie sicure anche circa la sua attività artistica. L'unica opera certa di G. è il Monumento funebre a Tommaso Andrei, vescovo di Pistoia, nella collegiata di Casole d'Elsa, luogo di origine del prelato. Con una breve iscrizione metrica G. rivendica orgogliosamente la paternità del sepolcro: "Celavit Ganus opus hoc insigne Senesis: / laudibus immensis est sua digna manus", mentre una più lunga epigrafe inserita nella base accerta essere il 1303 l'anno della morte del vescovo e proclama committenti dell'opera i fratelli del defunto, Iacopo e Sozzo Andrei.
Il monumento è incentrato sul sarcofago, a cassa con strette formelle a fioroni, poggiante su mensole fogliate alternate a metope. Questo sostiene la figura giacente del prelato, svelata da dietro da tre angeli, o accoliti, mentre altri due lo vegliano in ginocchio, ai due estremi. Parimenti da mensole, poste ai lati del sarcofago, sorgono colonnine dotate di capitelli a foglie con crochets angolari. Le colonnine sostengono un timpano, corso da gattoni, entro cui un arco lobato apre un vasto lunettone già ospitante una pittura (di cui resta solo il coronamento a medaglioni con un Agnus Dei centrale che ricorda lo stile di Duccio da Buoninsegna), mentre sul frontone un trilobo inquadra un Redentore benedicente.
Se l'idea di una tomba ornata da un gruppo statuario componente un compianto sul letto funebre rimanda, almeno per quanto riguarda l'Italia, ai prototipi arnolfiani elaborati nell'ultimo quarto del Duecento, appare più nuova la tipologia dell'arca pensile di cui il monumento a Tommaso Andrei resta uno dei più antichi esempi pervenuti, al pari della sepoltura del vescovo aretino Ranieri degli Ubertini (Arezzo, S. Domenico), del 1300 circa, a G. pure avvicinata (Bardotti Biasion, 1990). La forma della gabbia architettonica e, in parte, la scelta delle decorazioni, la accomuna altresì al monumento a Gregorio X nel duomo di Arezzo, opera senese forse dell'ultimo decennio del Duecento, di cui la tomba pensile dell'Andrei può costituire una sorta di riduzione, tanto da un punto di vista gerarchico quanto più strettamente dimensionale, tantopiù dovendo prendere posto in un edificio religioso di non vaste dimensioni.
Stilisticamente, ricordi arnolfiani evidenti nella fluida semplificazione linearistica e nella geometrizzante compattezza dei corpi alimentano il nitore formale dello stile di G. che, tuttavia, mostra di allontanarsi dal rigore dei personaggi di Arnolfo per andare verso una dolcezza e una musicalità suggerite dalla contemporanea pittura.
La pur viva caratterizzazione personale delle figure acquista più forti accenti di realismo ritrattistico in una erratica testa dello stesso vescovo Tommaso Andrei, proveniente, questa, dalla chiesa di S. Tommaso a Querceto, presso Casole d'Elsa (oggi al Museo archeologico e della collegiata). La testa è da attribuire a G. e va collegata alla medesima committenza familiare del vescovo, come prova un'epigrafe che ricorda come anche la costruzione da cui il frammento proviene sia stata voluta per commemorare il prelato all'indomani della morte.
L'insieme delle opere eseguite da G. a Casole deve essere situato tra 1303 e 1306, anni, presumibilmente, della prima maturità dello scultore, che l'età e il tenore dell'iscrizione farebbero ritenere da tempo attivo nell'ambito senese.
Sebbene non possa ancora essere ricostruito con esattezza il percorso artistico di G., è possibile che alla sua mano, in anni precedenti i lavori fin qui esaminati, siano da attribuire alcune sculture architettoniche della cattedrale senese, di cui alla fine del Duecento venivano proseguiti i lavori lungo le pareti d'ambito della navata, da poco innalzata, e in facciata. Tali interventi furono eseguiti sotto la guida di Giovanni Pisano e, dopo la sua improvvisa partenza nel 1296, di Camaino di Crescentino che, al pari di G. e di altri scultori attivi in quel cantiere, abitava nel vicino rione di Vallepiatta (Bacci). Il nome di G. è stato fatto (Carli, 1980) per alcuni busti benedicenti dei finestroni dei fianchi del duomo, risolti con uniformante morbidezza e conseguente cereo indebolimento dell'individualità plastica ed espressiva, secondo una rilettura dello stile nicolesco e arnolfiano propria, peraltro, di buona parte di questa generazione di scultori senesi, da cui si staccò il più abile Tino di Camaino.
Negli anni successivi al 1306, l'evoluzione dello stile di G. dovette volgere verso una più spiccata caratterizzazione emotiva delle figure. Tale aspetto, in linea non contraddittoria con la testina da Querceto, può spiegare l'attribuzione a G. (Bardotti Biasion, 1984) dei rilievi della cassa del distrutto Monumento funebre del beato Gioacchino Piccolomini nella chiesa senese di S. Maria dell'Ordine servita cui egli apparteneva (Siena, Pinacoteca nazionale). L'opera dovrebbe risalire al 1310 circa e rappresentare uno dei maggiori raggiungimenti dell'arte di G. al culmine della sua maturità.
I tre residui miracoli del beato (miracolo della porta, della mensa, del cero) sono rappresentati nella loro vera essenza di piccoli fatti quotidiani entro scenari vuoti, in cui trovano posto solo i pochi indispensabili elementi della narrazione, così che la soprannaturalità dei semplici avvenimenti - una porta che si apre, un cero che non cade, le stoviglie che non rovinano a terra - possa risaltare dai gesti e dalle espressioni dei protagonisti su cui viene concentrata l'attenzione. La morbidezza pittoricistica dei tratti è abilmente associata a contrastanti, netti linearismi nel descrivere con lucida e sintattica concisione gli episodi, in una penetrante essenzialità che blocca la narrazione in pose di espressiva eloquenza.
Uno stadio stilisticamente più avanzato e distante è costituito dal Monumento funebre di s. Margherita da Cortona, tuttora visibile nell'omonimo santuario della cittadina toscana, costituito da un'arca pensile a doppia ghimberga con ricco corredo scultoreo: il sarcofago ospita riquadri con scene della vita della santa, e miracoli post mortem trovano posto tra le mensole sottostanti. La giacente è vegliata da due angeli reggicortina, mentre più in alto si trova un'Annunciazione. Le storiette riprendono, con minore tensione emotiva, la scarna scenografia e l'essenzialità delle scene senesi, mentre le statue, in particolare quelle costituenti il gruppo dell'Annunciazione, mostrano una sensibile evoluzione tecnica per la comparsa di panneggi sollevati a giorno, estese trapanature e un più accentuato goticismo non esente da influenze del maturo Giovanni Pisano.
Il monumento, in passato legato a un documento del 1362 e attribuito ad Angelo e Francesco di Pietro, cortonesi di origine assisiate non altrimenti noti, è stato ricondotto (Bardotti Biasion, 1984 e 1995) alla mano di G., al termine della sua vicenda artistica, insieme con altri frammenti scolpiti nella stessa chiesa. Tale attribuzione si basa su una nuova interpretazione del sibillino documento relativo ai due artisti, che sarebbero non già gli autori del sepolcro ma incaricati della sola sistemazione del feretro della santa. Recentemente Carli (1990) ha invece ribadito l'appartenenza del monumento al secondo Trecento e la tradizionale attribuzione.
La tomba altare di s. Margherita da Cortona è però solo la più nota tra le molte opere, in buona parte poste in relazione con G., oggetto di una serie di gravi dissensi della critica e oscillanti talora nella datazione di alcuni decenni. Tra queste, anche le statue di santi e profeti del duomo di Massa Marittima, date a G. da Bellosi (1984), ma ritenute da altri (Garzelli, 1968; Carli, 1990) opere del secondo quarto del Trecento, o una S. Caterina d'Alessandria (collezione privata), pubblicata (Carli, 1990) come opera di G. e a lui altrimenti negata (Bardotti Biasion, 1995). In effetti l'una e le altre sembrano far parte di un nutrito gruppo di sculture costituenti una sorta di ponte tra G. e la generazione successiva, e dunque potrebbero essere opera di un'ultima sua fase stilistica - ipotesi pallidamente plausibile per la sola tomba altare cortonese - oppure, più verosimilmente, di artisti tra i molti, noti dalle fonti, che ruotavano nello stesso ambito, di cui perlopiù non si conoscono opere certe.
La morte relativamente precoce di G., avvenuta probabilmente nel 1317, o all'inizio del 1318, impedisce di supporre eccessivi stadi di evoluzione stilistica oltre il monumento Piccolomini, a lui assegnabile con relativo margine di sicurezza.
Un problema a sé stante è poi costituito dalla identificazione, a lungo sostenuta, a partire da Valentiner, tra G. e l'autore del monumento commemorativo a Beltramo degli Aringhieri, detto Messer Porrina, nella collegiata di Casole d'Elsa, nonché delle statue della Madonna col Bambino tra i ss. Imerio e Omobono sul protiro di facciata della cattedrale di Cremona, opere eseguite entro il 1313 da Marco Romano, come è stato dimostrato da Previtali (1983). Tali sculture rivelano peraltro una sensibile differenza tecnica e culturale nelle più sicure e moderne posture gotiche, nelle caratteristiche vivacemente ritrattistiche, nei tipici panneggi mossi e virtuosisticamente discosti, nelle chiome dai riccioli inanellati intorno a fori di trapano. Ciononostante, Marco Romano ricalca G. nella sua iscrizione sul Sepolcro di s. Simeone in S. Simeone Grande a Venezia, e il volto del Porrina reinterpreta la testa del vescovo Andrei, mentre l'autore della tomba altare di s. Margherita da Cortona fa tesoro degli insegnamenti di Marco per le sorprendenti statue dell'Annunciazione, a testimonianza di vicende artistiche profondamente correlate, forse originatesi tutte nel cantiere della cattedrale senese intorno al 1300, periodo in cui Marco vi avrebbe eseguito le teste e i leoni delle mensole delle architravi dei portali laterali di facciata.
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