GUIDALOTTI, Francesco
Figlio di Simone di Ceccolo, della nobile famiglia perugina che effettuò la scelta popolare aderendo alla fazione dei raspanti, nacque intorno alla metà del secolo XIV; suoi fratelli furono Giovanni, Annibaldo e Benedetto.
Giudizi diversi, certo influenzati dall'iniziativa violenta che il G. assunse in età matura, concordano nel ritenerlo inadatto alla vita religiosa, intrapresa in giovane età nell'Ordine benedettino. Nel 1374 figura tra i monaci dell'abbazia di S. Pietro di Perugia; nel 1379 era priore della chiesa di S. Biagio, dipendenza abbaziale; all'inizio del 1381 il G. fu nominato da Urbano VI abate di S. Pietro.
Nel gennaio 1387 il G., inserito fra i quattro di Porta S. Pietro, guidò la delegazione inviata a Lucca per convincere Urbano VI a trasferirsi a Perugia rispettando l'autonomia della città, e a conservare i suoi ordinamenti.
La delegazione fu ammessa a trattare col cardinale Luca Ridolfucci, disponibile verso la città per avere ivi partecipato alla fondazione del Collegio della Sapienza; alla scadenza dei venti giorni fissati per la missione i delegati tornarono in città rassicurando i magistrati della venuta del papa ed esortandoli a non insistere su garanzie formali, dal medesimo valutate offensive.
Risalgono allo stesso anno due provvedimenti assunti dal G. come abate: l'imposizione ai rettori soggetti all'abbazia di un contributo per il vestiario dei monaci, da corrispondere ogni anno in occasione della festa di S. Pietro, e l'abbattimento fino alla ghirlanda dell'alta piramide o guglia del campanile della chiesa del monastero, sulla quale si elevava la statua dorata del santo. La trasformazione del campanile in robusta torre di difesa fu certo attuata per consiglio del padre del G., allora dei Tre arbitri della guerra e conservatori della libertà.
Una lettera di Urbano VI del 13 ag. 1388 segnala il G. quale collettore delle imposte per la Camera apostolica di Perugia, suo comitato e distretto, e di altri luoghi prossimi. Conservò l'ufficio anche sotto il papa successivo: il 19 nov. 1389, pochi giorni dopo l'elezione di Bonifacio IX, ricevette istruzioni dal cardinale camerario Marino sull'assegnazione delle somme riscosse. Non figura, però, nella lista dei presuli raccomandati dagli ambasciatori perugini al nuovo papa: il sopravvento dei nobili e la condanna a morte di Paoluccio di Nino Guidalotti, pronunciata ed eseguita nel precedente mese di settembre per l'adesione operosa di quest'ultimo alla fazione raspante, avevano indotto gli uomini del casato a tenersi da parte e i fratelli del condannato ad abbandonare la città. Con ostilità aperte contro Perugia aveva reagito Francesco, fratello del decapitato, che andava danneggiando il territorio con un nucleo di armati e almeno dall'inizio del 1390 era in possesso della Fratticciola, di Monte l'Abbate e di altri castelli.
La possibilità di rivalsa si prospettò per il G. nel giugno 1390, quando gli uomini di Deruta, appresa l'uccisione di tre loro rappresentanti inviati con salvacondotto a Perugia per comporre una vertenza, ne invocarono l'intervento: il G. accorse subito a Deruta con fanti e cavalli e consentì a Michelozzo Michelotti - fuoruscito perugino allora con molti cavalli al soldo di Firenze contraria al regime di Perugia - e ad altri gruppi di esuli di accamparsi fuori del castello. Un'irruzione dentro la città compiuta il 16 giugno dai fuorusciti, illusi di trascinare molti proclamando la pacificazione generale, fu rabbiosamente respinta con le armi e il G., su proposta di Pandolfo Baglioni, già responsabile dell'uccisione dei rappresentanti derutesi, fu dichiarato ufficialmente ribelle. Un contingente militare inviato da Perugia snidò il G., il quale ripiegò su Casalina che, pur dominio della mensa abbaziale, ottenne solo a patti e affidò in custodia a Giovanni Crispolti perché la tenesse a istanza della Sede apostolica, rivelando per la prima volta propensione al diretto dominio pontificio sul territorio. Nel 1392 il castello, occupato e perso dai Perugini, era nuovamente in mano del G. che vi risiedeva con il padre e altri fuorusciti. Pandolfo Baglioni e Andrellino della Torta, non riuscendo a scovarlo, danneggiarono le campagne circostanti, dominio anch'esse della mensa abbaziale.
Il testo della dedizione di Perugia a Bonifacio IX, deliberata quell'anno per garantire la pacificazione generale, nel prevedere in un capitolo la cessione temporanea alla corte pontificia, ad nutum, di ogni edificio pubblico e privato, incluse esplicitamente il monastero di S. Pietro. L'ingresso trionfale in città del pontefice, avvenuto il 17 ott. 1392, per l'intransigenza dei contendenti non modificò la situazione: l'inizio vero della trattativa slittò al maggio 1393, quando a Deruta, sede scelta di comune accordo per la sua neutralità, convennero davanti al vescovo di Fermo, delegato del papa, per i raspanti fuorusciti Simone, padre del G., e Francesco di Nino Guidalotti, per i nobili insediati in città Borgaruccio Ranieri e Pietro di mastro Paolo. Il fallimento della trattativa impose al papa di provvedere di persona: il 20 maggio deliberò il ritorno in città degli esuli; dubbioso, tuttavia, sugli effetti di una pacificazione disposta d'autorità, il 20 giugno, prima del rientro degli esuli fissato per il mese successivo, decise di trasferirsi dal palazzo dei Priori all'abbazia di S. Pietro, per la quale aveva ordinato la realizzazione di fossi e bastioni e l'ulteriore abbassamento del campanile.
La quiete ebbe durata brevissima: la fazione nobiliare cominciò a insinuare nell'animo del pontefice l'indisponibilità dei raspanti a riconoscere la sua sovranità; il 30 luglio una manifestazione, promossa con intento provocatorio dai nobili, indusse tutti i cittadini a prendere le armi e determinò dopo vari assalti la netta vittoria dei popolari, che riuscirono a uccidere molti avversari, fra i quali Pandolfo Baglioni, e a incendiare le loro case. Il pontefice nella notte fra il 30 e il 31 lasciò con i cardinali Perugia per dirigersi ad Assisi, senza prestare ascolto alle preghiere e alle rassicurazioni rivoltegli da Simone Guidalotti, prontamente inviato a S. Pietro dai popolari. Qualche giorno dopo sempre Simone strappava a Bonifacio IX la promessa di un ritorno a Perugia non appena fosse stato investito di reali poteri politici sulla città e il monastero fosse stato trasformato definitivamente in fortezza.
Il regime popolare ristabilito con tanti massacri, bandi, distruzioni patrimoniali si delineò subito irrimediabilmente segnato da un'involuzione signorile: Biordo di Michelozzo Michelotti, a lungo impegnato a combattere i nobili, rientrato il 3 agosto a Perugia, con i successi militari ottenuti lontano dalla patria, con le città assoggettate, con i mercenari al seguito, con la popolarità derivante dal gusto di piacere a ogni costo, riuscì presto a carpire il più largo consenso della fazione dei popolari, in realtà stanchi per tanto coinvolgimento diretto, rischioso e neppure foriero della pace così essenziale per le produzioni e gli scambi.
Col trascorrere dei giorni, pur in vigenza delle magistrature più tradizionali, gli vennero conferite sempre nuove deleghe, alcune delle quali tuttavia non escludevano la partecipazione di altri esponenti della medesima parte: sul finire del 1393 Simone Guidalotti poté contribuire con altri a riavviare lo Studio sospeso per le rivoluzioni; il 17 giugno 1394 sempre Simone partecipò alla redazione degli elenchi dei cittadini da bandire e dei beni da confiscare, dei cittadini da dichiarare benemeriti per il ristabilimento dell'ordine e da remunerare con gli spogli; Simone, sul finire dell'anno, rappresentava Perugia in un'ambasceria a Gian Galeazzo Visconti signore di Milano. Alla commissione insediata nella primavera del 1395 per recuperare beni pubblici troppo generosamente elargiti a presunti benemeriti fu vietato di riconsiderare i donativi trasferiti al Michelotti e a Simone Guidalotti. Nell'ottobre quest'ultimo partì per Roma per riconciliare Biordo col pontefice; probabilmente la residenza si protrasse fino alla fine di marzo del 1396, quando avvertì i Perugini che il 24 precedente era riuscito a sottoscrivere, con l'aiuto degli ambasciatori di Gian Galeazzo duca di Milano, una pace che salvaguardava insieme Perugia e il Michelotti e che suscitò grandi festeggiamenti in città. Simone, eletto per gratitudine conservatore della Pace, fu in seguito fatto prigioniero nel corso di un'ambasceria da Giovanni Colonna, uomo d'arme appartenente alla consorteria del ramo di Palestrina, che lo trattenne per oltre ottanta giorni rilasciandolo solo dietro un forte riscatto; quale risarcimento per il danno ottenne molto denaro e il dominio perpetuo della comunanza di S. Gilio, a lui concessa per precedente merito solo a termine. Il 7 luglio Bonifacio IX dava ordine al G., sempre collettore, di trasferire al padre Simone, forse quale indennizzo, le somme a sua disposizione.
Le nozze di Biordo con Giovanna di Bertoldo Orsini, celebrate splendidamente a Perugia nel novembre 1397, parvero consacrare un primato signorile compiutamente raggiunto e largamente accetto in città, ma esecrabile per quelli che, come i Guidalotti, vedevano esaurirsi con gli ideali del regime popolare il ruolo importante fino allora svolto. Alcuni sospettarono un'intesa dei Guidalotti con i fuorusciti - fra i quali Braccio da Montone (Andrea Fortebracci) - che, con compagnie al soldo del papa, nel febbraio 1398 si mise a infestare il territorio. La reazione più drastica contro il Michelotti ebbe come protagonista il G. e si consumò il 10 marzo 1398 con la sua uccisione.
Nell'ora in cui le vie di Perugia erano deserte per la partecipazione dei cittadini alle liturgie della terza domenica di quaresima il G., trasferitosi a cavallo dall'abbazia alle case del padre sul colle Landone, con una scorta di sedici uomini raggiunse a piedi la dimora di Biordo e lo fece avvisare di dover conferire per un importante negozio. Biordo si precipitò semisvestito dal letto onde evitare l'attesa a persona di riguardo e creduta amica e il G., strettolo forte a sé, come per un abbraccio, offrì le spalle di lui ai pugnali avvelenati dei fratelli Giovanni e Annibaldo.
Dopo l'uccisione i congiurati rientrarono nell'abbazia di S. Pietro, lasciando al solo Armanno di Golino il compito di proclamare per le strade la morte del Michelotti con la speranza di un più ampio e favorevole coinvolgimento di popolo. Appreso da lontano, dal fumo delle loro case incendiate, l'insuccesso politico dell'impresa, i congiurati abbandonarono il monastero per Casalina, appena in tempo per sottrarsi al saccheggio e all'incendio dell'edificio; anche la rocca di S. Apollinare, bene abbaziale, fu demolita.
Durante la reazione popolare fu data la caccia ai Guidalotti e restarono uccisi Simone, ritenuto principale ispiratore della congiura, e Francesco di Nino: la loro memoria fu formalmente dichiarata dannata e i beni dell'intera famiglia confiscati. Una taglia di 500 fiorini fu posta sul capo del G. e dei due fratelli, condannati in effigie: il G. fu dipinto appeso per una gamba, "col capo di sotto" (Pellini, II, p. 98), insieme con un demonio nell'atto di sussurrare al suo orecchio.
Nessun cronista, neppure chi considerava tiranno Biordo, giustificò il G. e tutti ne deprecarono l'operato: qualcuno individuò il movente nell'invidia, qualcun altro nell'ambizione della porpora, intravista con la consegna di Perugia a Bonifacio IX. Se è vero che quest'ultimo non mancò di condolersi coi Perugini per la morte del Michelotti, è pur vero che rafforzò il suo appoggio al G.: già l'8 maggio 1398 concedeva all'abate la potestà di rilasciare salvacondotti a qualsiasi persona; il 17 dicembre invocava l'aiuto di Pietro d'Onofrio di Cerreto perché punisse Sacco di Casalina intento a perseguitare il G. e i fratelli; dopo la pace conclusa con Perugia nell'aprile 1399 il pontefice lamentava in un breve il trattamento inflitto ai Guidalotti in spregio agli impegni assunti dal Comune; nell'ottobre il medesimo intimava ai Perugini, evidentemente sordi sull'argomento, di avvalersi di Marino Tomacelli suo congiunto per concludere la pace con la famiglia.
Il G. morì, non è noto dove, il 17 giugno 1400. La data della morte è ricordata in una lettera di Bonifacio IX ad Annibaldo Guidalotti, nella quale il pontefice gli affida i resti mortali del G. (edita in Le carte dell'Archivio di S. Pietro…, II, p. 27 n.).
L'odio cittadino nei riguardi della famiglia del G. sopravvisse e fu tale da trovare espressione nel trattato di dedizione della città a Gian Galeazzo Visconti: in un capitolo si obbligò il duca a non restituire mai i beni confiscati ai Guidalotti. Quando nel 1425 Annibaldo fece finalmente ritorno a Perugia, pochissimi cittadini, nonostante il tempo trascorso, accettarono di trattare con lui.
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