MONTEMARTINI, Gabriele Luigi
MONTEMARTINI, Gabriele Luigi. – Fratello minore di Giovanni e di Clemente, nacque il 6 marzo 1869 a Montù Beccaria (in provincia di Pavia) da Pietro, medio proprietario terriero e per molti anni sindaco del paese, e da Angela Mascheroni.
Nel 1886 si iscrisse alla facoltà di scienze naturali dell’Università di Pavia, ambiente pervaso dalla cultura positivistaevoluzionista, dove ebbe come maestro il botanico Giovanni Briosi. Dopo la laurea, conseguita nel luglio 1890, proseguì nell’attività di studio e di ricerca come assistente di Briosi e nel 1899 ottenne la libera docenza in botanica. Dal 1906 al 1943 curò la pubblicazione della seconda serie della Rivista di Patologia Vegetale; dal 1911 al 1921 insegnò patologia vegetale alla Scuola superiore di agraria di Milano e poi all’Università di Pavia. Come fisiologo si occupò in particolare del problema del ricambio idrico, mentre come fitopatologo studiò numerose malattie delle piante, soprattutto i problemi biologici connessi con le ruggini.
Al rilevante e fecondo impegno in campo scientifico Montemartini associò un’intensa e appassionata attività politica. Dal 1892 fu consigliere comunale a Montù Beccaria e l’anno successivo vi fondò il circolo socialista. Nel 1898 entrò nel Consiglio provinciale e il 25 giugno 1899 fu eletto al Consiglio comunale di Pavia, riconfermato quasi senza interruzione per oltre un ventennio. Come amministratore locale e presidente del Consiglio ospitaliero diede un forte impulso alla costituzione del policlinico di Pavia. Nel 1919 divenne presidente del Consiglio provinciale e dal novembre 1920 al 28 ottobre 1922 fu assessore alle finanze del Comune di Pavia nella giunta socialista guidata da Alcide Malagugini. Nel 1900, candidato nel collegio di Stradella, fu eletto alla Camera dei deputati, dove sedette ininterrottamente fino al 1924. Fu anche un assiduo collaboratore di Critica sociale, nonché redattore e, tra il 1904 e il 1906, direttore del periodico pavese La Plebe.
Gli esordi politici di Montemartini sono fortemente legati alle lotte del movimento contadino della sua terra agli inizi del Novecento:
«Organizzatore sindacale lui stesso e profondo conoscitore delle esigenze delle diverse categorie contadine, grazie soprattutto alla coincidenza che vede rappresentato nella provincia di Pavia un campione significativo dell’intera pianura padana – braccianti in Lomellina, fittabili e salariati fissi nel contado pavese, piccoli proprietari conduttori nell’Oltrepò – egli si configura però anche, autorevolmente, come ‘uomo di partito’. Possiede infatti tutte le caratteristiche necessarie per completare l’immagine ideale del deputato- organizzatore, chiave di volta del sistema di relazioni tra movimento politico e movimento sindacale, anello indispensabile di collegamento tra la base proletaria e i quadri dirigenti » (Tesoro, 1986, p. 201).
Segnalatosi per alcuni interventi sulla questione agraria, Montemartini venne incaricato di svolgere la relazione sull’organizzazione dei lavoratori della terra al VII Congresso nazionale del Partito socialista italiano (PSI), che si svolse a Imola nel settembre 1902. In sintonia con le posizioni di Filippo Turati e della Critica sociale sosteneva che le leghe dovessero puntare, senza alcuna preclusione di tipo ideologico, ad acquisire il più ampio consenso tra le masse contadine, per innalzarne «il livello morale e materiale [...] e dare loro: la coscienza e lo spirito di classe» (Sopra l’organizzazione, 1902, p. 8).
Era questo, a suo avviso, il modo di condurre un’efficace politica proletaria: «facendo la propaganda puramente economica noi compiamo opera politica [...]. Non la propaganda nostra ma la forza stessa delle cose porterà a noi sul campo politico i lavoratori [...]. Il concetto della conquista dei pubblici poteri sarà risultato chiaramente dalla lotta economica e a questa conquista i contadini si accingeranno pur sapendo di dovere prima prepararvisi con un lungo lavoro. [...] Soltanto allora essi comprenderanno l’importanza del diritto di voto che finora hanno sempre trascurato» (ibid.).
Montemartini era pertanto convinto che il movimento contadino non fosse ancora attrezzato per ingaggiare uno scontro frontale con il padronato e che la sua estrema eterogeneità richiedesse un modulo organizzativo flessibile. Messa in pratica nel circondario di Pavia e nell’Oltrepò, questa concezione, contro cui a Imola era insorto Enrico Ferri, ebbe esiti disastrosi: nel volger di poco più di un anno del forte movimento, cresciuto sull’onda degli scioperi dell’estate 1901 fino a raggiungere gli 8000 aderenti, restava ben poco, mentre in altre zone come la Lomellina, il tessuto organizzativo delle leghe rivelava una ben maggiore capacità di tenuta. A fare la differenza era stato soprattutto l’indirizzo moderato e prudente di Montemartini, che così esortava i salariati agricoli: «Siate forti e calmi, bisogna combattere lealmente, da uomini civili [...]. Tanto più otterrete quanto più vi mostrerete generosi verso chi vi sfrutta» (La Plebe, 20 maggio 1902).
Nel prendere atto degli assai magri risultati del suo gradualismo riformista, che fecero guadagnare consensi alle correnti rivoluzionarie del PSI, Montemartini ne attribuì la causa al mancato o scarso coordinamento tra il livello economico-sindacale e quello politico-parlamentare. Per Montemartini un ruolo fondamentale doveva svolgerlo il movimento cooperativo, che oltre a educare le masse lavoratrici alla solidarietà di classe, poteva contribuire alla formazione dei quadri dirigenti socialisti fornendo loro le capacità tecnico-professionali necessarie per la gestione dei pubblici poteri.
L’affermazione dei principi cooperativistici tra piccoli viticultori fu forse il tratto più originale dell’attività politica del Montemartini. Nel 1901 promosse la costituzione della cantina sociale di Montù Beccaria, cui fece seguito quella di San Damiano e di Montescano (fuse poi nelle Cantine sociali riunite di Stradella) e nel 1909 divenne presidente della Federazione delle Cantine Sociali dell’Oltrepò.
Nella visione di Montemartini l’interesse per la cooperazione si collegava alla questione della piccola proprietà contadina. Già nel gennaio 1895 era intervenuto sulle pagine della Critica sociale per contestare, sulla base della sua esperienza diretta, la tesi dell’inevitabile decadenza della piccola proprietà rurale e l’obiettivo della proletarizzazione delle campagne. Secondo Montemartini, anziché agitare il fantasma degli espropri che spaventava i piccoli proprietari e acuiva il loro radicato istinto di possesso della terra, il PSI avrebbe dovuto attrarli e renderli partecipi, attraverso la cooperazione, del progetto di trasformazione socialista. Sarebbero stati i benefici concreti ottenuti con tale metodo a convincerli ad abbandonare spontaneamente la mentalità individualista aderendo alla formula collettivista.
Per quanto il PSI e la Federterra ignorassero le sue sollecitazioni, Montemartini proseguì con determinazione la sua battaglia per i piccoli proprietari. Sin dal suo primo intervento alla Camera, il 16 maggio 1901, chiese in loro favore agevolazioni creditizie, fiscali e previdenziali, nonché incentivi per l’adozione di nuove tecnologie e la tutela della qualità dei prodotti. Al IV Congresso della Federterra (Bologna 2-5 marzo 1911), svolse, insieme con Francesco Amateis, la relazione sul problema dei piccoli proprietari e accolse con soddisfazione la delibera congressuale contro il disegno di legge Luzzatti per la conservazione della piccola proprietà contadina. Posizioni convergenti vennero assunte, auspice Montemartini, dal I Congresso dell’Associazione nazionale dei piccoli proprietari, svoltosi nel settembre 1912 ad Alessandria, che nella propria piattaforma programmatica riconosceva «l’organizzazione di classe [...] come l’unico mezzo per soddisfare i bisogni della piccola proprietà soprattutto nel campo della mutualità e della cooperazione» e affermava che gli obiettivi della categoria andavano perseguiti «in armonia con [quelli del] proletariato organizzato dei campi e delle officine»(Tesoro, 1986, p. 211).
In merito alla politica generale Montemartini riteneva che il movimento organizzato dei lavoratori dovesse adattare il proprio agire alla concreta situazione politica. Pertanto se la stretta autoritaria impressa da Francesco Crispi giustificava l’adozione di metodi di lotta extralegali (egli stesso nel 1894 era stato condannato per aver organizzato una manifestazione di solidarietà coi Fasci siciliani), in un quadro politico diverso, come quello dominato dalla personalità di Giovanni Giolitti, si aprivano nuove prospettive per l’attuazione del programma gradualista-riformista. Per Montemartini il PSI doveva cogliere questa opportunità perseguendo l’obiettivo dell’alleanza con le forze della borghesia disponibili. Tali posizioni erano ampiamente condivise all’interno del Gruppo parlamentare socialista, di cui Montemartini fu segretario tra il 1904 e il 1912, difendendone sempre l’autonomia rispetto al partito.
Il socialismo umanitario e pacifista di Montemartini, che lo indusse a opporsi risolutamente all’impresa libica e all’intervento dell’Italia nel primo conflitto mondiale, mal si conciliava con la teorizzazione della violenza rivoluzionaria in auge nel ‘biennio rosso’. Montemartini, che considerava inaccettabili le condizioni imposte al PSI dall’Internazionale di Mosca, non abdicò alla sua concezione rigorosamente legalitaria neanche quando gli uomini, le organizzazioni e le sedi del movimento operaio e contadino divennero bersaglio della violenza fascista. Era piuttosto convinto che per fronteggiare l’attacco reazionario fosse necessaria un’intesa di governo, in funzione antifascista, tra il PSI e le forze della borghesia laica e cattolica. Questa linea collaborazionista fu censurata dal XIX Congresso del PSI (Roma,1-4 ottobre 1922), che decise l’espulsione dei riformisti, tra cui Montemartini.
Nel 1926 per la sua opposizione al regime fascista Montemartini fu allontanato dalla cattedra all’Università di Pavia e condannato a due anni di confino a Roma, dove frequentò l’Istituto di Botanica. Abbandonato l’impegno politico e non più sottoposto al controllo di polizia, nel 1928 fu destinato alla cattedra di botanica dell’Università di Palermo, dove svolse un’intensa attività scientifica come direttore, dal 1929 al 1939, dell’Osservatorio per le malattie delle piante e dell’Orto botanico.
Nel 1945, al termine della guerra, fece ritorno a Montù Beccaria, dove venne designato alla carica di sindaco. Eletto, il 2 giugno 1946, all’Assemblea costituente, nel gennaio 1947 aderì alla scissione di palazzo Barberini e al nuovo Partito socialista dei lavoratori italiani. Fu nominato senatore di diritto nella I Legislatura in virtù della III norma transitoria della Costituzione.
Morì a Pavia il 5 febbraio 1952.
Opere: Fisiologia vegetale, Milano 1898; La municipalizzazione dei pubblici servigi, Milano 1902; Sopra l’organizzazione dei lavoratori della terra, Imola 1902; Sulla nutrizione e riproduzione nelle piante. Ricerche, I (parte 1 e 2), II ( parte 3- 6), Milano 1910; Le piante esotiche in Italia, s.l. né d.; A quarant’anni dalla morte di Darwin, Pavia 1923; Cotonicoltura italiana, Roma 1941.
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