MARTINEZ, Francesco
MARTINEZ, Francesco. – Nacque a Messina il 2 genn. 1718 da Antonio e da Giuseppa Franchi (Manfredi, 2005, pp. 194, 293 s. n. 52). Trascorse la sua adolescenza nell’ambito della bottega di pittore del padre, nel riflesso dei successi conseguiti dal prozio Filippo Juvarra (fratello della nonna paterna Natalizia) al servizio di Vittorio Amedeo II di Savoia. Ma ben presto venne mandato a Roma, dove lo zio Simone si era trasferito seguendo Filippo Juvarra; e presso lo zio risulta essere registrato fin dalla quaresima del 1730, insieme con il fratello Andrea, pittore apprendista, che a Roma risiedeva già nel 1723, quando aveva solo otto anni d’età (Manfredi, 2001, p. 194; 2005, p. 194).
I due Martinez, benché adolescenti, si trovarono così a beneficiare della notevole influenza ancora esercitata da Filippo Juvarra nell’ambiente artistico romano anche mediante il fratello Francesco Natale, noto scultore in argento. Probabilmente fu proprio attraverso costui che – come era accaduto già per lo zio Simone – i due fratelli poterono frequentare gli ambienti sociali e artistici gravitanti intorno al cardinale Pietro Ottoboni, mecenate degli Juvarra e tradizionale protettore dei messinesi a Roma, fin dal tempo dei profughi della repressione spagnola del 1678. Così l’appartamento nel palazzo Ornani in piazza Navona, assegnato dal cardinale a Filippo Juvarra e poi stabilmente abitato da Francesco Natale, che lo usava anche come bottega, diventò per il giovanissimo M. un luogo di studio ideale per approfondire la sua preparazione artistica in chiave interdisciplinare. Tanto più quando, nel 1732, egli ebbe modo di frequentarvi per la prima volta lo stesso Filippo Juvarra, che soggiornò a Roma dalla metà di febbraio alla fine di agosto di quell’anno grazie a una licenza concessagli da Carlo Emanuele III, finalizzata al progetto per la sagrestia vaticana, poi sfumato (Id., 2001, pp. 188-196).
Fu grazie al contatto con Juvarra e con gli architetti che più gli erano legati come Domenico Gregorini, Luigi Vanvitelli e soprattutto Pietro Passalacqua, cognato di Simone, che il quattordicenne M. rivolse la sua precoce, quanto definitiva, attenzione all’architettura. Probabilmente egli condivise questo breve ma intenso discepolato con tre studenti che avevano quasi il doppio dei suoi anni: il messinese Giuseppe Donia (Doria), parente degli Juvarra, e i torinesi Bernardo Antonio Vittone e Paolo Antonio Massazza, impegnati con successo nei concorsi clementini dell’Accademia di S. Luca (ibid., pp. 193-195). A questi va forse aggiunto il coetaneo trapanese Francesco Nicoletti, allievo di Passalacqua.
Otto anni dopo, nel 1740 l’ancora ventiduenne M. doveva distinguersi soprattutto per la sua abilità di disegnatore di architettura; infatti, proprio con questa qualifica nel mese di maggio fu chiamato a Torino alla corte dei Savoia, al servizio del regio studio di architettura diretto dal conte Benedetto Alfieri, grazie all’intermediazione dello zio Simone, che vi dirigeva lo studio di scultura dalla sua fondazione nel 1738 (Baudi di Vesme, I, p. 656; Manfredi, 2005, p. 198; Dardanello, 2005, p. 213).
Fin dal primo incarico riguardante l’allestimento del nuovo Studio di scultura nella casa Bertolazona, per il quale nel 1741 ricevette uno stipendio di 500 lire, il M. ebbe il principale riferimento professionale e culturale in Alfieri, con il quale collaborò contribuendo probabilmente alla produzione dello Studio di architettura, assai più di quanto risulti dalla documentazione ufficiale, vista la struttura dello studio centralizzata sulla figura del primo architetto regio. Ugualmente si può ipotizzare che il M. dovette avere una parte notevole come collaboratore anche all’attività privata di Alfieri, che era strettamente connessa a quella pubblica e non facilmente separabile da essa. Al riguardo rimane difficile distinguere l’apporto creativo del M. da quello esecutivo di disegnatore dalle grandi qualità. Qualità dimostrate, per esempio, nei disegni (trasposti in stampa da Giovanni Antonio Belmond) per gli apparati funerari in onore della regina di Sardegna Elisabetta Teresa di Lorena, allestiti nel 1741 sotto la direzione di Alfieri nel duomo di Torino, e in quello per la facciata effimera di palazzo Madama verso Po, realizzata nel 1750 per celebrare il matrimonio del principe ereditario Vittorio Amedeo e Maria Antonia Ferdinanda infanta di Spagna (Baudi di Vesme, I, pp. 112 s.; Kessel). Il M. ancora ai primi di dicembre del 1761 rivendicava tale attività di disegnatore come qualificante il suo stato di servizio, al fine di una richiesta di aumento di stipendio rivolta a Carlo Emanuele III, facendo specifico riferimento al Libro de’ disegni del Reggio Castello, disegni del Padiglione, e il disegno delle facciate del Real Palazzo, probabilmente da porre in relazione con una parte dei disegni contenuti negli album delle fabbriche regie raccolti da Alfieri e già a lui attribuiti (Raccolta de disegni di varie fabbriche reali fatti in tempi diversi d’ordine di S.M. da me suo gentil’uomo di camera e primo architetto conte Alfieri, 1763: Dardanello, 2005, pp. 213, 222).
A fronte di una prolungata attività di assistente per la conduzione delle fabbriche pubbliche e private di Alfieri di cui si hanno notizie episodiche, come per la sistemazione del garoviano palazzo Asinari di San Marzano, oggi Carpano (Casalis; Baudi di Vesme, I, p. 657; Bellini, pp. 302 s.), solo dal 1765 la figura del M. emerge in qualità di architetto dotato di una certa autonomia rispetto ad Alfieri. Presentato il 1° aprile di quell’anno come «un certo Sig.r Martinez Nipote del fu […] Juvara, Uomo di sperimentata capacità e aglievo di esso Sig.r Conte Alfieri, al quale presentemente hà egli addossata l’incombenza di assistere alla fabbrica della gran torre delle Campane di S. Gaudenzio di Novara» (Nava; Baudi di Vesme, II, pp. 656 s.; Bellini, p. 273), egli eseguì un’articolata relazione, sostanzialmente positiva, sul progetto di F. Croce per la guglia maggiore del duomo di Milano, corredata anche da indicazioni di carattere progettuale (in parte recepite) per la Congregazione di Cassina alla quale era stato consigliato dallo stesso Alfieri, che aveva declinato l’invito rivoltogli perché indisposto fisicamente.
In quel tempo, piuttosto che come «allievo» e sempre più assiduo primo assistente dell’architetto regio, il M. era ancora accreditato soprattutto come parente del defunto Juvarra. Del resto, nonostante godesse di una posizione sociale di un certo rilievo, consolidata con il matrimonio contratto dieci anni prima con Antonia Ricaud, figlia del banchiere barcellonese Giuseppe (Arch. di Stato di Torino, Notarile, Insinuazione, libro V, I, cc. 325-326v, 24 apr. 1777), egli intendeva trarre beneficio dall’eredità materiale del prozio, quanto e forse più che da quella culturale e professionale. Infatti, proprio rivendicandone la discendenza, dopo la morte di Benedetta Juvarra, sorella minore e ultima erede diretta di Filippo, avvenuta a Roma il 2 ott. 1765, il M. con il fratello Andrea cercò inutilmente di acquisirne la ricca eredità – anche ricorrendo all’aiuto di Carlo Emanuele III – per sovvertire le condizioni testamentarie dettate dal prozio Francesco Natale che prevedevano un lascito di soli 250 scudi romani per ciascuno di essi (Baudi di Vesme, II, p. 657; Manfredi, 1995) e per il solo M. i «compassi, e libri d’architettura» appartenuti a Filippo.
Ancora nel 1770, a due anni dalla morte dello zio Simone e a tre anni da quella di Alfieri, né il M. né tanto meno il fratello Andrea si erano affrancati dal sistema degli studi regi e a livello personale dall’ombra del prozio (Baudi di Vesme, II, p. 656).
D’altra parte a quella data non poteva costituire un banco di prova sufficiente della sua maturità artistica né l’ampliamento dell’ospedale di Novara nel quale fu impegnato dal 1770 (Carboneri, 1963, p. 68), né il disegno per il tabernacolo dell’altare maggiore della chiesa del Corpus Domini di Torino, eseguito nel 1768-69 con la collaborazione di Amedeo Rizzi per i marmi policromi e di Simone Boucheron per i bronzi dorati (Bellini, p. 195; Dardanello, 2004 e 2005, p. 213), che privilegiava la cura del microcosmo decorativo da orafo rispetto alla composizione architettonica, rigidamente simmetrica e attardata dalla dipendenza formale dal precedente tabernacolo rimodellato nel 1752 su progetto di Alfieri e dalla mensa ridisegnata da Bernardo Vittone nel 1764 al posto di quella preesistente di Juvarra.
Solo quando, il 6 ag. 1773, Vittorio Amedeo III nominò il M. primo architetto regio con lo stipendio annuo di 1000 lire, la sua carriera ebbe una svolta. Da allora si identificò completamente nel ruolo di capo dello Studio di architettura e come tale di unico referente di tutta la sua produzione. In questo contesto il M. seppe interpretare con consapevolezza la continuità della linea Juvarra-Alfieri, anche come organizzatore dei cantieri e responsabile della gestione estetica del cerimoniale di corte. In tale senso gli impegni che assorbirono pressoché interamente la sua attenzione furono da una parte la realizzazione delle tombe reali nella basilica di Superga e dall’altra l’ampliamento del castello di Moncalieri.
In particolare, il prestigioso incarico di progettare la sistemazione della cripta delle tombe reali a Superga, affidatogli dopo la morte di Carlo Emanuele III, avvenuta il 21 febbr. 1773, che avrebbe dovuto ospitare i monumenti funebri del defunto re, del padre Vittorio Amedeo II e dei membri più illustri della famiglia Savoia (Rosso - Bertagna; Arte di corte…, p. 97; Brayda - Coli - Sesia), gli consentì di confrontarsi direttamente con Juvarra, che aveva progettato e cominciato la cripta tra il 1728 e il 1733 lasciandola al rustico (Carboneri, 1979; Gritella; Griseri 1994 e 1995).
Come risulta dai documenti e dai suoi disegni datati dal 21 maggio 1774 al 17 maggio 1777, l’incarico del M. riguardava la decorazione marmorea della cripta juvarriana, a forma di croce latina con ambienti rettangolari comunicanti con i bracci allungati, compresa quella dell’altare. Le opere più impegnative erano costituite dal monumento tombale di Vittorio Amedeo II, da porre sulla parete di fondo del braccio sinistro, e dalla sistemazione del preesistente tumulo posto al centro della croce, di fronte all’altare, destinato a ospitare le spoglie di Carlo Emanuele III. L’altare configurato dal M. è quello che appare in una pianta (Rosso - Bertagna, figg. 17 s.) e nella metà sinistra del prospetto a specchio di C. Rana (ibid., fig. 22), che nel 1778 lo trasformò ulteriormente, conferendogli l’attuale conformazione. Il disegno del mausoleo di Vittorio Amedeo II, sostanzialmente in linea con l’opera realizzata da Ignazio e Filippo Collino (ibid., fig. 28) è connotato da un fastigio ascendente collocato sopra il sarcofago con due statue allegoriche alla base e una sull’apice raffigurante una Fama che regge il ritratto del defunto (eseguita nel 1774 da Giovanni Battista Bernero). Uno schema tipico degli apparati effimeri funerari (nel 1774 il M. curò l’esecuzione degli apparati in memoria del re di Francia Luigi XV nel duomo di S. Giovanni), la cui nitidezza esprimeva il graduale passaggio dal vibrato decorativismo juvarriano verso una temperata eleganza, frutto di un processo di codificazione, ma anche di devitalizzazione, iniziato da Alfieri e ricondotto dal M. verso una raffinata calligrafia, simile al linguaggio imposto dallo zio Simone nella scultura ufficiale, avvertibile nel disegno delle volte dei bracci (ibid., fig. 9). Benché il M. avesse definito nel dettaglio il progetto di sistemazione dopo la sua morte, Rana vi apportò alcune modifiche, rispettando maggiormente il perimetro definito da Juvarra (ibid., fig. 24).
Con il progetto del 1775 per la complessa sistemazione del castello di Moncalieri, documentato da una serie di elaborati disegni, il M. dimostrava finalmente qualità essenziali e congruenti rispetto al ruolo che era chiamato a svolgere: notevole abilità nell’ambientamento sulle preesistenze e sapiente organizzazione degli spazi, unite a una peculiare raffinatezza nelle soluzioni decorative, nel caso particolare capaci di unificare e alleggerire le massicce facciate del complesso, che vennero completamente riconfigurate. Qualità che gli permisero di trasformare il castello in una adeguata residenza di piacere per il principe e per la principessa di Piemonte, il cui appartamento fu ricavato al piano nobile del padiglione a levante, e al contempo di conferirgli una razionale organizzazione funzionale con la creazione di nuovi ambienti, come l’atrio d’ingresso e la cappella, e la trasformazione di altri, ai quali si aggiungevano all’esterno la nuova «carrozzeria» nel piazzale antistante il castello (l’attuale giardino delle rose). Tutti interventi, per i quali il M. si avvalse per le decorazioni degli interni della collaborazione dell’accademico Leonardo Marini, il quale seppe confrontare utilmente la sua adesione a modelli francesi e inglesi alla sensibilità del M., rivolta a una soluzione del rapporto con l’antico ancora essenzialmente derivante dall’originale interpretazione juvarriana (Baudi di Vesme, II, p. 657; Vinardi, 1989, 1991 e 1996; Pernice, 1991; Moncalieri: il castello…).
Accanto a questi impegni prioritari come architetto regio il M., spesso assistito da altri professionisti, svolse una vasta attività relativa alla gestione ordinaria del patrimonio architettonico e alla realizzazione di apparati cerimoniali in occasione di ricorrenze festive o di particolari avvenimenti. Tra questi ultimi emergono i progetti e la soprintendenza, con Francesco Valeriano dell’Ala di Beinasco, degli apparati delle luminarie delle facciate di palazzo reale e di palazzo Madama, nonché della sala da ballo e della tribuna del duomo di S. Giovanni, in occasione della festa per il matrimonio di Benedetto Maurizio di Savoia, duca del Chiablese, con la nipote Marianna, di cui lo stesso M. nel 1775 curò l’organizzazione generale con Giovanni Battista Nicolis de Robilant e Giovanni Battista Ferroggio (Arte di corte…, p. 87).
Come ai suoi predecessori, il ruolo di architetto della corte sabauda gli procurò diverse commesse private, la più importante delle quali fu quella ricevuta tra il 1772 e il 1775 dal marchese Tommaso Ottavio Mossi, gentiluomo di bocca del re, per la realizzazione della sua villa suburbana di Robella, nel Casalese (Perin).
Il M. elaborò un vasto progetto a scala territoriale in un rapporto dialettico con il committente, colto collezionista d’arte e aggiornato sull’architettura e sul paesaggismo inglese e francese. Alle influenze straniere sono riconducibili l’organizzazione territoriale a rondò e in parte a giardino all’inglese, ma anche il nucleo principale del complesso architettonico a forma di «Y», da cui originava l’organizzazione schematica a ventaglio dei corpi sussidiari, non realizzati nella fase attuativa, avviata nel 1775 e completata in forma ridotta dopo la morte dell’architetto, anche con l’intervento del citato decoratore Marini.
Il 16 marzo 1776, su indicazione del conte Carlo Francesco De Morri di Castelmagno, il M. ricevette l’incarico di ristrutturare e riconvertire a sede municipale l’ex collegio dei gesuiti di Cuneo, iniziato nel 1711 e ancora incompiuto (Vacchetta; Carboneri, 1963, p. 68).
Il progetto, consegnato dopo appena tredici giorni dall’affidamento dell’incarico, consisteva sostanzialmente in una robusta revisione di quello di Pio Eula, già esaminato da Nicolis de Robilant. L’intervento, completato all’inizio di settembre del 1778 sotto la direzione del regio misuratore Carlo G. Bertina, riguardò soprattutto il completamento della parte centrale della facciata sull’attuale via Roma, caratterizzata dal comparto portale-balcone riquadrato da un sistema intrecciato di fasce bugnate e lisce, comunque in gran parte dipendente dalle parti preesistenti della facciata.
Parallelamente il M. svolgeva incarichi ancora derivanti dalla sua precedente collaborazione con Alfieri, come i sopralluoghi condotti tra il 1772 e il 1776 con Luigi Barberis nell’ospedale Maggiore di Vercelli, in relazione a un progetto di ampliamento redatto dallo stesso Barberis sostitutivo di quello precedente di Alfieri del 1760 (Bellini, p. 247).
Come «intendente» delle fabbriche della Confraternita della Ss. Annunziata, di cui faceva parte da tempo, tra il 1773 e il 1776 il M. ebbe parte nella riconfigurazione interna ed esterna della chiesa omonima (demolita nel Novecento) mediante la realizzazione dell’altare e della balaustra della cappella dell’Addolorata, dell’organo in controfacciata e la sistemazione della facciata (Gulmini, 1993, pp. 110-112).
L’altare, compiuto alla fine del 1774 e oggi rimontato nella nuova cappella omonima, era caratterizzato da un disegno piuttosto semplice che probabilmente si accordava con la sobria linearità della cappella originaria posta alla sinistra del presbiterio, ultimata all’inizio di quello stesso anno dall’ingegnere A.I. Giulio (allora direttore delle fabbriche insieme con il M., G. Gilardi e C. Aliberti), un architetto dagli spiccati interessi antiquari, che doveva avere influenzato anche Stefano Maria Clemente autore delle statue di Maria Maddalena e della Veronica. La balaustra, completata a metà 1775, oggi dispersa, è documentata da un disegno conservato nell’Archivio della Confraternita. Un altro disegno raffigura l’organo, di cui oggi è rimasta solo la cassa, tramandandone le linee slanciate e il minuto apparato decorativo. Sulla stessa cifra formale il M. dovette configurare la piccola facciata della chiesa, successivamente trasformata tra il 1833 e il 1835 su progetto di Costantino Vigitelli, probabilmente senza alterare la conformazione degli elementi compositivi: porta con stipiti e architrave in marmo, un grande finestrone centrale, una lapide in marmo con iscrizione e due vasi e altrettanti candelabri in marmo alludenti a un vago classicismo.
L’esempio più eloquente delle tendenze del M. nell’architettura religiosa è rappresentato dalla nuova chiesa parrocchiale di Albiano d’Ivrea, l’unica sua opera autonoma, commissionatagli nell’aprile 1773 dal sindaco Giuseppe Boijta (Carboneri, 1963, p. 68; Cossa).
Sebbene realizzata solo tra il 30 ott. 1775 (posa della prima pietra) e il 10 nov. 1780 (benedizione), quindi in gran parte dopo la sua morte, le modifiche rispetto al progetto originario in sei tavole (tuttora conservate nell’Archivio parrocchiale di Albiano) datato 26 ott. 1773, sono riferibili all’autore, che a seguito di controversie dei committenti fu indotto a ridurre l’originaria struttura della pianta da tre navate a una navata con altari laterali. Ciò ebbe ripercussioni anche sulla facciata caratterizzata da un corpo centrale convesso che fu privata in gran parte del contrappunto delle ali concave corrispondenti alle navate laterali. Ognuna delle soluzioni architettoniche della facciata, dalla sua ripartizione in riquadri all’adozione di un ordine semplificato e alla ornamentazione circoscritta al bassorilievo soprastante l’ingresso, si inquadra in una raffinata opera di semplificazione della tradizione, in continuità con l’eredità juvarriana, alla ricerca di una via personale e alternativa alla corrente più avanzata del neoclassicismo, non confrontabile adeguatamente con l’esiguo catalogo di architetture religiose realizzate a Torino, tra le quali vanno considerate anche l’altare della cappella dei Ss. Cosma e Damiano nella chiesa di S. Francesco d’Assisi e le cappelle di marmo ai lati dell’altare maggiore nella chiesa di S. Tommaso (Baudi di Vesme, II, p. 657).
Il M. non ebbe modo di usufruire adeguatamente della privilegiata posizione professionale di architetto regio, perché a soli quattro anni dalla sua nomina, all’età di cinquantanove anni, morì il 7 maggio 1777 nella sua residenza torinese, parrocchia di S. Maria, «isola» di S. Felice. Qui tre mesi prima «in perfetta cognizione, sebbene di corporale infermità in letto detenuto» aveva fatto testamento costituendo, in mancanza di figli, sua erede universale la moglie Antonia e lasciando una somma di 300 scudi al fratello Andrea (il quale comunque avrebbe beneficiato della somma di 5000 scudi nel caso fosse sopravvissuto alla moglie, o che essa si fosse risposata: Arch. di Stato di Torino, Notarile, Insinuazione, libro II, cc. 843-847v, 10 febbr. 1777). Fu sepolto nella cripta della chiesa della Ss. Annunziata, dove in suo onore fu apposta una lapide commemorativa (Baudi di Vesme, II, p. 657).
Il fratello Andrea (Messina 1715 - Torino 19 apr. 1783), dopo l’iniziale formazione romana negli ambienti juvarriani, nel 1738 iniziò la sua attività torinese alle dipendenze dello zio Simone dipingendo «due figure a guasso» per l’esecuzione di modelli di statue (ibid., p. 656). Ma, nonostante l’ingresso nella Compagnia di S. Luca (ibid.), egli non riuscì successivamente a superare l’immagine di artista eclettico attivo soprattutto come copista e decoratore di soprapporte o di pannelli di carrozze per casa Savoia, come risulta da numerosi documenti datati fino al 1775, piuttosto che di opere su tela originali, di cui è ricordata una Morte di s. Giuseppe con la sua firma e la data 1749 (Claretta; Baudi di Vesme, II, p. 656).
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