TURINI BUFALINI, Francesca
TURINI BUFALINI, Francesca. – Nacque a Borgo Sansepolcro nel 1553 da Giovanni, colonnello al servizio di Francesco I e di Enrico II di Francia, e da Camilla dei conti di Carpegna, sposata in seconde nozze.
A seguito della morte dei genitori, trascorse infanzia e adolescenza a Gattara lungo il Marecchia, sotto la tutela e le cure dello zio materno, Pietro: l’Alta Valle del Tevere fu evocata a più riprese nella sua lirica, così come gli anni della giovinezza campestre, insolita per una fanciulla dell’aristocrazia.
Nel 1574, ventunenne, andò in sposa a Giulio I Bufalini di San Giustino, di quasi cinquant’anni più grande di lei. Quella dei Bufalini rappresentava una delle più influenti famiglie altotiberine, ben inserita nel tessuto delle relazioni diplomatiche con altre casate signorili e con lo Stato pontificio. A Giulio I era stato assegnato da papa Pio IV, con il motuproprio datato 1° settembre 1563, il titolo di conte, contestualmente alla trasformazione del feudo di San Giustino in contea. Suo fratello minore, Ventura, fu commendatario del monastero di Petroia e vescovo di Massa e, alla sua morte (1570), Giulio I ricevette in eredità larghi possedimenti e preziosi beni immobili tra Roma, San Giustino e Città di Castello. Quello con Francesca Turini fu, per Giulio I, il terzo matrimonio.
I due figli maschi, Ottavio I e Pier Simone, nati dalle nozze con Giovanna Bourbon del Monte Santa Maria erano morti prematuramente, ma egli aveva cinque figlie femmine (di cui quattro, Cecilia, Vincenza, Virginia e Olimpia, nate dalle prime nozze, e Lucrezia dal secondo matrimonio con Elisabetta di Monte Vecchio) e un figlio maschio, Giulio Cesare, avuto da Ortensia di Lama e poi legittimato.
Ebbero tre figli: Giulio II, nato nel 1576, Camilla, nata nel 1579, e Ottavio II, nato nel 1583, lo stesso anno della morte del padre.
La vita di Francesca Turini, nei nove anni di matrimonio, si svolse prevalentemente nel castello di San Giustino, spesso in solitudine, a causa dei frequenti soggiorni romani del marito, e segnata da una certa ostilità da parte delle cinque figlie di lui, già adulte. Le carte dell’Archivio del castello di San Giustino rendono evidente come il ruolo di Francesca nell’amministrazione della tenuta e degli affari del marito fosse di grande responsabilità. Per queste ragioni non stupisce che nel testamento, redatto tre anni prima della morte, Giulio la nominasse unica esecutrice di tutti i beni di famiglia e custode dei tre figli. La morte del marito, che sarà uno dei nuclei più vivi della sua poesia, rappresentò per Francesca l’avvio di una stagione contrassegnata da serie difficoltà pratiche, nella difesa del casato e nella cura dei figli, anche a causa dei frequenti conflitti che sorsero tra di loro. Lo status vedovile, che Francesca conservò fedelmente, non le impedì di intessere importanti relazioni di amicizia con alcuni personaggi della cultura letteraria tifernate e italiana. Tra gli altri, si possono annoverare, oltre a Battista Guarini e Giovan Battista Marino, gli appartenenti all’Accademia perugina degli Insensati e, nel contesto di Città di Castello, l’avvocato e poeta Capoleone Guelfucci e il commediografo Giovan Battista Marzi. Fu grazie allo sprone e al sostegno del primo che Francesca decise di dare alle stampe a Roma, nel 1595, per i tipi di Domenico Gigliotti, le sue Rime spirituali sopra i misteri del santissimo rosario.
Dedicate a papa Clemente VIII Aldobrandini, le Rime spirituali risentono molto del rinnovato fervore religioso che connota tanta parte della poesia di secondo Cinquecento, e che coltiva ampiamente la devozione del rosario. La struttura del volume è articolata in tre sezioni (composte da 50, 30 e 40 sonetti), consacrate rispettivamente ai primi ‘misteri’ del rosario (Gaudioso, Doloroso e Glorioso). Ciascun misterio è aperto da un madrigale dedicato a Clemente VIII e l’architettura interna dell’opera segna un iter tripartito: la prima parte è tematizzata attorno alla figura di Maria, la seconda è costruita sulla scorta della narrazione evangelica della passione di Cristo e la terza è dedicata al trionfo della Resurrezione. A segnare programmaticamente l’intenzione di inserirsi in una linea di poesia spirituale femminile concorrono il riferimento alla «tessitura donnesca» (Rime spirituali..., a cura di P. Bà, 2005, sonetto 16, v. 14) della propria scrittura e anche il ricorso ad alcuni moduli provenienti dall’opera di Vittoria Colonna, come la ripresa del concetto di poesia quale dono divino. Inoltre, nei ventidue componimenti che costituiscono la quarta sezione, intitolata Sonetti in morte del marito, si avverte chiaramente il riverbero della riflessività vedovile di Colonna, sfumato in una altrettanto evidente intonazione autobiografica.
I rapporti di Turini con l’ambiente romano divennero più assidui e profondi dopo il 1613, quando decise di trasferirsi nella capitale, anche in conseguenza dei conflitti con i due figli maschi che insistevano per acquisire il diritto di amministrare il patrimonio paterno. A Roma frequentò le famiglie degli Orsini e degli Aldobrandini, e fu anche precettrice di Anna e Vittoria Colonna, figlie di Filippo I e Lucrezia Tomacelli, nonché pronipoti della celebre poetessa. Quelli romani furono anni di silenzio poetico, eppure fondamentali, tanto da lasciare traccia evidente nella lirica successiva, fino a quando, nel 1622, la morte di Lucrezia non segnò la fine della parentesi capitolina e il rientro a Città di Castello. L’uccisione del figlio Ottavio, colpito per errore da un colpo di archibugio il 10 agosto 1623, fu l’ennesimo lutto che scosse vita e produzione poetica di Francesca.
Della raccolta delle sue Rime esiste una prima stampa, molto rara, datata 1° gennaio 1627, mentre la seconda uscì a Città di Castello nel 1628, edita da Santi Molinelli. Entrambe le edizioni presentano la dedicatoria ad Anna Colonna (nel frattempo divenuta moglie di uno dei nipoti di Urbano VIII, Taddeo Barberini), che conferma la precisa intenzione, da parte della poetessa, di rinsaldare i legami con queste potenti famiglie romane.
L’edizione del 1628 consta di 328 componimenti, di cui 262 sonetti (tra i quali una corona di 72 che lascia trapelare un chiaro intento encomiastico verso la famiglia Colonna), 65 madrigali (quasi tutti di tematica religiosa) e un poemetto in 26 ottave, anch’esso devozionale, dedicato alla Santa Maria Maddalena al Sepolcro. All’interno delle Rime, la matrice poetica più evidente, in termini di lessico, di metrica e di impianto, è quella petrarchistica, ma, accanto a essa, risuonano anche gli echi e i motivi della lirica di Vittoria Colonna e alcuni costrutti che richiamano Giovanni Della Casa e Torquato Tasso. A livello tematico, accanto alla materia spirituale, è forte la presenza di elementi autobiografici: riferimenti alla giovinezza, alle glorie militari del padre, alla devozione materna, agli anni difficili in cui ella stessa fu chiamata ad amministrare i beni familiari, alla tragica sequenza dei lutti. In particolare, le rime attorno alla morte del marito costituiscono una sorta di corpus a sé stante, contraddistinto dalle tonalità più aspre e struggenti dell’intera raccolta. Altrove l’elemento memoriale appare invece declinato in moduli arcadici e pastorali, nella restituzione di un passato immerso nella natura, il «libero Catai» (Rime, a cura di P. Bà, 2010, sonetto 108, v. 12) degli Appennini della giovinezza. Sono proprio queste le liriche che qualche antologia moderna seleziona e riporta, attestando la presenza della poetessa, altrimenti poco considerata, nella cultura letteraria del suo tempo.
Dedicò gli ultimi anni della sua vita alle cure del nipote Giovan Battista e alla composizione del Florio, romanzo in ottava rima (in 39 canti) che intesse elementi mitici con elementi spirituali e richiama da vicino le atmosfere e l’intreccio del Filocolo di Giovanni Boccaccio, malgrado non sia da escludere che la poetessa si sia rifatta al poemetto Floire et Blanchefleur, fonte primaria della leggenda. L’elaborazione del Florio fu molto lunga: l’avvio avvenne negli stessi anni delle Rime spirituali, e il poema fu concluso soltanto nel 1640, a pochi mesi dalla morte che le impedì comunque di darlo alle stampe.
Morì il 25 aprile 1641 a Città di Castello.
Opere. Rime spirituali sopra i misteri del santissimo rosario, Roma 1595 (ed. a cura di P. Bà, in Letteratura italiana antica, VI (2005), pp. 147- 223); Rime, Città di Castello 1628 (ed. a cura di P. Bà, in Letteratura italiana antica, XI (2010), pp. 141-276); Il Florio, ed. a cura di P. Bà, in Letteratura italiana antica, XIV (2013), pp. 31-600; I Madrigali, ed. a cura di P. Bà, in Letteratura italiana antica, XVII (2016), pp. 17-97.
Fonti e Bibl.: E. Mercati - L. Giangamboni, L’archivio e la biblioteca della famiglia Bufalini di San Giustino, Città di Castello 2001; P. Bà, F. T. sposa Giulio I Bufalini, in Pagine altotiberine, V (2001), pp. 113-130; Id., Il mondo di F. T. B. e le sue “Rime Spirituali”, in Letteratura italiana antica, VIII (2007), pp. 485-494; N. Costa-Zalessow, F. T. B., in Dictionary of literary biography, 2008, n. 339, pp. 271-276; V. Cox, Women’s writing in Italy 1400-1650, Baltimore 2008, pp. 151 s., 212 s., 240, 242; A. Lanza, L’ispirazione sacra ed elegiaca della poesia di F. T. B., in Spigolature di letteratura italiana antica, Roma 2010, pp. 539-550; Atti della Giornata di studio su F. T. B., in Letteratura italiana antica, XVI (2015), pp. 579-616; F. T. B. e la letteratura di genere, a cura di J. Butcher, Città di Castello 2018.