DE MARI, Francesco
Nacque a Genova il 4 apr. 1656 e fu battezzato come Francesco Maria (ma il Francesco Maria De Mari dei documenti dell'epoca e un omonimo) nella chiesa di S. Siro.
Era il quinto figlio maschio di Stefano di Francesco, doge di Genova nel 1663-1665, il secondo natogli dalla seconda moglie Livia Maria Lercari: gli furono fratellastri Girolamo (doge nel 1699-1701), il gesuita Agostino, Nicolò; fratelli, Domenico Maria (doge anch'egli, nel 1707-1709) e Camillo. La famiglia, oltre che opulenta (il primogenito Girolamo risultò uno dei contribuenti più ricchi alla capitazione della nobiltà nel 1682), era tra le più influenti dell'oligarchia genovese. Dal primo Seicento al pieno Settecento, per oltre un secolo e lungo quattro generazioni, il ramo dei De Mari cui il D. apparteneva fu regolarmente rappresentato ai vertici della Repubblica. Il 7 marzo 1663 i sei fratelli De Mari vennero ascritti al Liber nobilitatis.
Il 21febbr. 1677, in S. Siro, il D. sposò Livia (o Livia Maria) Centurione, figlia dell'ammiraglio Ippolito: matrimonio, tra un nobile di casata tradizionalmente filospagnola e la figlia di un personaggio a lungo al servizio del re di Francia, anticipatore del rimescolamento di posizioni che ebbe luogo tra gli oligarchi genovesi a cavallo del secolo. Testimoni alle nozze due personaggi già influenti: Paolo Geronimo Franzone e Marco Antonio Lomellino; proporzionata al rango degli sposi la dote di 35.000 scudi d'oro. Dal matrimonio nacquero Ippolito (28 luglio 1681), Stefano (29 luglio 1683), Giovanni Battista (12 ag. 1686), e Livia Maria, entrata nel convento dei Ss. Giacomo e Filippo. Rimasto vedovo, il D. passò a nuove nozze il 5 apr. 1690, nella chiesa delle Vigne, con Anna Maria Adorno, figlia di un milionario della più qualificata nobiltà "nuova" e vedova di Bartolomeo Dongo, della famiglia degli industriali della carta di Voltri accolta nel patriziato genovese nel 1628, grazie anche a un congruo donativo alle casse della Repubblica. Matrimonio senza prole (Anna Maria morì nel 1704 legando al marito il palazzo di famiglia nella piazza di Banchi), e anch'esso rappresentativo della ormai tranquilla fusione di famiglie patrizie di provenienza assai diversa.
Come quella precedente, anche la nuova generazione dei De Mari partecipò al governo della Repubblica attuando una sorta di divisione dei compiti: Girolamo e Domenico Maria pervennero al dogato, Camillo e Nicolò ad alte cariche; al D. toccarono magistrature cittadine di minor spicco, intervallate però da numerosi incarichi diplomatici, tutti in orizzonte ispano-milanese.
Nello stesso orizzonte gravitava anche la vita privata del D., che il 23 sett. 1687 acquistò da Giovanni Battista Mezzabarba la signoria di Rivanazzano, nel Vogherese, dove risiedette con una certa frequenza e da dove gli era facile fare la spola con Milano (la cura dei suoi "beni di Lombardia" lo occupò talvolta anche nel corso delle missioni diplomatiche a Milano).
Questo il cursus honorum cittadino del D.: l'8 marzo 1685 entrò nel magistrato dei Censori (che disciplinava l'approvvigionamento annonario urbano e controllava pesi e misure), nel quale fu confermato il 3 aprile dell'anno seguente e il 9 apr. 1687; fu in ballottaggio, senza fortuna, per il capitanato di Novi nel gennaio 1688 e per il governatorato di Savona nel marzo 1690; il 15 apr. 1689 entrò nuovamente tra i Censori, il 5 marzo 1691 nell'ufficio di Sanità; il 13 luglio 1694 fu eletto al magistrato della Misericordia, dal quale passò l'anno successivo (4 luglio) all'ufficio del Sale delle compere di S.Giorgio; nel giugno 1696, compiuti gli indispensabili quarant'anni, fu incluso nell'urna del Seminario, dalla quale venivano estratti semestralmente i nomi dei senatori e dei procuratori: ma la sorte e il divieto dell'elezione di consanguinei alla stessa carica (anche i fratelli erano nel Seminario) fecero sì che non entrasse mai nei Collegi. Nel marzo 1698 (e di nuovo nel maggio 1703 e nell'agosto 1709) entrò nella deputazione super auguinentum comercii, della quale a turno fecero parte anche due suoi fratelli. Nel marzo 1702fu eletto al magistrato dell'Annona (o Abbondanza), da dove all'inizio dell'anno seguente passò alla massima carica di S. Giorgio, quella di protettore. Il 2 genn. 1705 entrò nell'ufficio di Guerra; il 5 luglio 1709 nel magistrato delle Galee; e nel dicembre dello stesso anno fu (prima e ultima volta nella sua carriera) uno dei trenta elettori dei Consigli.
Nell'insieme, un cursus honorum fitto di incarichi, ma di secondo piano, eccetto che in S.Giorgio. Valutata contestualmente a quella dei fratelli, la carriera del D. contribuisce tuttavia a delineare la presenza massiccia di un singolo gruppo familiare nel governo della cosa pubblica genovese. Il primo incarico diplomatico del D., nel gennaio 1685, ebbe come destinazione Milano e come scopo quello di portare il ringraziamento della Repubblica al governatore, J. T. Enriquez de Cotrera conte di Melgar (per altro poco favorevole ai Genovesi) per la collaborazione all'allestimento delle difese di Genova contro un eventuale nuovo attacco delle forze di Luigi XIV.
L'anno precedente Genova era stata coinvolta nel conflitto tra Francia e Spagna e bombardata dal 17 al 28 maggio dalla flotta francese. La Repubblica si era rivolta al Melgar per aiuto; ma dopo che nell'agosto la Spagna ebbe concluso con il re Sole la tregua di Ratisbona, i Genovesi dovettero affrettarsi a venire a loro volta a patti con Luigi XIV. Proprio il D., ricevuto dal Melgar il 18 e il 21 febbraio, ebbe l'incarico di comunicare al conte l'avvenuta sottoscrizione dell'accordo tra Genova e la Francia, preludio al viaggio del doge Francesco Maria Imperiali Lercari a Versailles. Egli rientrò poi a Genova, lasciando all'agente Gio. Nicolò Fieschi il compito di dirimere la controversia sullo scioglimento e la paga di un reggimento svizzero arruolato coi buoni uffici spagnoli per conto della Repubblica, e ormai inutile.
Il 14 genn. 1692 il D. fu nominato ambasciatore straordinario presso il re Cattolico. La missione aveva luogo nel pieno della guerra della Lega d'Augusta, nel corso della quale Genova mantenne una neutralità che favoriva l'aumento del suo traffico marittimo. La Spagna, nel sospetto che sotto la bandiera genovese prosperasse il commercio francese, attuò una pratica puntigliosa di controlli e perquisizioni non priva di precedenti, ma particolarmente dannosa ad un traffico in ripresa dopo un lungo ristagno. Movente inunediato della missione fu il decreto dell'8 dic. 1691, che imponeva ai mercanti genovesi operanti in Spagna di presentare elenchi dettagliati delle merci; sembrava inoltre sul punto di essere ripristinata la limitazione a tre dei vascelli genovesi abilitati a entrare nei porti spagnoli.
Le istruzioni del governo, datate 27 marzo, e integrate da altre istruzioni della giunta di Marina del 15 aprile, incaricavano il D. di smentire le voci pregiudiziali al commercio della Repubblica e di placare i timori diffusi inter essatamente dalle potenze marittime, Inghilterra e Olanda, che il naviglio genovese assicurasse in realtà il commercio francese. Oltre a spiegare ai ministri spagnoli che la ripresa del commercio genovese avvantaggiava indirettamente anche quello spagnolo, il D. doveva "far comprendere che il nervo del trafico di sostanza per la Francia dee uscire da' porti di Ponente, ove non traficano i nostri, e che contrarie possono essere esaggerazioni aggravate da mercanti inglesi et olandesi impazienti di ripigliar essi quel trafico che patiscono di veder più lungamente sospeso". Il D. doveva inoltre chiedere l'intervento del re di Spagna presso l'imperatore, perché i commissari imperiali in Italia riducessero le contribuzioni imposte alla Repubblica per il mantenimento dell'esercito collegato in Lombardia. Nell'insieme la missione dei D. era assai difficile, perché i suoi due obiettivi non riguardavano soltanto, e neppure principalmente, il re Cattolico: sul punto delle limitazioni al commercio marittimo genovese, la Repubblica vedeva giustamente, dietro all'iniziativa spagnola, le pressioni dei potenti alleati inglesi e olandesi; sul punto delle contribuzioni, i rappresentanti di Leopoldo I in Italia si muovevano senza troppi riguardi per i desideri di Madrid e tendevano ad anticipare la sostituzione del dominio imperiale a quello spagnolo.
Il D. si imbarcò il 22 apr. 1692, fece scalo a Marsiglia il 29 e dopo una navigazione travagliata approdò a Barcellona il 17 maggio. Giunse a Madrid il 30 maggio; ma, rimasto indietro il bagaglio, non poté presentare le proprie credenziali alla corte prima del 9 luglio. A Madrid trovò ad attenderlo l'agente Giovanni Battista Boero, già incaricato di affari della Repubblica nell'intervallo tra la lunga ambasciata di Giovanni Andrea Spinola e l'arrivo del De Mari. Le trattative per ottenere la revoca dei decreti restrittivi dei commercio genovese durarono a lungo e richiesero l'esibizione di una copiosa documentazione intesa a dimostrare l'insussistenza dei precedenti invocati dagli Spagnoli. Le restrizioni divennero presto lettera morta: e contentandosi di questo successo di sostanza il D. rinunciò a sollecitare una - poco probabile - revoca formale delle disposizioni regie. Quanto all'intervento spagnolo presso l'imperatore, il successo mancò del tutto, rifiutando Carlo II di prendere posizione contro il congiunto e alleato.
Nel corso della sua permanenza il D. riusci a comporre alcune altre controversie di minore importanza: dall'incidente occorso davanti a Napoli tra due navi genovesi e la squadra delle galee spagnole di Sardegna, alle dispute sulla consegna dei disertori dell'esercito spagnolo di Lombardia e sul trattamento dei rematori volontari di nazionalità spagnola imbarcati sulle galee genovesi.
Conclusi entro l'estate del 1693 questi affari, il D. venne trattenuto in Spagna dall'insorgere di un serio contrasto tra la Casa di S. Giorgio e il governatore di Milano, marchese di Leganes.
A S. Giorgio, che deteneva l'appalto del sale del Finale, il governatore, a corto di mezzi per finanziare la campagna dell'anno seguente, richiese il pagamento di una ingente somma, a titolo di conguaglio per diritti non versati. Il Leganés, aderendo alle richieste dei commissari imperiali, sequestrò inoltre le rendite genovesi a Milano per coprire l'ammontare delle 92.000 lire dovute dalla Repubblica per il mantenimento dell'armata imperiale, e intervenne presso il viceré di Sicilia per rastrellare una parte di questa somma grazie al sequestro di beni genovesi nell'isola.
Di fronte alla minaccia del governatore di Milano di procedere a un generale sequestro di beni genovesi per saldare il debito presunto della Casa di S. Giorgio verso la Camera di Milano, il D. agì abilmente, evadendo l'ordine del governo genovese di appellare la questione davanti a un giudice neutrale, e procurando invece di pubblicizzare le ragioni di S.Giorgio e di evidenziare l'arbitrarietà del procedimento seguito dal Leganés. Il Consiglio d'Italia decise a maggioranza di soprassedere ai sequestri; il Consiglio di Stato, cui la questione venne demandata, si divise a metà, consentendo però che nel frattempo non venissero prese iniziative contrarie agli interessi genovesi. Nonostante le premure del D. la questione era ancora irrisolta al momento del congedo infine accordatogli dalla Repubblica.
Partì da Madrid diretto a Genova il 17 giugno 1694. Nella relazione presentata al ritorno in patria, il D. diede, come era consueto, un quadro della politica spagnola del momento, limitandosi per altro a ritrarre i componenti del Consiglio di Stato e di quello d'Italia (interlocutore abituale, questo, di ogni ambasciatore genovese, che "poco o nulla ha da fare con gli altri [Consigli], con tutto che tal volta per occasione del comercio possa essere incidentalmente qualche pendenza con quello di Guerra").
Il D. giudicava insostenibile per la Spagna la prosecuzione delle ostilità; e nonostante la mancanza di un "primo mobile a cui siano universalmente appoggiati [gli affari] come al Privato o sia valido", individuava il fulcro del Consiglio di Stato nel triumvirato composto dal conestabile e dall'almirante di Castiglia e dal conte di Montalto: assai ostili, i due ultimi, agli interessi genovesi. E appunto favorevoli e contrari alla Repubblica mirò a distinguere nella sua breve galleria di personaggi. Amici si erano dimostrati nelle recenti controversie il marchese di Mancera, il conte di Monterrey, quello di Aguilar, e soprattutto il marchese de los Balbases, Filippo Spinola, "buon figlio di questa Repubblica", vero portavoce permanente degli interessi genovesi a Madrid. Avversi, invece, il marchese di Villafranca e il cardinale Portocarrero, oltre all'almirante e al Montalto. Nel complesso, scriveva il D., "la Republica ha con la Corte Cattolica stella cotanto maligna che influisce così infelice fortuna alle sue rettissime intenzioni".
All'inizio del 1696 il D. venne inviato a Milano per comporre una controversia con il governatore e con il Senato, nata dall'arresto presso Novi di alcuni contrabbandieri di tabacco da parte degli agenti della Repubblica. Il Fisco milanese intendeva attuare rappresaglie contro gli impresari del tabacco di Novi, nonostante la Repubblica avesse interessato il residente spagnolo a Genova. Ma una volta a Milano si trovò ad occuparsi degli sviluppi delle ostilità tra i collegati della Lega d'Augusta e i Francesi.
A fine aprile il conte Maximilian Breuner, supremo commissario di guerra dell'imperatore in Italia, aveva nuovamente richiesto alla Repubblica di contribuire per la sua parte al mantenimento delle truppe imperiali. Durante le ostilità i principi dell'Italia settentrionale vassalli dell'Impero e i detentori di feudi imperiali (fra questi Genova) erano già stati assoggettati al pagamento di "contribuzioni" e "sussidij". Come in precedenza, la Repubblica cercava di prendere tempo e di appellarsi direttamente all'imperatore. L'8 luglio il D. segnalò l'eventualità che il duca di Savoia fosse in trattative avanzate con i Francesi per ritirarsi dalle ostilità. In realtà il duca e i Francesi si erano già accordati; e nell'ottobre l'armistizio di Vigevano pose termine alle operazioni di tutti i collegati in Italia. Tanto più urgeva sgomberare le truppe imperiali: e il Breuner tornò alla carica esigendo dalla Repubblica 40.000 doppie come quota parte delle 300-000 doppie complessivamente richieste agli Stati italiani, mentre il duca di Savoia si offriva interessatamente come esattore armato.
Il D. venne perciò incaricato di accertare le quote spettanti ad ogni Stato italiano, e soprattutto di ottenere uno sconto. Dopo schermaglie rese inutili dalla durezza del Breurier e dalla scarsa resistenza degli altri Stati, Genova sborsò 25.000 doppie, promettendone altre 15.000 all'uscita dell'esercito imperiale dall'Italia. Il D. si trattenne a Milano curando l'esecuzione del pagamento e sollecitando una riduzione direttamente alla corte imperiale. Nel contempo intervenne per procurare l'appianamento di altre controversie che danneggiavano i beni genovesi (sequestro delle rendite dei cittadini della Repubblica in Sicilia; incidenti con ì corsari e contrabbandieri del Finale; acquisto del feudo di Gorzegno da parte del duca di Savoia e manovre toscane per acquistare i feudi dei genovesi Centurione in Lunigiana). Dopo un'assenza da Milano dall'inizio d'agosto 1697 a fine aprile 1698, ritornò presso il governatore per chiudere la controversia sui sussidi (ottenuta infine una riduzione di 8.000 doppie), e rimase sino all'arrivo del successore del Leganés, Carlo Enrico di Lorena principe di Vaudémont, il mese seguente.
Nell'ottobre 1702, nell'imminenza del passaggio di Filippo V di Spagna per il territorio della Repubblica (in primavera il re, partendo da Napoli, aveva raggiunto Milano per la via Vado- Finale-Alessandria; ora scendeva da Milano per imbarcarsi a Sampierdarena diretto a Napoli), il D. fu inviato a Milano (la nomina lo raggiunse a Rivanazzano il 18 ottobre; le istruzioni datano dal 19) con l'incarico di predisporre il passaggio di Filippo, ottenere alla Repubblica un adeguato trattamento cerimoniale e scongiurare il transito in territorio genovese di una scorta armata al monarca troppo numerosa. Il D. ricevette un personale segno della generosità borbonica "un anello con diamante", che poté tenere dietro approvazione dei Collegi): e la questione del cerimoniale venne risolta con soddisfazione del governo genovese (mentre il passaggio della scorta regia causò non pochi danni ai privati).
Ancora a Milano, nel dicembre 1703, il D. intervenne presso il Vaudémont per comporre la controversia originata dal sequestro da parte genovese di una nave da carico finalina, e seguita dalle rappresaglie di rito del governatore di Finale Armenzaga "confidentissimo et antico servitore" del Vaudémont. Oltre al non nuovo problema del traffico, il D. affrontò quello, neppure nuovo, del blocco delle rendite del Monte S. Carlo di Milano, blocco che danneggiava gli investitori genovesi: "ma per quanto posso comprendere", era l'ovvia constatazione, "prevale all'obligo la necessità". L'affare venne concluso dopo varie lungaggini e rinvii ("per ogni leggiera pendenza, li mesi sono troppo brevi") a metà febbraio del 1704; il 20 il D. ebbe l'ultima udienza con il Vaudémont.
La successiva missione a Milano, dell'ottobre 1707, ebbe a motivo la pratica di un certo Tosi: una creatura dell'elettore palatino, conosciuto a Genova come semplice "sico" con precedenti di porto d'armi abusivo. Il Tosi era stato allontanato dalla città dopo un diverbio con il segretario del Senato Granara, e sulla via di Milano era stato derubato da alcuni malviventi. Questione di puntiglio, perché l'elettore per non "mancare al suo ponto di Principe" pretendeva che il Granara in persona si recasse a Milano a scusarsi. La pratica si protrasse sino all'estate del 1708, quando tornò in primo piano il problema delle contribuzioni alle truppe imperiali. La questione era stata già trattata nel 1707 dall'inviato genovese Anton Giulio Brignole. L'anno seguente vennero chieste perentoriamente 40.000 doppie, poi ridotte a 35.000 grazie all'operato del De Mari. Il 14 genn. 1709 il D., conclusa la missione, prese congedo.
Ancora vivo il 16 dicembre di quell'anno, morì entro il 10 genn. 1710, quando venne sostituito nelle cariche che ricopriva. I suoi figli refutarono al demanio la signoria di Rivanazzano, che venne infeudata nel 1712 ad un altro genovese, Marc'Antonio Rovereto.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Genova, Arch. segreto 484; 940, f. 19v; 941, ff. 22v, 24; 944, ff. 9v, 19v, 35; 945, f. 14; 946, f. 15; 947, f. 106; 948, ff.31, 88rv, 90; 949, f.93; 952, ff.28, 65v, 91; 954, f. 4; 955, f. 3; 956, ff. 51, 59, 93; 957, ff. 5v-6, 45v; 1359C [ex 1947], ff. 39-42; 1937, ff. 8-9v; 1941, ff. 11-139; 1943, ff. 1-166 passim;1945, ff. 42-82 passim;2305 e 2306 (con i dispacci del D. da Milano), 2462 e 2463 (dove si trovano i 56 dispacci del D. dalla Spagna), 2710, 274, 2718 (nei primi due le istruzioni al D. per Milano e per la Spagna, nel terzo la relazione dell'ambasceria a Madrid), 2836; Ibid., Notarile, Celesia Giuseppe, sc. 1051, fz. 88; Bollino Giacomo, sc. 1056, fz. 33; Merello Silvestro Giuniore, sc. 1089, fz. 42, Lavaggi Gio. Francesco, sc. 1093, fz. 5; Borsoito Gio. Tommaso, sc. 1111, fz. 13; Ibid., S. Giorgio, Gabella censarte 826, c. 28v; Ibid., Senato 1116/2, 1116/3, Genova, Arch. stor. del Comune, Fondo Brignole Sale 105 D 7; Ibid., Bibl. civ. Berio, Sezione Conservazione, ms. VIII 2 30: A. M. Buonarroti, Alberi genealogici 388 s.; Relazioni di ambasciatori sabaudi genovesi e veneti durante il periodo della grande alleanza e della successione di Spagna (1693-1713), a cura di C. Morandi, Bologna 1935, pp. 134-148: ediz. parziale della relazione del D. sull'ambasceria in Spagna; l'edizione completa in Istruzioni e relaz. degli ambasciatori genovesi, V, Spagna (1681-1721), a cura di R. Ciasca, Roma 1957, pp. 206-250; F. Guasco, Diz. feudale degli antichi Stati sardi, III, Pinerolo 1911, pp. 1339 s.; M. Rosi, Un ricevimento regio al principio del Settecento (Filippo V a Genova), in Arch. stor. ital., s. 5, XVIII (1896), pp.316-343; P. L. Levati, I dogi di Genova dal 1699 al 1721e vita genovese negli stessi anni, Genova 1912, pp. 6 ss., 12 s.; S. Pugliese, Le prime strette dell'Austria in Italia, Milano-Roma 1932, pp. 145-230, V. Vitale, Diplomatici e consoli della Repubblica di Genova, in Atti della Soc. ligure di st. patria, LXIII (1934), pp. 63, 183; Relazioni di ambasciatori sabaudi genovesi e veneti..., cit., pp. XLIV s.; C. Morandi, La fine del dominio spagnolo in Lombardia e le premesse stor. delle riforme settecentesche, in Arch. stor. ital., XLIV (1936), pp. 181- 200, poi in Id., Scritti storici, Roma 1980, I, pp. 384-405 (particolarmente pp. 385 s.); V. Vitale, Un ricevimento regale, in Giorn. di Genova, 12 genn. 1938; Id., Breviario della storia di Genova, Genova 1955, p. 322; G. Guelfi Camajani, Il "Liber nobilitatis Genuensis" e il governo della Repubblica di Genova fino all'anno 1797, Firenze 1965, p. 328; M. Ciappina, A. G. Brignole Sale, in Diz. biogr. degli Italiani, XIV, Roma 1972, pp. 282 s.; G. Giacchero, Il Seicento e le Compere di S. Giorgio, Genova 1979, p. 571; G. Nuti, I Centurione, in Diz. biogr. degli Ital., XXIII, Roma 1979, pp. 627 ss.; E. Papagna, Nuove ricerche sulle scelte politico-economiche della Repubblica di Genova alla fine del Seicento, in Genova, la Liguria e l'Oltremare tra Medioevo ed età moderna, III (1979), pp. 283-285; G. Giacchero, Economia e società del Settecento genovese, Genova 1981, p. 81.