RASI, Francesco
RASI (Raso, Rasio, Rassi, Rasius), Francesco. – Nacque ad Arezzo il 14 maggio 1574 da genitori di nobile discendenza, Anna Ricoveri e Ascanio Rasi, e fu battezzato l’indomani.
Il padre lavorava dal 1576 o 1577 presso la corte fiorentina; rimasto vedovo nel 1576, sposò Gemma Biffoli. Poesia e musica erano arti praticate in famiglia: dei numerosi fratelli e fratellastri di Rasi (da lui stimati in 29, di cui nove vivi nel 1609) Girolamo era versato in poesia, Gregorio (monaco vallombrosano) in musica, mentre Maria fu una (mediocre) allieva di Giulio Caccini.
Nel 1588 Rasi risulta, dal ruolo di corte, al servizio dei Medici, al compenso di due scudi al mese, fra i cortigiani («provisionati signori di cappa corta e veste lunghe»). A fine aprile del 1601, in una lettera a Vincenzo Gonzaga duca di Mantova (Kirkendale, 1986, pp. 303 s.), raccontò egli stesso alcuni avvenimenti occorsigli nel decennio 1590-1600: per accontentare il padre aveva studiato legge a Pisa qualche anno (è citato, nell’ottobre del 1592, nella Lista delli scolari di Sapienza), ma presto si era dedicato alle lettere e alla musica, più utili, a suo dire, alla formazione del gentiluomo, iniziando a viaggiare per farsi apprezzare come virtuoso. Roma, dove soggiornò fra il dicembre del 1593 e il febbraio del 1594, fu la prima tappa: vi riscosse un successo tale che Emilio de’ Cavalieri, riferendo al granduca Ferdinando I de’ Medici che alcuni nobili lo desideravano al proprio servizio (vuoi residenti, come Virginio Orsini e il cardinal Montalto, vuoi di passaggio, come Gesualdo da Venosa), suggerì al medesimo di aumentare il salario a Rasi (da due a otto scudi) per non perderlo. Gesualdo, come scrisse il padre Ascanio nel novembre del 1594, fece di tutto per ingaggiarlo: va probabilmente identificato con Rasi il «fiorentino del signor principe [Gesualdo]» che accompagnò quest’ultimo da Roma a Napoli a settembre (1594; Newcomb, 1968, p. 432). Negli anni successivi ebbe contatti anche con Orsini: nel marzo 1595 gli inviò una composizione, sperando di ottenerne un favore, e a novembre, da Mantova, dove aveva iniziato a lavorare per i Gonzaga, gli chiese un organo, non trovandone in Lombardia. In estate prese lezioni di canto, come tenore, da Giulio Caccini (a Firenze), in ottobre fu di nuovo a Roma, e tra fine 1595 e inizio 1596, prima di tornare a Mantova, probabilmente passò da Ferrara, dove potrebbe aver rincontrato Gesualdo e conosciuto Girolamo Frescobaldi.
Che sia stato allievo di Caccini lo dichiararono anche due trattatisti seicenteschi, Vincenzo Giustiniani, che ne lodò l’estensione vocale, l’abilità virtuosistica e la forza espressiva, e Severo Bonini, che lo descrisse «di bello aspetto, gioviale, di voce granitica e suave» (Bonini, 1650, a cura di L. Galleni Luisi, 1975, p. 109). Lo si è voluto identificare nel ritratto di un uomo con foglio di musica di Domenico Fetti (Malibu, J. Paul Getty Museum), pittore attivo alla corte mantovana (1614-22; cfr. Roberts, 2013).
Sempre nella lettera dell’aprile 1601 Rasi spiegò che i suoi viaggi non si limitarono all’Italia: «viddi la maggior parte della Germania e, in compagnia del vescovo di Caserta [Benedetto Mandina], nunzio di Sua Santità, mi condussi alla corte del re di Pollonia». Il viaggio polacco fu programmato per il settembre 1595, quando il granduca lo raccomandò a Sigismondo III Vasa, che a inizio anno aveva trasferito la corte da Cracovia a Varsavia ed era in cerca di musicisti italiani per la cappella. Rasi partì a gennaio del 1596; durante il ritorno, nei pressi di Vienna, si ruppe una gamba balzando fuori da una carrozza che stava deragliando: l’incidente ne ritardò il rientrò in Italia fino al novembre 1597, quando fu ospite a Venezia di Pietro Priuli.
A Mantova, verosimilmente nel 1598, fu eletto «gentiluomo» (come dichiara nella stessa lettera); a giugno, accompagnandosi con il chitarrone, cantò in un intermedio del Pastor fido di Battista Guarini, in occasione di una visita del cardinal Pietro Aldobrandini. Da giugno a metà ottobre del 1599 fu, con Claudio Monteverdi, al seguito del duca in un viaggio verso i Paesi Bassi, passando per Trento, Innsbruck, Basilea, Liegi, Bruxelles e Anversa (da dove scrisse lettere a Jacopo Corsi). A metà febbraio 1600 anche suo padre fu assunto a corte a Mantova come ‘capitano di giustizia’. A inizio luglio Rasi fu chiamato a Firenze per provare le opere programmate a inizio ottobre per le nozze fra Maria de’ Medici ed Enrico IV di Francia, ma il suo arrivo fu posticipato fino ai primi d’agosto, essendo egli impegnato a Venezia con il duca. Per recarsi a Firenze necessitò di un salvacondotto del granduca per evitare che, durante gli spostamenti, venisse arrestato per i debiti contratti in Polonia (con i Montelupi) e nelle Fiandre.
Durante i festeggiamenti medicei impersonò Aminta nell’Euridice di Ottavio Rinuccini, Jacopo Peri e Caccini (lo dichiara la prefazione alla partitura di Jacopo Peri, pubblicata nel febbraio 1601); e probabilmente Febo e Giove nel Rapimento di Cefalo di Gabriello Chiabrera e Caccini (nelle Nuove musiche di Caccini la didascalia di «Qual trascorrendo per gli eterei campi», terza strofa nel coro finale del Rapimento, dice che Rasi la cantò «parte con i propri passagi e parte a suo gusto»; Firenze 1602; cfr. Kirkendale, 1993, p. 567).
A metà aprile 1602 Priuli lo richiese per qualche giorno a Padova, necessitando di musica per alleviare i suoi malanni, ma il duca di Mantova rispose che era indisposto e di malumore. Ad agosto il padre fu accusato di contatti con il teologo francescano Bartolomeo Cambi, suo vecchio conoscente, che in un sermone a Mantova aveva accusato il duca di aver favorito i profitti degli ebrei, causando una sollevazione popolare contro questi ultimi. In conseguenza di ciò il duca informò il papa dell’incidente e, fra i provvedimenti presi, fece arrestare, imprigionare e poi scarcerare Ascanio, che perse l’incarico. Alla ricerca di autorevoli appoggi ecclesiastici che scagionassero il genitore, Rasi si recò a Roma da settembre a metà ottobre (quando partì per Firenze) e vi ritornò fra dicembre e gennaio, cercando, fra l’altro, in questi soggiorni di farsi assumere dal cardinale Aldobrandini, cosa che gli avrebbe permesso di non tornare a Mantova. A gennaio del 1603 Rasi, che dai Gonzaga prendeva quattordici scudi mensili (sedici dal 1621), promise che sarebbe rientrato a Mantova a patto che al padre fosse affidato un incarico importante: a marzo del 1604 Ascanio fu nominato senatore e podestà di Alba. Rasi trascorse l’estate 1604 a Firenze, per le nozze di una sorella; passando da Savona incontrò l’amico Chiabrera.
Nel febbraio del 1607, alla corte dei Gonzaga, impersonò il ruolo eponimo nella Favola d’Orfeo di Alessandro Striggio e Monteverdi, voluta dal principe ereditario Francesco Gonzaga, per l’Accademia degli Invaghiti, e allestito grazie ai virtuosi ingaggiati a Firenze dal fratello Ferdinando, in uno spirito di costante scambio di artisti fra le due corti.
È ipotesi accreditata che le due versioni musicali dell’aria del terz’atto «Possente spirto e formidabil nume» nella partitura a stampa (Venezia 1609), l’una florida e l’altra sillabica, attestino rispettivamente i ‘passaggi’ effettivamente eseguiti da Rasi nelle recite mantovane e lo ‘scheletro’ melodico che ciascun cantante avrebbe poi potuto fiorire a suo modo (l’ipotesi, formulata da Lorenzo Bianconi, è riportata in Rosand, 1991, p. 21 n.; trad. it. 2013, p. 14 n.).
Tra la metà luglio e agosto Rasi si esibì a villa Grimaldi a San Pier d’Arena, dove soggiornò, con Pietro Paolo Rubens, al seguito di Vincenzo Gonzaga, lì per villeggiatura, e dove incontrò nuovamente Chiabrera.
Tra febbraio e maggio 1608 partecipò alle opere allestite a Mantova e a Torino per le nozze di Francesco Gonzaga e Margherita di Savoia: a febbraio, accompagnandosi con l’arpa, interpretò Arione nel balletto torinese Tributi delle acque e cantò il madrigale «Serenissimi Numi, or che dal cielo» (Saccomani, 2001); nello stesso mese, a Mantova, fu il protagonista maschile nella Dafne di Rinuccini e Marco da Gagliano (che nella partitura a stampa loda la bravura con cui il tenore eseguì il lamento d’Apollo) e a fine maggio, sempre a Mantova, fu Bacco e ancora Apollo nell’Arianna di Rinuccini e Monteverdi (cfr. Annibaldi, 2001), che sostituì Le nozze di Teti e Peleo, di Francesco Cini, in cui avrebbe dovuto impersonare Peleo e Giove.
Fra metà giugno e novembre del 1608 fu di nuovo con il duca Gonzaga nei Paesi Bassi, passando per Bolzano, Innsbruck, Basilea, Bruxelles, Anversa, Amsterdam, Parigi, Marsiglia, Livorno, Firenze. Il 27 giugno da Innsbruck mandò a Ferdinando Gonzaga i versi di una «canzonetta» perché questi li potesse intonare. Nel 1608 furono licenziate a Venezia, dai torchi di Gardano, le Vaghezze di musica di Rasi (ed. moderna a cura di M. Giuliani, Trento 1998), a cura del vicemaestro della cappella di corte, Bassano Casola, una raccolta di monodie basate per metà su versi propri e per l’altra metà su versi di Chiabrera, Guarini, Petrarca e Bernardo Tasso. Vi confluirono probabilmente le «rime» o «vaghezze giovanili» che a fine agosto del 1607 gli erano state chieste da stampatori veneziani e ch’egli intendeva dedicare alla duchessa di Mantova.
A marzo 1609 Rasi fu a Torino, a presentare composizioni proprie al duca Carlo Emanuele I; da Cremona, durante il viaggio, mandò a Vincenzo Gonzaga un sonetto e un madrigale commissionati dal duca medesimo. Arrivò a Torino a inizio aprile, come si apprende da una lettera del cardinal Carlo Emanuele Pio di Savoia, ma non è chiaro se vi rimase fino alla morte del padre, il 7 luglio a Terruggia (nel Casalese), o se partì prima. A metà settembre, dovendo accompagnare la matrigna ad Arezzo, colse l’occasione per far stampare a Firenze lavori «in prosa ed in versi» (Kirkendale, 1993, p. 576), da dedicare al cardinale Alessandro d’Este, al duca di Mantova e a Francesco Gonzaga. Fra questi lavori ci saranno stati i Madrigali di diversi autori, stampati dopo il 20 febbraio 1610, data della dedica dello stampatore a Giorgio Scali (Firenze, Marescotti; ed. facsimilare a cura di P. Mioli, Firenze 1987): anche in tal caso metà composizioni sono basate su versi suoi (tre brani furono ristampati nella miscellanea Orfeo: musiche de’ diversi autori, Venezia, Magni, 1613; cfr. Passadore, 2005).
La tresca con la moglie di un fattore della matrigna lo spinse il 6 novembre 1609 a uccidere sia costei sia colui: per il doppio omicidio, a fine gennaio fu condannato a morte e bandito dal Granducato di Toscana. In quei mesi, non potendo tornare a Mantova, passò da Ferrara, Verona e Brescia (tra metà dicembre e metà gennaio) e fu infine accolto a Torino (da fine gennaio a giugno), grazie a una richiesta di Francesco Gonzaga, duca di Casale nel Monferrato. Proprio a Casale il 29 aprile 1611 comparve nel Rapimento di Proserpina di Ercole Marliani, musica di Giulio Cesare Monteverdi (fratello di Claudio), e l’indomani al balletto finale della Favola di Psiche, in cui impersonò Nettuno accompagnandosi da sé con la complicata arpa doppia (ch’egli avrà forse già impugnata nell’Orfeo mantovano del 1607). A fine settembre del 1611 fu di nuovo a Mantova, dove ricevette da Chiabrera versi da intonare e da far cantare ad Adriana Basile.
Il 18 febbraio 1612 fu ammesso come membro «forestiero» all’Accademia Filarmonica di Verona, nella quale cantò almeno tre volte: il 1° maggio di quell’anno («cantò solo nell’arpa doppia un concerto alla elevazione, che per la sua incomparabile ecelenza rapì a divozione ed a dolcezza gli animi di ognuno», cfr. Atti dell’Accademia Filarmonica di Verona, 2015, p. 231, del 1614 e del 1619. L’appartenenza all’accademia è esibita, nel 1618, sul frontespizio di una Canzone (Venezia, Ciotti) da lui scritta per il nuovo doge Antonio Priuli, in ringraziamento del titolo di cavaliere di S. Marco ricevuto il 17 maggio. A inizio febbraio fu richiesto a Ferrara da Enzo Bentivoglio, per una «commedia» da rappresentarsi all’Accademia degli Intrepidi, probabilmente la Filli di Sciro di Guidobaldo Bonarelli, annullata in seguito alla morte, a metà mese, del duca di Mantova, principe della medesima accademia. A metà settembre del 1612, malgrado problemi di salute, partì per Praga con Vincenzo Gonzaga, che doveva rendere omaggio al nuovo imperatore, Mattia d’Asburgo: arrivati a inizio ottobre, Rasi fu ospite dell’ambasciatore toscano Giuliano de’ Medici e si esibì a corte varie volte. L’aggravarsi della salute non gli consentì di ripartire subito con il duca, ma solo a fine ottobre, in un viaggio tormentato dalla carenza di denaro (esaurito per le cure): stazionò a Norimberga, a Monaco, dove incontrò i principi elettori e Michelangelo Galilei (fratello di Galileo e compositore di suo), a Salisburgo e a Innsbuck, arrivando a Mantova a fine anno, dove nel frattempo era stato eletto duca il cardinal Ferdinando. A Salisburgo, il 10 dicembre, dedicò all’arcivescovo Marco Sittico di Hohenems, di cui si dichiara «antico servitore», la raccolta autografa intitolata Musiche da camera e chiesa (ed. facsimilare a cura di H. Seifert, Salzburg 1995). All’anno successivo risalirebbe, secondo un catalogo librario di Robert Martin (Londra), un volume, perduto, di Musiche per una voce sola (Venezia 1613).
Sul finire del 1613 Rasi licenziò la prima raccolta letteraria, Opere poetiche, divise in prima seconda e terza parte, cioè odi, madrigali, sonetti, canzoni, dialoghi e scherzi (Mantova, Osanna, 1614).
Le tre parti sono dedicate a Francesco Maria della Rovere duca d’Urbino, a Ferrante Gonzaga conte di Guastalla, e ad Alessandro Pico principe della Mirandola (recò personalmente al primo e al terzo, a inizio gennaio, i volumi dedicati; della stampa si conservano due copie, di cui solo una completa, a Trento, Biblioteca diocesana). In una lettera dello stesso anno il poeta Bernardo Baldi, che Rasi doveva aver conosciuto durante il lungo servizio di costui a Mantova, e che dal 1609 era al servizio del duca d’Urbino, descrisse la raccolta come un’«opera molto nobile di canzonette, odi e sonetti, piene di spiriti e di vivacità, moderne, scritte però all’imitazione de’ buoni antichi» (Kirkendale, 1993, p. 588).
Nell’autunno del 1616, per le imminenti nozze (febbraio 1617) tra Ferdinando Gonzaga e Caterina de’ Medici, Rasi scrisse i versi della Favola d’Ati e di Cibele, forse mai musicata (poiché sostituita dalla ripresa della Galatea di Santi Orlandi) e pubblicata come «seconda corda» nella sua Cetra di sette corde (Venezia, Ciotti, 1619): il fascicolo fu dedicato a Ranuccio I Farnese, duca di Parma e Piacenza, di sicuro fra il novembre del 1618 e il gennaio del 1619, quando Rasi si trovava a Parma. Sul frontespizio della Cetra il compositore esibì il cavalierato di S. Marco ricevuto l’anno prima dal doge Priuli, padre di quel Matteo a cui dedicò la «terza corda», ovvero i lamenti di Emireno e di Alderindo. Analoga sorte di Ati e di Cibele ebbe probabilmente la «favola» Elvidia rapita, «composta per recitarsi cantando», pubblicata come «quarta corda» e dedicata al cardinale Scipione Caffarelli Borghese.
Tra il 1618 e il 1620 Rasi licenziò a Venezia un’altra raccolta di monodie su versi propri, Fiori di armonica pianta, a voce sola, nota unicamente grazie al catalogo librario di Kaspar Flurschütz (Augusta 1620); e dopo il maggio del 1620, per i tipi di Alessandro Vincenti, i Dialoghi rappresentativi (l’unica copia nota, nella Biblioteca Universitaria di Breslavia, è andata perduta), con l’intonazione di quattro dialoghi già pubblicati nelle Opere poetiche: il 30 maggio scrisse al duca di Mantova di essere a Venezia «per alcune opere» che gli voleva dedicare (Parisi, 1989, p. 641 n. 527). A giugno Ferdinando Gonzaga scrisse a Roma per chiedere un avanzamento di carriera, da priore ad abate, del fratellastro di Rasi, Gregorio, e a settembre appoggiò la richiesta di grazia del compositore ai granduchi di Toscana, concessa a inizio ottobre. Annullato il bando, a fine novembre Rasi rientrò a Firenze, dove intrattenne il granduca; fu coinvolto nelle prove della Regina sant’Orsola di Andrea Salvadori, destinata alle nozze di Claudia de’ Medici con Federico Ubaldo della Rovere, in cui avrebbe dovuto impersonare il «principe de’ Romani»: ma la morte del granduca, a fine febbraio, comportò l’annullamento di ogni spettacolo. A inizio marzo del 1621 fu di nuovo a Roma fino a maggio, per gestire la promozione di Gregorio (disposto, come il fratellastro Guglielmo, a donargli i suoi beni), e frequentò i cardinali Borghese e Montalto, che gli fecero ascoltare due arpisti, fra cui Orazio Michi; presso di loro eseguì con Ippolita Recupito il lamento di Andromeda di Ercole Marliani e suoi «madrigali». Trascorse agosto tra Firenze e Genova; all’inizio di settembre 1621 a Pistoia sposò Alessandra Bocchineri di Prato e ripartì a fine mese per Mantova.
Morì il 30 novembre 1621 nella contrada del Grifone. Chiabrera ne scrisse l’epitaffio.
Rasi fu, come virtuoso, uno dei maggiori e più acclamati interpreti delle prime opere in musica. Con il suo talento fu in grado d’interpretare al meglio l’espressività di uno stile vocale virtuosistico che si sviluppò grazie alla diffusione del canto monodico; l’ascendenza nobile e la condizione di gentiluomo dovettero a loro volta accrescere il fascino del suo portamento scenico. Fece parte di quel genere di cantanti coevi che, come Peri e Caccini, eseguivano musica composta di proprio pugno (non a caso gran parte dei brani pubblicati sono per voce di tenore), ma come pochi tra costoro seppe pure scriversi da sé i versi da intonare. Al di là dei suoi libri musicali, la pubblicazione di rime, non tutte destinate al canto, fece di Rasi anche un poeta riconosciuto per tale: la sua produzione letteraria attende peraltro di essere studiata.
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