FOGGI, Francesco
Nacque a Livorno il 15 ag. 1748 da Anton Domenico, di origine fiorentina, e da Maria Giovanna Michelucci di Livorno (Livorno, Arch. della Curia vescovile, Reg. dei battesimi della collegiata, 1748, p. 283).
La famiglia era provvista di un decoroso patrimonio acquisito da Anton Domenico grazie all'esercizio dell'arte di capo maestro muratore in Livorno, dove aveva anche un vasto magazzino. Ma la morte di questo, avvenuta il 7 febbr. 1771, sollevò una serie di problemi finanziari e legali in gran parte dovuti al comportamento del fratello del F., Iacopo, il quale, dopo aver contratto con varie persone "moltissimi debiti", continuò a "scialacquare", finché la madre, alla fine del 1771, chiese all'auditore di Livorno di nominare un economo o curatore del figlio (Arch. di Stato di Livorno, Governatore e auditore, n. 1400 ins. 585).
Il F. studiò all'università di Pisa, ove frequentò i corsi di giurisprudenza conseguendo la laurea in utroque sotto docenti particolarmente qualificati, come G.M. Lampredi (diritto naturale) e L.A. Guadagni (diritto civile); era già incaricato di diritto canonico nell'ateneo pisano nel 1770, allorché discusse, davanti a mons. A. Baldovinetti, a R. Bernardi e a S. Zucchi, tre tesi di diritto canonico tratte dalle decretali sulla residenza degli ecclesiastici beneficiati (Ad rubr. et tit. decretalium De clericis non residentibus theses..., Pisis 1770).
Nel 1774 a Livorno uscì anonimo il suo Saggio sopra l'impunibilità legittima o L'asilo.
Si tratta di uno scritto di indubbia rilevanza teorica, sotto tre distinti profili: il tema specifico dell'asilo; il processo di formazione di una dottrina penalistica italiana di stampo illuministico e preliberale; il passaggio della cultura giuridica del tempo dal paradigma giusnaturalista a quello giuspositivista. Il contributo del F. alla "criminalistica" verte soprattutto sulla natura e funzione della pena e sulla configurazione del concetto di delitto: egli delinea la distinzione tra pena diretta, o propria, e pena indiretta, o impropria. La prima consegue solo dalla violazione di una legge, e poiché non si dà legge senza legislatore, senza un superiore, la pena diretta può essere stabilita, minacciata, irrogata, eseguita, solamente da Dio o dal sovrano (per la violazione delle leggi naturali e positive di cui sono i rispettivi autori). Tra eguali (nello stato di natura, o in particolari circostanze in quello di società) l'unica pena che può darsi è quella indiretta. Il F. professa qui la stessa ideologia imperativistica delle opere giovanili del suo maestro Lampredi, ed articola con precisione ciò che nei Theoremata del Lampredi risulta solo implicitamente: la distinzione, cioè, tra il diritto di punire che compete al sovrano, ed il diritto di autodifesa che spetta agli individui secondo la legge naturale. La fondazione contrattualista che il F. propone per il diritto di punire presenta indubbie assonanze, ma anche profonde divergenze, con quanto aveva affermato C. Beccaria nel Dei delitti e delle pene (cfr. Comanducci, 1990, pp. 254 s.). Quanto alla funzione della pena, il F., pur riconoscendone il fine generalmente preventivo, sembra propendere per la tesi della retribuzione giuridica: la pena è, infatti, a suo parere, un male che deve essere inflitto per l'unico motivo che la legge è stata violata. E solo il sovrano che si pone il problema dei fini ulteriori cui la pena può assolvere (prevenzione generale e speciale, emenda, ecc.); a livello dei consociati la pena ha la sola fimzione di retribuire la violazione della legge. Va poi segnalato il significativo passo verso una concezione pienamente giuspositivista del delitto compiuto dal F. definendo quest'ultimo come "qualunque volontaria, e libera trasgressione di una Legge obbligante l'agente, e da lui conosciuta" (p. 75). Per ogni complesso normativo (diritto naturale, diritto civile) vi è un corrispondente tipo di delitto, la cui punizione compete al rispettivo legislatore. Ciò significa che un'azione configura un delitto civile per il solo motivo che viola una legge civile, indipendentemente dal fatto che essa violi o meno una legge naturale, o, il che è lo stesso, che sia contraria o meno al benessere sociale. Siamo in presenza di una concezione puramente giuridico-formale del delitto, che vuole esplicitamente prescindere da considerazioni di natura politica o morale. Il F. non nega la possibilità di uno iustum primitivum, non dipendente da una legge preesistente, ma ritiene che quando una legge positiva sia stata emanata da un sovrano legittimo, anche se sia in contrasto con il bene pubblico, debba essere rispettata, e che la sua violazione costituisca sempre un delitto. Tema specifico del Saggio è comunque l'impunità legittima, ossia "qualsivoglia sicurezza stabilita dalla Legge in favore di quelli, che hanno sufficiente motivo di temere, per qualche rea, colposa, o casuale precedente azione da essi fatta, di essere danneggiati da altri" (p. 11). La legge istitutiva dell'impunità può essere il diritto naturale, quello delle genti, quello civile o quello canonico: si avranno perciò quattro generi di impunità, che vengono partitamente esaminati nei quattro capitoli che compongono il volume. Nell'ultimo capitolo del Saggio relativo al gius canonico, il F. affrontava una materia politicamente scottante in quegli anni ponendosi in diretta polemica con la politica giurisdizionalista del granduca Pietro Leopoldo. Ciò avveniva soprattutto con la proposta de iure condendo collocata in chiusa al volume, in cui si affermava che l'asilo sacro non solo è legittimo, ma anche utile e da conservare.
Il Saggio del F. ebbe uno strascico polemico. Nella recensione delle Novelle letterarie di Firenze del 18 nov. 1774 (n.s., V, coll. 724-28), se per un verso si lodava l'opera, per un altro si insinuava che essa fosse stata scritta "da un giovane studioso, e di ottima espettazione" ma sotto "dettatura di un Professore di abilità, che lo ha assistito". Il Lampredi, sentendosi attaccato, protestò contro la redazione del periodico e su suo invito il F. replicò all'accusa di plagio con la Lettera ... ad uno dei collettori del Giornale pisano in difesa del suo onore ingiustamente attaccato dagli estensori delle Novelle letterarie di Firenze, Livorno, 24 novembre 1774, edita anche nel Giornale de' letterati, t. XVI (1774), pp. 289-95 (sulla questione della paternità letteraria, cfr. Comanducci, 1981, pp. 157 s.).
Nell'anno accademico 1775-76 fu nominato professore di istituzioni canoniche. In quest'ultimo anno, probabilmente in vista di una riforma organizzativa dell'ateneo pisano, egli trascrisse gli statuti dello Studio da una copia secentesca, cui fece seguire un'appendice contenente in una prima parte vari bandi, rescritti, lettere granducali concernenti l'organizzazione e le consuetudini dell'ateneo, e in una seconda l'elenco dei rettori e del personale docente e ausiliario (cfr. Pisa, Bibl. univers., ms. 559: Statuta almi Pisani Studii sumpta ex originalibus per J. Lupium ... et cancellarium dicti Studit). Quest'interessamento preluse alla nomina del F. alla carica di vicerettore dello Studio pisano nel 1784; per il 1784-85 fu trasferito alla cattedra di istituzioni civili, ma fu dispensato dal servizio perché nel frattempo era stato scelto come precettore dei reali arciduchi di Toscana per le scienze della morale e del diritto (incarico che tenne fino al 1789). Per svolgere questo compito egli preparò, col consiglio del collega e amico G. Paribeni, un Prospetto d'un trattato di scienze moralifilosofiche che il F. allegò il 9 ag. 1784 ad una missiva al consigliere di Stato F. Seratti.
Ricalcando, forse, la sistematica delle scienze proposta da C. Wolff, il F. distingueva a seconda dell'oggetto e del fine specifico le scienze intellettuali da quelle morali, e, al loro interno, l'etica e la giurisprudenza, le quali preparano i materiali della politica e dell'economia. Mentre queste ultime ricercano non il giusto ma l'utile, la morale tratta delle azioni dell'uomo, ivi comprese le passionì, e dei mezzi per conquistare il bene. L'unione di tutti i beni particolari formerà la piena felicità dell'uomo, il quale, per raggiungerla, si servirà sia della rivelazione sia dell'esercizio continuo delle facoltà intellettuali. Il diritto naturale ha invece lo scopo di dirigere le libere azioni umane coerentemente alle leggi naturali, per rendere l'uomo naturalmente giusto a seconda dei diversi stati di vita, i quali comportano obblighi differenti in rapporto a se stessi e agli altri. Le leggi naturali sono universali e obbliganti, vere e reali, e si dividono in diritto privato, pubblico e delle genti (Arch. di Stato di Firenze, Segreteria di Gabinetto, Appendice, n. 249 ins. 2; Reggenza lorenese, n. 1052).
Nel 1787 gli venne riattribuita la cattedra di istituzioni canoniche (ma solo nominalmente perché, rimanendo egli a Firenze, le lezioni furono tenute da F. Falchi Picchinesi); nel 1791 fu promosso da Ferdinando III alla cattedra di ordinaria canonica; l'anno seguente gli venne concesso di tenere lezioni di istituzioni canoniche anche nella propria abitazione.
Oltre che dall'insegnamento e dall'esercizio dell'avvocatura, il F. appare in questi anni assorbito dalle responsabilità per la cura dei sette figli che, tra il 1780 e il 1795 aveva avuto dalla moglie Anna Barigazzi. Non mancarono, tuttavia, le occasioni in cui al F. vennero richiesti pareri qualificati. Il 19 marzo 1788 il granduca Pietro Leopoldo lo incaricò di stendere, insieme con il Falchi Picchinesi, un delicato parere su una dissertazione del giurista pratese G.D. Ceri in cui si sosteneva, a difesa del vescovo S. de' Ricci, essere il vescovo il legittimo amministratore del patrimonio ecclesiastico diocesano.
A tutela delle prerogative dei principi, il F. affermò che "è principio generalmente ammesso da' giuspubblicisti che la suprema potestà intorno all'amministrazione de' beni temporali d'ogni particolar chiesa compresa in uno Stato risiede nel Sovrano di esso" e che il vescovo cessa di essere il legittimo amministratore non appena le leggi del sovrano "gli tolgono tal commissione ed altrimenti provveggono con mezzi dal sovrano creduti migliori al bene comune dello Stato e delle chiese particolari che sono in questo comprese" (Arch. di Stato di Firenze, Segreteria di Gabinetto, n. 15).
L'attività pubblicistica del F. riprese nel 1792 con la recita d'una orazione funebre in morte dell'imperatore Pietro Leopoldo, recitata in Livorno (cfr. Arch. di Stato dì Livorno, Governo civile e militare, n. 983, c. 105) e con la collaborazione alla traduzione, diretta da A. Fabroni fin dal 1779, della History of the decline and fall of the Roman Empire di E. Gibbon: il F. curò la traduzione dell'ultimo tomo (cfr. Rao, L'amaro della feudalità, p. 222 n. 84).
Nell'"Avviso del traduttore", il F. confessava di avere avuto "della repugnanza a continuare un'opera" in cui veniva attaccata la religione cristiana "con indecenti espressioni, e con certa animosità", ma di averla vinta grazie al conforto di un'"autorevole persona" (il Fabroni?) il quale l'aveva convinto dell'importanza dell'opera e lo aveva assicurato che "con opportune correzioni e aggiunte pensato avrebbe ad impedire il danno che le libere ed irreligiose frasi del nostro A. avrebbero potuto produrre negli animi" (E. Gibbon, Istoria della decadenza e rovina dell'Impero romano, X, Pisa 1792, pp. 5 s.).
Nel 1793 pubblicò a Pisa le Institutiones canonicae ad usum Academiae Pisanae, che seguono il modello di ripartizione delle materie inaugurato da G.P. Lancellotti, anche se ne modificano leggermente i titoli dei libri. Lo scopo dell'opera è in gran parte didattico; tuttavia essa acquista un valore intrinseco sia per la particolare cura con cui ad ogni singolo paragrafo viene offerto l'elenco delle fonti canonistiche e della trattatistica più qualificata, sia per l'intento di integrare la normativa canonica universale con le leggi e le consuetudini vigenti nel Granducato di Toscana.
Nella trattazione il F. assume spesso, specie nelle questioni delicate, una posizione sfumata rispetto alle tesi della canonistica filocuriale. Caso tipico il primato papale (pp. 96 ss.): se da un lato considera il papa "primus et caput" dei patriarchi, dei primati, dei vescovi e dei sacerdoti, legittimo successore di Pietro, supremo vicario di Cristo, dall'altro sottolinea che al papa è affidata "in primis" la sollecitudine pastorale di tutta la Chiesa. Le posizioni del F. si inseriscono nell'alveo della tradizione e restano comunque moderate (nel trattare i diritti dei parroci si tace circa ogni rivendicazione parrochista, la quale, come è noto, era stata particolarmente forte in Toscana).
Sviluppando un disegno già presente nella prefazione alle Institutiones, tra il 1794 e il '95 il F. pubblicò, in italiano, anche i suoi corsi di "ordinaria canonica" in tre volumi: Dissertazioni secondo l'ordine delle istituzioni canoniche per uso dell'università di Pisa (Pisa 1794-95, 2 ed. Pisa 1805).
Il proposito del F. è quello di seguire una "via media" tra le varie opere di istituzioni canoniche, in modo da evitare i difetti sia dei "vecchi autori", che presentavano una visione mutevole e non aggiornata del diritto, sia di coloro che per "spirito di partito" seguivano solo il diritto delle decretali papali e trascuravano "gli antichi canoni" della Chiesa, sia, infine, di quelli che, al contrario, "vorrebbero distruggere i nuovi usi, e tutte regolar le presenti pratiche sul gusto de' primi tempi". Altra preoccupazione del F. è di aggiungere alle regole comuni del diritto canonico, "le principali del nostro Gius Patrio" (Dissertazioni, I, pp. 138-145). La rinnovata attenzione rivolta ai problemi metodologici, il costante confronto tra l'ordinamento canonico e il diritto romano e civile, il diretto riferimento alle "autorità" canonistiche antiche e medievali, lo scarso spazio concesso alla trattatistica e alla letteratura curiale, assegnano a quest'opera caratteri di una certa originalità nel panorama della canonistica italiana coeva. La terza edizione dell'opera (Pisa 1814) presenterà l'aggiunta di un tomo di Dissertazioni… sul titolo delle decretali De officio, et potestate iudicis delegati e sarà messa all'Indice "donec corrigatur" con decreto del 19 genn. 1824.
Nel 1803 il F. venne dispensato dalla cattedra di istituzioni canoniche. Risalgono a questo periodo due sue pubblicazioni: la cura editoriale e l'aggiornamento, con scritti suoi e di altri canonisti, dell'edizione delle Institutiones canonicae di G.V. Gravina (Florentiae 1804) e il Saggio sopra gli scritti dell'avvocato Gio. Maria Lampredi... (in Atti dell'Accademia Italiana, t. I [1808], pp. 205-261), che rappresenta un profilo particolarmente ricco di notizie e di notazioni sul conto della vita e dell'attività scientifica del suo maestro.
Durante gli anni del governo francese della Toscana, e più precisamente dal 1810-11 al 1813-14 il F. si vide dirottato dalla cattedra canonica a quella di storia.
Il suo stato di salute aveva subito qualche peggioramento nel 1812 a causa di "un'affezione nervosa" che gl'impediva "le operazioni della mente, in alcuni giorni più, in altri meno". Dovette, perciò, diminuire i suoi lavori, e consolarsi pensando che se non poteva più "lavorare per servizio pubblico" si sarebbe almeno potuto dedicare all'educazione intellettuale del flglio Ferdinando, già maestro di matematica nel collegio "Ferdinando" di Pisa (lettera alla Sulgher Fantastici, Pisa, 29 apr. 1812).
Col ritorno dei Lorena al trono. fu richiamato, nel novembre 1814, alla cattedra di interprete di sacri canoni, ufficio che ricoprì formalmente fino alla morte (Arch. di Stato di Pisa, Archivio dell'università, IIversamento, passim).
Forse anche per il suo non buono stato di salute che lo teneva più spesso lontano da Pisa, il F. allacciò maggiori relazioni con Livorno. Il 14 genn. 1817 fu eletto socio, insieme coi figlio Ferdinando, dell'Accademia Labronica (cfr. Livorno, Bibl. Labronica, Centro di documentazione "Villa Maria", Memorie dell'Accadernia Labronica, Deliberazioni, I, 1816-26, c. 16v). Qui lesse il 14 agosto seguente un incitamento alla gioventù livornese per lo studio della fisica (ibid., n. 245), seguito, il 16 luglio 1819, da una dissertazione sull'usura civilmente e canonicamente lecita e illecita (ibid., n. 377). Nel 1817 venne concessa al F. una pensione per aver esercitato le funzioni di procuratore gerente dei beni della soppressa Accademia di Pisa sotto il governo francese; negli anni 1820-24., sebbene le cattive condizioni di salute gli impedissero sempre più spesso di tenere lezioni e di partecipare agli esami, il F., per ordine del governo, continuò a beneficiare dello stipendio, degli aumenti ordinari e delle propine. Lo stesso governo, alla sua morte, decise di concedere un sustidio alla vedova (Arch. di Stato di Pisa, Archivio dell'università, IIversamento). Fu socio corrispondente del Gabinetto Vieusseux.
Il F. morì a Pisa, nella parrocchia di S. Caterina, il 12 ag. 1824 (Arch. di Stato di Firenze, Stato civile toscano, Morti 1824, Pisa, reg. 10766 atto 6/4).
I Foggi vennero ascritti alla nobiltà pisana col rescritto di Leopoldo II del 27 marzo 1832. I primi a beneficiare del riconoscimento furono i figli del F.: Ferdinando, professore di geometria, aritmetica e trigonometria e poi di algebra nell'università di Pisa, Antonio, Maria e Giovanna (Ibid., Deputazione sulla nobiltà e cittadinanza, n. 89).
Fonti e Bibl.: Firenze, Bibl. Marucelliana, ms. B. II, 27 (lettera a A.M. Bandini da Livorno, 5 dic. 1774); Arch. di Stato di Firenze, Segreteria di Stato, 1784, Prot. III Straord., ins. 146 (richiesta di aumento di stipendio); Firenze, Bibl. Nazionale, Nuove accessioni, n. 906 II, ins. 33 (contiene trentanove lettere del F. a Fortunata Sulgher Fantastici, 1776-1813); Ibid., Raccolta Gormelli, cass. 13, nn. 189, 198 (lettere a non identificato e a O. Porri); Filandro [= Federigo Del Rosso], Elogio accademico di F. F., prof. nella Univ. di Pisa…, in Antologia, t. XVII (1825), pp. 126-136; F. Melzi, Diz. delle opere anonime e pseudonime, I, Milano 1848, p. 452; III, ibid. 1859, p. 14; F. Pera, Ricordi e biografie livornesi, I, Livorno 1867, p. 308; P.A. Micheli, Storia dello Studio pisano dal 1737 al 1799, in Annali delle università toscane, XVI (1879), pp. 35 s., 41; J.F. von Schulte, Die Geschichte der Quellen und Literatur des canonischen Rechts, III, 1, Stuttgart 1880, p. 538; A. van Hove, Prolegomena ("Commentarium Lovaniense in codicem iuris canonici", vol. I, 1), Mechliniae-Romae 1945, p. 548; Pietro Leopoldo d'Asburgo Lorena, Relazioni sul governo della Toscana, a cura di A. Salvestrini, I, Firenze 1969, p. 93; A. Rotondò, Su G.M. Lampredi, in Ricerche storiche, IX (1979), pp. 16-24; P. Comanducci, Settecento conservatore: Lampredi e il diritto naturale, Milano 1981, ad Indicem; A.M. Rao, L'amaro della feudalità. La devoluzione di Arnone e la questione feudale a Napoli alla fine del '700, Napoli 1984, p. 222 n. 84; D. Barsanti, L'università di Pisa dal 1800 al 1860. Il quadro politico e istituzionale, gli ordinamenti didattici, i rapporti con l'Ordine di S. Stefano, Pisa 1993, passim; P. Comanducci, La scuola criminalistica pisana tra Sette e Ottocento, in Illuminismo e dottrine penali, a cura di L. Berlinguer - F. Colao, Milano 1990, pp. 241-304.