CASSARO, Francesco Maria Statella e Napoli principe di
Nacque a Palermo nel 1758 da Antonio principe dì Sabuci e marchese di Spaccaforno e, dal 1778, principe di Cassaro e da Eleonora Di Napoli Zati, figlia del principe di Bonfornello. Uomo di non comune cultura, arguto e di buone capacità dialettiche, il 17 apr. 1777 sposò Felicia Naselli e Oneto, che gli portò in dote un ricco feudo e nel 1784 gli diede il primo figlio, Antonio. Il prestigio e le ricchezze del casato resero al C. facile l'ascesa alle più alte cariche cittadine: nel 1788-89 fu senatore di Palermo e governatore del Monte di pietà, l'anno successivo capitano di giustizia e dal 1794 al 1796 pretore di Palermo. Il 16 luglio 1794, per la morte del padre, ricevette investitura del principato e delle terre e castelli pervenuti alla famiglia per sentenza della Regia Corte dopo che la discendenza diretta dei Gaetani principi di Cassaro s'era estinta con la morte di Ottavio.
Già in vista nella vita politica siciliana, il C. acquistò maggiore popolarità nel corso del Parlamento convocato nel settembre 1798 quando, con altri nobili, si oppose decisamente alla richiesta avanzata dalla Corona di un donativo straordinario di 60.000 scudi al mese, da pagarsi per quattro anni, per far fronte alle necessità della guerra contro i Francesi.
L'opposizione del C. continuò a manifestarsi anche in seno alla Deputazione del Regno quando il sovrano, ignorando il voto contrario del Parlamento, impose alla Deputazione di pagare il donativo nella misura ridotta approvata dal solo braccio demaniale. In quell'occasione sette deputati e fra questi il C. votarono contro la richiesta del re e corsero il rischio d'essere arrestati, perché così il governo pensava di poterne piegare la volontà vincendo anche l'opposizione che già serpeggiava in diversi ambienti.
Intanto nella penisola le truppe del generale Championnet costringevano Ferdinando IV e la sua corte a cercare rifugio in Sicilia (25 dic. 1798). Le circostanze nuove suggerirono al re di mutare tattica e di non insistere nelle richieste; anzi, per accattivarsi le simpatie della nobiltà, ne chiamò alcuni esponenti a far parte del governo, e tra essi il C. cui affidò la segreteria di Stato alla Giustizia. Nello stesso tempo il C. entrò a far parte della giunta per la difesa, creata per formare un esercito di 30.000 uomini, che avrebbe dovuto contrastare tentativi d'invasione francesi.
Riconquistata Napoli dagli uomini del cardinale Ruffo, il sovrano nominò il C. luogotenente e capitano generale del Regno di Napoli, ma "le sue facoltà - osserva il Paternò Castello (pp. 47 s-) - vennero limitate in modo che spesso le fucilazioni di tante illustri vittime ignorava ed era riservato alle sole funzioni di vana pompa". Nel giugno del 1802, col ritorno del re a Napoli, il C. lasciò la carica e poco dopo era di nuovo a Palermo consigliere di Stato per il commercio, ma praticamente senza svolgere alcuna funzione di effettiva importanza.
Nel 1806 il re tornò a Palermo esule per la seconda volta e i motivi di malcontento non vennero a mancare sia per le spese notevoli imposte dal rafforzamento dell'esercito, sia per la prevalenza dei napoletani negli impieghi. Nel 1810 alla convocazione del nuovo Parlamento l'opposizione alla politica del sovrano era già ben delineata e aveva nel C. uno degli esponenti più vivaci. La richiesta di un donativo di 360.000 once per quattro anni fu respinta dal Parlamento che avanzava a sua volta proposte meno onerose. La pressione dell'opinione pubblica sconsigliò al partito di corte qualsiasi reazione, ma piuttosto esso si adoperò, con l'aiuto della regina, per modificare gli schieramenti di forza e indebolire l'opposizione. Queste manovre ebbero buon esito perché il re introdusse alcuni siciliani nel ministero, tra cui lo stesso Cassaro. Praticamente l'evento segnava l'inizio di una nuova fase della sua vita politica e l'eco che se ne coglie nella letteratura storica è tutt'altro che positiva.
Il Palmieri scrive di lui, proprio a proposito di questo suo accostamento alla corte, che "fu sempre un camaleonte politico", e subito dopo aggiunge: "il cambiamento di C. fu considerato generalmente come un tratto incompatibile coi carattere di persona ben nata". Il Balsamo afferma: "il suo inaspettato cambiamento presenta tutto l'aspetto di una disonorante diserzione", e il Bianco, riecheggiando le parole del Balsamo, avanza l'ipotesi che l'atteggiamento del C. fosse pro 1 babilmente dettato dal desiderio di bloccare in seno al ministero il progetto finanziario del Balsamo, che prevedeva una tassazione del 5% sulla rendita, calcolata su un nuovo catasto.
Da parte sua il C., che ormai agiva chiaramente nella sfera d'influenza della corte, non faceva nulla per dissipare le titubanze generate dal suo nuovo orientamento, anzi nel febbraio 1811 rivelava una ambiguità di comportamento che può trovare spiegazione solo nel desiderio di tutelare i suoi interessi personali e - come scrive il Niceforo - in quello di preparare il terreno "per una sua prossima incarnazione ministeriale". Infatti in quel mese, quando veniva emanato l'editto reale che fissava la tassa dell'1% sulla circolazione del denaro, si ebbero forti reazioni in seno alla nobiltà siciliana e molti dei suoi esponenti stabilirono di presentare una protesta contro il provvedimento del governo, tacciato di incostituzionalità perché deliberato senza l'approvazione del Parlamento. E allora il C. "scrisse ai promotori della protesta che il suo ufficio di consigliere di Stato gli impediva di dare il suo nome ai baroni, ma che stava con loro e approvava il loro operato".
Fallita la svolta reazionaria tentata dal re, che fu costretto il 15 genn. 1812 da W. Bentinck a creare vicario generale del Regno il figlio principe Francesco con la clausola dell'alter ego (15 genn. 1812), 10 stesso ministro plenipotenziario inglese, nominato capitano generale dell'esercito e della flotta di Sicilia, s'impegnò per la costituzione di un nuovo ministero. "Vari progetti per quest'oggetto si produssero - scrive il Balsamo (p. 89) - e in tutti il principe di Cassaro, che si riguardava in quel tempo come il capo e l'anima dell'anzidetto partito [dei patrioti], fu puntato per uno dei nuovi segretari di Stato"; e infatti quando dopo due mesi di negoziati si giunse alla sua formazione (26 marzo) il C. entrava a fame parte come segretario di Stato per la Grazia e giustizia. Egli nella prima riunione del ministero riceveva il giuramento degli altri segretari di Stato (Belmonte, Castelnuovo e Aci), perché come consigliere più anziano si trovò a esercitare le funzioni di presidente del Consiglio dei ministri, ufficio allora inesistente; così, accanto al Belmonte e al Castelnuovo, poteva atteggiarsi a paladino di libertà.
Il 19 luglio si riunì il nuovo Parlamento e approvò le "basi", o articoli fondamentali, della nuova costituzione elaborata dal Balsamo. In questa fase dei lavori il C. intervenne più volte nel dibattito, sostenendo il principio che. spettasse al Parlamento e non all'esecutivo amministrare le pubbliche entrate. E a evitare che il principio potesse essere respinto dal re suggeriva anche di proporre una lista civile per la corte. Sembrò che egli fosse animato da volontà di rinnovamento, ma forse lo muoveva l'intento di assicurare alla nobiltà il controllo del pubblico denaro.
Nel dibattito parlamentare seguito all'approvazione delle "basi" il C. si oppose alla proposta di dichiarare proprietà dello Stato i beni demaniali e quelli della Corona, e il suo intervento fu determinante per il raggiungimento di una soluzione di compromesso, che assicurava alla nazione la proprietà dei beni in questione, "sempre però con la Real Sanzione". Altrettanto agguerrita fu la battaglia ingaggiata contro l'abolizione dei fidecommessi: su questo punto, come è noto, la discussione portò anche alla scissione del partito costituzionale e alla fine l'Assemblea accettò una soluzione di compromesso, perché apparve difficile che il re potesse approvate proposte estreme mentre erano ministri due dei maggiori oppositori, il C. ed il Belmonte.
Le doti di mediatore dei C. emersero in seno al ministero, specie quando il 15 ott. 1812 si presentò alla Ficuzza il Bentinck, il quale, infuriato per le trame reazionarie che la regina continuava a tessere, voleva che il re le imponesse di lasciare l'isola. Il C. riuscì prima a rendere meno aspra la richiesta e il 26 ottobre comunicava al Bentinck, con l'approvazione del re, che la regina aveva deciso di passare "l'inverno a Santa Margherita in attesa della primavera, epoca in cui sarebbe partita per Vienna". Il 4 novembre il Parlamento concludeva i lavori, a volte caratterizzati da accese polemiche, e restava al ministero il compito di tradurne in legge le decisioni, ma la sua opera procedette con lentezza "tanto per le opposizioni e tergiversazioni del principe di Cassaro, gli intrighi dei re o piuttosto della regina, le discordie del consiglio e la timidezza del principe ereditario, come ancora per alcuni disgustosi incidenti" (Balsamo, p. 125).
In effetti, dopo lo scioglimento del Parlamento il C. cominciò a rallentare al massimo i lavori del Consiglio per dare alla regina e ai realisti il tempo di esercitare pressioni sul re perché riprendesse le redini del governo. Così il partito di corte, anche per le profonde incrinature che il fronte dei costituzionalisti aveva subito, andava riprendendo il sopravvento. Il re cedette alle pressioni della regina: prima si recò a Partinico dove s'incontrò con un gruppo di nobili ed ebbe un abboccamento coi C., poi tornò alla Ficuzza e dopo qualche giorno rientrò a Palermo, prendendo alloggio alla Favorita. Di fronte a questa imprevista evoluzione degli eventi il Bentinck, volendo evitare di fare apertamente guerra al sovrano. cercò attraverso il C. di dissuaderlo dal prendere decisioni in contrasto con la linea politica fino ad allora tenuta. Ma questa volta il C. non si prestò alle manovre del Bentinck, e tra i due si giunse ad aperta rottura.
Il 3 marzo 1813 il Bentinck domandò al Belmonte il ritiro del C. dal ministero e dal Consiglio privato dichiarando ch'egh operava contro la Costituzione e in modo da far mancare al ministero l'affiatamento e l'unità d'intenti necessari; e, dopoché il re il 9 marzo riprese i pieni poteri, il Bentinck gli pose Precise condizioni, fra cui la immediata partenza della regina e le dimissioni del C., minacciando addirittura la rottura dell'alleanza. Il C. presentò le dimissioni al sovrano, ma questi subito dopo lo nominò suo maggiordomo maggiore, ritirandosi il 29 marzo alla Ficuzza, mentre veniva nuovamente istaurato il vicariato.
In qualità di consigliere di Stato e componente del Consiglio privato del re, il C. continuò a prender parte alle riunioni dei ministri, cui cominciò a partecipare assiduamente anche il Bentinck, in un momento particolarmente delicato, perché, dopo la restaurazione del vicariato, il ministero si trovò impegnato nell'approntamento delle leggi che dovevano rendere attuabili le decisioni prese dal Parlamento o, com'erano anche detti, gli statuti.
In queste riunioni il C. s'impegnò spesso per bloccare le proposte del governo. Così avvenne quando si discusse lo statuto che dichiarava proprietà della nazione i beni demaniali e quelli della Corona nell'isola, perché "togliere alla corona la porzione permanente della sua rendita era lo stesso che mettere il trono e lo Stato ogni anno alla mercé del popolo o, per meglio dire, dei suoi rappresentanti" (Palmieri, p. 189). A sostegno di queste argomentazioni il C. poneva in risalto che un provvedimento del genere non trovava precedenti nemmeno nella costituzione inglese alla quale s'ispiravano palesemente i governanti siciliani. In verità anche il Bentinck avanzò dubbi sulla opportunità di questa legge, ma alla fine con alcuni ritocchi la proposta passò col solo voto contrario del Cassaro. Altro motivo di forte contesa fu l'abolizione dei fidecommessi, contro cui il C. riprese la posizione dintransigente opposizione, che già aveva assunto in Parlamento, perché vedeva nell'abolizione "il principio dell'avvilimento della nobiltà del regno" (Balsamo, p. 143) e "la causa dell'annientamento delle famiglie nobili" (Palmieri, p. 192).
Nel maggio del 1813 il Bentinck decise di lasciare la Sicilia, convinto che la partenza della regina (Maria Carolina si sarebbe infatti imbarcata il 14 giugno a Mazara per Vienna) avrebbe sedato ogni spirito di ribellione; ma prima della partenza egli credette di rafforzare la sua politica e d'indebolire il partito di corte imponendo al principe vicario di destituire il C. dalla carica di maggiordomo maggiore del re. Nonostante questa umiliazione il C. non si arrese e con altri nobili cercò di accostarsi al Belmonte e ai suoi sostenitori per sfruttare il loro antagonismo con il Castelnuovo e batterlo, e questo per potere poi concentrare ogni sforzo contro il Belmonte stesso. Ma i belmontisti rifiutarono ogni accordo e il C. si orientò allora diversamente, preparandosi a svolgere una fiera opposizione in Parlamento.
Il primo Parlamento costituzionale si aprì l'8 luglio 1813 e si trovò subito di fronte al grave problema del bilancio. La Camera dei Comuni, apparsa già divisa al momento dell'elezione del presidente, rivelava profonde fratture. Nell'altro ramo del Parlamento il C. manovrava con i realisti, tentando nuovamente di agganciare gli amici del Belmonte per formare con lui un ministero. Ma il Belmonte non cedette alle lusinghe e fece fallire il piano. Nonostante l'esito infelice di questa manovra il C. continuò a manovrare per acuire i contrasti tra i vari gruppi del partito liberale, così che quando il Bentinck ritornò a Palermo lo trovò diviso in due tronconi e dovette impegnarsi seriamente per ristabilirne l'unità e ridargli capacità operativa.
Intanto l'evolversi della guerra nel resto dell'Europa e il tramonto del pericolo napoleonico facevano cadere ogni interesse dell'Inghilterra per la Sicilia. Il re, rientrato a Palermo il 4 luglio 1814, indirizzò il giorno seguente un proclama ai sudditi, dichiarando di riprendere "i poteri e le prerogative che l'esistente Costituzione attribuiva alla Corona", e licenziò il ministero, formandone un altro nel quale richiamò al potere gli uomini che il Bentinck aveva eliminato dalla scena politica al suo rientro in Sicilia; nello stesso tempo richiamò alla carica di maggiordomo maggiore il C., quasi a dimostrare che il periodo del Bentinck non era stato altro che un interregno incostituzionale.
Il C. riprese una intensa attività politica, facendosi anche, nel settembre, promotore di riunioni di tutti i pari presenti in Palermo, per creare comitati che avrebbero dovuto studiare le modifiche da apportare alla Costituzione. Inoltre, verso la fine dell'anno, organizzò riunioni di otto tra i più noti pari del Regno (si parlò infatti di ottumvirato) per raccordare i lavori del Parlamento in modo che si potesse rapidamente giungere al riordinamento della Costituzione e così, mostrandosi operoso per il bene della nazione, acquistare meriti e maggiore popolarità. A queste riunioni parteciparono anche diversi ministri e il C. vi invitò anche i maggiori esponenti della Camera dei Comuni per realizzare rapidamente un accordo stabile tra i due rami del Parlamento. Ma questi suoi inviti furono respinti dai rappresentanti dei Comuni e disertati da molti pari e così, alla fine, le riunioni furono sospese anche perché il C. e i suoi amici cominciarono a temere che esse potessero isolarli dal Parlamento e far perdere loro l'influenza di cui vi godevano.
Intanto l'irruenza dei Comuni cominciava a generare un certo clima di allarme. Dopo gli avvenimenti del marzo 1815 il re convocò i ministri, e con essi il C. e il Castelnuovo, per preparare un piano che valesse a frenare l'azione dei rappresentanti dei Comuni. Nelle diverse riunioni che si tennero il C. si mostrò piuttosto proclive a provvedimenti moderati, essendo egli spinto dalla preoccupazione di non screditare ulteriormente il Parlamento e di acquistarvi maggiore popolarità. sicché alla fine il sovrano si limitò 3 a indirizzare alle due Camere un duro messaggio ammonitore, comunicato il 31 marzo.
Il C. fu poi tra coloro che con i ministri dell'Intemo e della Guerra, con il Balsamo e l'abate Frangipane, parteciparono a una riunione segreta tenutasi in casa del principe d'Aci, in cui si stabilì che la sessione del Parlamento si prolungasse solo per altri due mesi per trattare le proposte di leggi più importanti; questo per evitare che, continuando a lungo i lavori, la Camera dei Comuni potesse prendere iniziative pericolose per gli interessi costituiti. Ma l'incalzare degli eventi portò alla chiusura del Parlamento il 17 maggio; l'indomani il re s'imbarcò per raggiungere Napoli, e con lui partiva anche il Cassaro. Da questo momento in poi l'attività di questo si svolse tutta nell'ambito della corte, senza acquistare rilievo politico.
Il suo nome tornò alla ribalta quando, nel 1820, scoppiò la rivoluzione a Napoli. Allora il C. si mise alla testa dei nobili siciliani che vivevano a corte, e si recò dal principe ereditario, vicario generale, per dichiarare che i Siciliani non accettavano la nuova struttura che in Napoli si voleva dare allo Stato e chiedeva che fosse convocato il Parlamento di Sicilia perché essi potessero esprimere in libertà il proprio voto. Tanto amore per le patrie istituzioni trovava la spiegazione vera nei privilegi che la costituzione dei 1812 riconosceva ancora alla nobiltà e che la costituzione spagnola, riducendo il Parlamento ad una sola Camera elettiva, annullava di fatto. Mì la manovra del C. e degli altri nobili siciliani rimase senza frutti e gli avvenimenti si succedettero sfuggendo completamente alla loro influenza e al loro controllo.
Questa fu l'ultima manifestazione politica del C. della cui vita dopo di allora le cronache politiche non registrano altro. Egli morì a Napoli, dove ormai dopo il 1815 s'era sistemato definitivamente con tutta la famiglia, certamente prima del 1824 e probabilmente nel 1823.
Uomo dalla personalità complessa, il C. assunse più volte atteggiamenti contrastanti tra loro; ma è possibile trovare un comune denominatore che dia coerenza e unità al suo comportamento. Questo fu infatti guidato sempre dall'intento di mantenere le strutture del Regno di Sicilia quanto più possibile aderenti alla tradizione, lasciando nel contempo immutata la condizione di privilegio in cui viveva la nobiltà, anzi riportandola a quella che essa aveva prima del Caracciolo. E così il C. si oppose alla Corona quando questa rappresentò un pericolo per questi privilegi, ma si accostò a essa quando cominciò a vedere nella nuova costituzione e negli atteggiamenti rivoluzionari dei rappresentanti della Camera dei Comuni un pericolo potenziale per essi.
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