GIUGNI, Galeotto
Nacque a Firenze nel 1497 da Luigi di Bernardo e da Maria di Ottaviano Altoviti.
I Giugni erano una delle più antiche e ragguardevoli famiglie fiorentine, presente nel governo del Comune dal 1291; da tale data fino alla fine del regime repubblicano ottennero per cinquanta volte il priorato e per diciotto il gonfalonierato di Giustizia. In particolare, il padre del G. fu priore nel bimestre 1495-96, capitano di Livorno nel 1497 e - insieme con il fratello maggiore, Antonio, che ne era il responsabile - gestiva nel 1470 una società commerciale per lo sfruttamento delle cave di allume nei pressi di Volterra, il cui socio principale era Lorenzo il Magnifico. Fu proprio la gestione fiorentina delle allumiere a scatenare la ribellione di Volterra nei confronti della Dominante, culminata con il sacco del 1472. Negli anni successivi la società ebbe alterne vicende e infine fu sciolta, con rilevanti perdite di denaro da parte dei soci, tanto che ai Giugni ne derivò un notevole ridimensionamento dello status economico e sociale.
Nonostante le difficoltà economiche della famiglia, il G. riuscì a compiere gli studi universitari, addottorandosi inutroque iure, presumibilmente presso lo Studio di Pisa, prima del luglio 1521; dal 1522 tenne per due anni il corso di istituzioni presso l'ateneo pisano, passando all'insegnamento di diritto canonico nell'anno accademico 1525-26.
La sua partecipazione alla vita pubblica fiorentina si inscrive interamente nell'arco di vita dell'ultimo regime repubblicano, che si aprì nel maggio 1527 con la cacciata da Firenze del cardinale Silvio Passerini, rappresentante dei Medici. Il primo incarico cui fu designato fu quello di cancelliere delle Riformagioni (aprile 1529).
Si trattava di una funzione eminentemente tecnica, che richiedeva una preparazione giuridica: era pertanto sempre ricoperta da notai o da dottori in legge. Il compito principale era quello di verbalizzare le sedute dei Consigli e di redigere il testo dei provvedimenti legislativi; si trattava di fatto di una carica vitalizia, perché generalmente chi ricopriva tale incarico era riconfermato annualmente.
Nell'aprile 1529 il cancelliere allora in carica, Silvestro Aldobrandini, fu accusato di avere alterato alcuni verbali di votazioni per favorire il gonfaloniere in carica, Niccolò Capponi. Ne furono pertanto chieste le dimissioni e il G. fu designato a succedergli, ma rifiutò, consentendo all'Aldobrandini di restare al suo posto. Gli storici contemporanei, come B. Varchi e G.B. Busini, sono concordi nell'attribuire questo rifiuto alla grande ambizione del G. e alla sua aspettativa di un incarico di maggior prestigio e di respiro internazionale. L'occasione giunse il 9 giugno 1529, quando fu inviato a Ferrara come ambasciatore residente, in sostituzione di Giannozzo Pandolfini.
La cacciata dei Medici da Firenze e l'affermazione del regime repubblicano, sul modello del governo del 1494, comportò l'adozione di una politica estera distinta da quella del Papato. Pur rimanendo nella Lega di Cognac con lo Stato pontificio, la Francia e Venezia, il governo fiorentino cercava contatti diretti con l'imperatore per scongiurare uno scontro militare, che sarebbe stato fatale, e per impedire il ritorno dei Medici al potere. Entrambi gli obiettivi divennero impossibili dopo il trattato di Barcellona del giugno 1529, che sanciva l'alleanza tra papa e imperatore, e ancor di più dopo il trattato di Cambrai (5 ag. 1529), con cui il re di Francia Francesco I abbandonava al loro destino gli alleati della Lega di Cognac: in questo quadro la sorte della Repubblica fiorentina appariva segnata. Il duca di Ferrara, Ercole d'Este, teneva un atteggiamento contraddittorio: da un lato manifestava simpatia e ammirazione verso la città che osava sfidare le forze congiunte e preponderanti del papa e dell'imperatore, dall'altro la sua condizione non gli consentiva alcun aiuto concreto, anzi dovette impedire al figlio, nominato capitano generale delle milizie della Repubblica fiorentina, di assumere la carica.
I motivi della scelta del G. come oratore residente a Ferrara furono, secondo il Varchi, sostanzialmente tre: l'appartenenza a una famiglia aristocratica, le sue personali doti di generosità e grande disponibilità, e la sua piena, entusiastica adesione al regime "popolare" fiorentino.
Uno dei primi interventi diplomatici del G. a Ferrara fu la mediazione tra il governo fiorentino e Michelangelo Buonarroti, che, nominato dal governo di Firenze soprintendente alle opere di fortificazione, nell'imminenza del pericolo cominciò a pensare di lasciare la città. L'occasione gli fu fornita dall'invito da parte del duca di Ferrara a esaminare le recenti opere di fortificazione da lui fatte costruire. Da Ferrara Michelangelo si recò a Venezia, manifestando l'intenzione di stabilirsi lì; constatata la sua assenza, il magistrato fiorentino degli Otto di guardia e balia emise contro di lui il bando di ribelle, con provvedimento del 13 sett. 1529. L'artista, pentito della fuga, sarebbe allora voluto tornare a Firenze, ma temeva le ripercussioni del suo gesto; allora richiese la mediazione del G., il quale riuscì a far revocare il bando e, il 20 ott. 1529, a fargli concedere un salvacondotto che consentì a Michelangelo di tornare senza pericolo al posto di responsabile delle fortificazioni.
A Ferrara il G. rimase quasi un anno, non perdendo occasione per allacciare contatti e intraprendere trattative che avrebbero potuto giovare, anche indirettamente, alla causa di Firenze: si incontrò con il gran cancelliere dell'imperatore, Mercurino Gattinara ed ebbe colloqui con i duchi di Savoia, imparentati con Carlo V, che gli promisero la loro intercessione in caso di trattative dirette tra Firenze e l'Impero. Nel marzo del 1530 il G. fu autorizzato ad accompagnare il duca di Ferrara, che si recava a Mantova per incontrare l'imperatore.
Il governo fiorentino, pur avendo visto progressivamente crollare i baluardi che avrebbero dovuto salvaguardare la città dalle forze imperiali e papali, rimase fermo sulle sue pregiudiziali: dovevano essere garantite alla Repubblica la libertà di scelta del regime istituzionale, l'integrità del territorio e l'estromissione dei Medici dal potere; ma l'imperatore fece rispondere al G., per mezzo del duca di Ferrara, che su questa base non era disposto ad aprire alcuna trattativa con la Repubblica.
Da Ferrara il G. svolgeva inoltre la sua attività a favore della Repubblica, creando diversivi che allontanassero da Firenze l'attenzione delle forze alleate del papa e dell'imperatore: cercò contatti, in vista di possibili alleanze, con i Malatesta di Rimini, recentemente spodestati dal papa dei loro feudi; si offrì di fomentare focolai di ribellione nella Romagna che richiamassero un intervento in forze del papa e intavolò trattative con i Bentivoglio (cacciati da Bologna al tempo di Giulio II), promettendo loro aiuti militari.
Ma la situazione di Firenze era ormai disperata: l'assedio che la cingeva dall'ottobre 1529 nei primi mesi dell'anno successivo si fece più stretto, impedendo perfino i regolari rifornimenti. Il G. non cessò di adoperarsi per procurare alle milizie fiorentine il salnitro e altri generi necessari per gli armamenti, che talvolta giungevano d'Oltralpe; cercò di arruolare soldati nel Nordest della penisola per rimpinguare le truppe fiorentine e promosse anche una sottoscrizione in denaro da parte dei mercanti fiorentini residenti nel Veneto: l'unico a rispondere all'appello fu Piero Soderini, che da Vicenza fece giungere al G. una modesta somma di denaro. Il G. allora scrisse alla Signoria di Firenze mettendo a disposizione la sua stessa casa, da mettere in vendita per finanziare la resistenza della città.
All'inizio dell'estate del 1530, mentre la situazione di Firenze appariva ormai disperata, il duca di Ferrara dovette uscire dall'atteggiamento ambiguo tenuto fino a quel momento e, per non inimicarsi il papa, dovette espellere il G., che fece quindi ritorno a Firenze.
Ai primi di agosto la resa appariva ormai inevitabile e la Signoria elesse i rappresentanti che avrebbero dovuto firmare la capitolazione davanti al papa e all'imperatore; furono eletti il G. e Pierfrancesco Portinari, che però non furono inviati. Il 12 ag. 1530 la fine della Repubblica fiorentina era ormai un fatto compiuto: fu insediata una Balia, che avrebbe guidato il trapasso verso il nuovo regime, inevitabilmente dominato dai Medici. Tra i primi atti della Balia ci fu l'epurazione degli esponenti più in vista del passato regime, alcuni dei quali furono subito giustiziati, altri imprigionati e altri ancora, tra cui il G., condannati all'esilio e alla confisca dei beni. Al G. fu assegnata come residenza coatta la città di Como, ma sembra che non vi si sia mai recato e che abbia invece scelto Venezia.
In occasione dell'arrivo a Bologna dell'imperatore Carlo V, nell'autunno del 1532, i fuorusciti fiorentini pensarono di inviargli un'ambasceria di tre membri, che richiamasse l'attenzione dell'imperatore sulla loro situazione e sul fatto che a Firenze, nonostante la capitolazione dell'agosto 1530 prevedesse il mantenimento di una forma di governo repubblicana guidata da un duca a vita sul modello del doge veneziano, era stato in realtà istituito un governo monocratico. Furono designati a quest'incarico il G., Francesco Corsini e Lorenzo Carnesecchi, ma la loro partenza fu bloccata dall'opposizione dei fuorusciti residenti a Venezia e a Modena che confidavano, più che in iniziative dirette, nell'intercessione a loro favore del re di Francia.
Alla morte di Clemente VII (settembre 1534) Roma divenne la base delle operazioni e dei contatti tra gli esuli politici fiorentini, le cui file si erano andate ingrossando in quei primi anni di governo mediceo a Firenze, per i metodi rozzi e autocratici del primo duca di Firenze, Alessandro de' Medici. Al gruppo dei fuorusciti repubblicani si erano infatti aggiunti personaggi di spicco già filomedicei, come Filippo Strozzi, Bindo Altoviti e perfino l'ex commissario papale a Firenze Baccio Valori, nonché i tre cardinali fiorentini Niccolò Ridolfi, Giovanni Salviati e Niccolò Gaddi. Essi, più che un mutamento di regime a Firenze, auspicavano la sostituzione del duca Alessandro con un altro esponente di casa Medici, il cardinale Ippolito. Fino a che Alessandro aveva goduto della protezione del papa, era stato impensabile tentare qualcosa contro di lui, ma ora l'operazione si faceva possibile. Anche se gli scopi erano più limitati, una parte del programma coincideva quindi con quello degli esuli repubblicani, che, meno provvisti di beni di fortuna e di appoggi, niente avrebbero potuto fare da sé.
Uno degli strumenti adottati per dare unità d'azione e garantire una rapida circolazione delle informazioni tra i fuorusciti sparsi in varie città d'Italia e all'estero fu l'istituzione di sei procuratori permanenti, che avrebbero costituito una sorta di direttorio di tutto il movimento: uno di essi fu il G., poi sostituito da Filippo Parenti. Nelle discussioni e nelle iniziative prese dai fuorusciti in quegli anni il G. ebbe sempre un posto di primo piano, insieme con Silvestro Aldobrandini, presumibilmente in ragione della loro laurea in legge. Nel marzo 1535 il G. fu designato come uno dei tre ambasciatori dei fuorusciti che dovevano incontrare a Barcellona l'imperatore Carlo V. Il loro mandato prevedeva una protesta per l'inosservanza (tollerata dall'imperatore) da parte del duca Alessandro de' Medici della capitolazione del 1530, nonché il compito di porre sotto gli occhi dell'imperatore la lunga sequela di arbitri, illegalità e veri e propri misfatti compiuti dal duca. All'ultimo momento però i cardinali e altri esponenti filomedicei inviarono propri oratori per porre l'accento soltanto sulla condotta personale del duca di Firenze. Il tentativo fu poco incisivo, anche perché Carlo V rimandò ogni decisione al suo ritorno dall'impresa che andava preparando contro i Turchi, ma l'episodio mise in luce le persistenti divisioni nel movimento dei fuorusciti.
Una missione in tutto analoga fu condotta nel dicembre dello stesso anno, durante il soggiorno a Napoli di Carlo V di ritorno dall'impresa d'Africa; era atteso di lì a poco l'arrivo di Alessandro de' Medici, cosicché l'imperatore avrebbe avuto l'opportunità di ascoltare anche la sua risposta. Il G. partecipò all'elaborazione dell'atto d'accusa contro il duca di Firenze, arricchendolo con fatti personali: poco tempo prima a Firenze era stato imprigionato per ordine di Alessandro uno dei fratelli del G., Girolamo, perché trovato in possesso di una sua lettera. La risposta del duca fu affidata all'oratore Francesco Guicciardini che, con le sue argomentazioni, fece uscire vincitore dalla contesa il duca Alessandro, almeno agli occhi dell'imperatore; inoltre la morte, pochi mesi prima, del suo rivale, il cardinale Ippolito de' Medici, aveva contribuito a rafforzare ulteriormente la sua posizione.
Il racconto di queste vicende lasciato dal G., la Narrazione fatta per messer Galeotto Giugni del processo della causa agitata appresso la cesarea maestà per la ricuperazione della libertà di Firenze contro il duca Alessandro, costituisce la fonte più attendibile di questi avvenimenti, in quanto egli, a differenza di altri storici contemporanei, prese parte in prima persona agli avvenimenti narrati. Del testo, pubblicato in Rastrelli e in Varchi, esistono varie copie manoscritte presso l'Archivio di Stato e la Biblioteca nazionale di Firenze.
La questione istituzionale fiorentina si riaprì inaspettatamente un anno dopo, quando il duca Alessandro fu ucciso dal cugino Lorenzo de' Medici. Il fatto riaccese le speranze dei fuorusciti, che cominciarono a muoversi freneticamente in varie direzioni, per tentare di imporre un cambiamento di governo: i tre cardinali fiorentini spedirono il G. a Venezia, dove si trovava Filippo Strozzi, per convincerlo a usare le sue ingenti risorse finanziarie per organizzare una spedizione armata su Firenze. Intanto essi stessi si sarebbero diretti a Firenze, cercando di raccogliere, strada facendo, un corpo di soldati.
La pronta designazione di Cosimo I de' Medici a successore di Alessandro e il tempestivo richiamo a Firenze dell'esercito comandato da Alessandro Vitelli sconsigliarono allora la realizzazione del progetto; nei mesi successivi, tuttavia, fidando nella precarietà del regime cosimiano e nell'aiuto militare promesso dal re di Francia, i fuorusciti non misero da parte i loro piani e intensificarono i contatti e gli accordi per realizzare un attacco in forze contro Firenze, cui sarebbe seguito un cambiamento di regime protetto dall'alleanza con la Francia.
In quel periodo il G. si spostò incessantemente tra Roma, Venezia, Bologna e altre città, per tenere i contatti soprattutto fra i cardinali fiorentini e Filippo Strozzi. Alla fine di luglio del 1537, quando già una parte delle truppe si muoveva da Bologna verso Montemurlo, dove si sarebbero acquartierate in attesa dei rinforzi provenienti dalla Francia, condotti da Piero Strozzi, il G. si distaccò dal gruppo dei fuorusciti per recarsi nel territorio di Barga, allora enclave fiorentina incuneata tra lo Stato lucchese e quello estense e tradizionale ricettacolo di ribelli e banditi. Qui egli si incontrò con due famigerati capi del banditismo locale, Matteo Bartoli, detto "capitan Galletto", che sulle colline della Garfagnana aveva costituito una sorta di dominio personale, e il cosiddetto "prete Altobello". Con il loro aiuto arruolò una piccola banda di montanari, armati di accette e picche: con essi tentò un'azione dimostrativa contro il giusdicente fiorentino a Barga la notte del 1° ag. 1537. Il mattino seguente riprese la strada per riunirsi ai fuorusciti, portandosi dietro alcuni dei componenti più abili della banda con cui pensava di ingrossare l'esercito, ma per strada fu avvertito dell'avvenuta rotta di Montemurlo, che mise fine definitivamente alle speranze e alle trame degli esuli fiorentini.
Dopo Montemurlo il G. sembra essersi stabilito a Roma, dove fu raggiunto dalla madre e da un fratello. Non si riconciliò, come la maggior parte dei fuorusciti, con il nuovo duca di Firenze e probabilmente non tornò più in patria. Nel luglio 1540, in occasione di una controversia legale insorta tra il fratello Niccolò e un mercante fiorentino, scrisse al duca Cosimo de' Medici, chiedendo che i suoi trascorsi politici non fossero fatti pesare in questa occasione a favore della parte avversa. Nel luglio 1541, sempre a Roma, fu arrestato e tradotto in carcere, benché gravemente malato di febbre terzana, in seguito a pettegolezzi venuti all'orecchio di Luis Manrique marchese di Aguilar, rappresentante imperiale a Roma, sulla sua presunta partecipazione a un complotto per uccidere l'imperatore. Con la stessa imputazione fu arrestato anche Sinolfo Petrucci, auditore del cardinale A. Trivulzio.
Il G. fu rilasciato su cauzione a causa delle sue condizioni di salute e poi nuovamente imprigionato nel carcere di Tor di Nona ai primi di agosto. Fu infine rilasciato definitivamente il 19 ag. 1541. Secondo G. Busini, il G. morì a Roma pochi giorni dopo.
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