SARPI, Fra Paolo
Servita e consultore della repubblica di Venezia.
Nacque in Venezia il 14 agosto 1552 da Francesco e Lisabetta Morelli ed ebbe al fonte battesimale il nome di Pietro che mutò poi in quello di Paolo quando, a 13 anni, vestì l'abito dell'ordine dei Servi, anche per influenza del servita G. M. Capella, che gli diede la prima educazione.
D'ingegno vivissimo e di cultura eccezionalmente estesa, filosofica, matematica, teologica, a 15 anni già discuteva tesi sulla potestà del concilio e del papa e a 20 era creato dal duca Guglielmo Gonzaga teologo di corte e professore di teologia positiva. Dal 1572 al 1576 attese assiduamente a studî di storia ecclesiastica e diritto canonico e nel 1578 conseguì il dottorato in teologia nell'università di Padova.
Gracile e malaticcio, egli aveva nondimeno un'indomita resistenza allo studio. Un'inestinguibile sete di sapere, un interesse vivo e largo così per il mondo della natura come per quello degli uomini, un profondo senso della dignità individuale costituivano le forze che lo sostenevano nella sua quotidiana fatica e che dovevano sviluppare dal fanciullo prodigio dei primi anni, gonfio di una cultura enciclopedica e superficiale, lo scienziato acuto della scuola galileiana, il pensatore e il polemista della lotta contro la Curia Romana, lo storico e lo scrittore tutto nerbo e muscolo della storia del concilio tridentino.
Con la laurea dottorale vennero anche i primi riconoscimenti. Nel 1579 fu eletto provinciale; nel 1582 e nel 1585 fu inviato a Roma come procuratore per trattare affari del suo ordine. Strinse in Italia e fuori amicizie con i più eminenti personaggi del suo tempo, e con molti di essi mantenne relazioni ampiamente testimoniate dal suo prezioso epistolario. Sisto V, il cardinal Castagna, poi Urbano VII, il Bellarmino, il cardinale Borromeo, il cardinale d'Ascoli, ne ebbero stima; Galileo, l'Acquapendente, il Della Porta lo apprezzarono come matematico e scienziato di vastissime cognizioni. Non godé però molte simpatie negli ambienti ufficiali della Curia. Per due volte ripeté invano il tentativo di ottenere prima il vescovato di Caorle, poi quello di Nona, entrambi poverissimi, spinto più che da ambizione, da certo spirito d'indipendenza e dal desiderio di una comoda sinecura per poter attendere senza preoccupazioni ai suoi studî prediletti. Ma si oppose il nunzio pontificio presso la Serenissima, l'Offredi, che nella libertà spirituale e nella spregiudicatezza del S., nel suo antiscolasticismo, nelle sue relazioni con persone dai più diversi atteggiamenti spirituali, fiutava già un certo sentore d'eresia. Anzi delle accuse esplicite furono portate contro di lui: che non recitasse il Salve Regina e che portasse pianelle proibite dalla regola e ci volle, nel 1605, un giudizio del vicario generale per riconoscere l'ortodossia delle sue pianelle! Piccole avvisaglie di più grossi contrasti.
La lotta, che scoppiò violentissima tra Venezia e la Curia Romana nel 1606 e portò all'interdetto che Paolo V scagliò contro la repubblica (v. Paolo v; venezia: Storia), fu di grandissima importanza per il pieno rivelarsi e l'ulteriore sviluppo del pensiero e deglì atteggiamenti spirituali di fra Paolo. Egli stesso ebbe a dire che se non ci fosse stata la lotta tra Roma e Venezia, probabilmente non avrebbe scritto nulla delle molte opere che invece produsse in quel turbinoso periodo.
I suoi interessi spirituali si erano del resto andati spostando da tempo dall'intellettualismo teologico e matematico e dalle ricerche naturali dei primi anni verso le più profonde e complesse esperienze dell'indagine storica specialmente indirizzata a determinare, sui dati di una tradizione secolare di lotte con la Chiesa, i caratteri e le funzioni che la nuova coscienza politica chiaritasi nel Rinascimento con Machiavelli, assegnava allo stato. Poiché anche nello spirito del S. è predominante l'interesse politico, ed anche a lui come a Machiavelli conviene sopra ogni cosa "ragionare e pensare dello stato".
Sennonché quell'ideale che per il Machiavelli prendeva corpo solo nella visione gloriosa, ma lontana, di Roma o nelle aspirazioni supreme della sua fede disperata che si proiettava fremente nell'avvenire, per il S. s'incarnava specialmente nella tradizione politica ormai secolare della sua Venezia, e nel fervore del suo amore civico acquistava quei caratterî di concretezza e di viva aderenza alla realtà, che spiegano in parte anche le principali incoerenze teoriche della sua dottrina.
Già prima che si delineasse il dissidio tra Roma e Venezia, egli si era dato infatti a studiare le relazioni tra gli stati e la Chiesa, rivelando cosi, anche nei suoi orientamenti di studioso, gli atteggiamenti politici del frequentatore assiduo del cosiddetto "ridotto Mauroceno", il ritrovo del nuovo partito, che, specialmente sotto l'influenza dello storico Andrea Morosini, legato al S. da intima amicizia, propugnava la necessità di una politica di maggiore intransigenza di fronte a tutte le forze che tendevano a limitare la potenza della repubblica.
Scoppiato il dissidio tra Roma e Venezia, fra Paolo si gettò nella mischia senza esitazioni. Nominato teologo consultore dello stato, con lo stipendio di 200 ducati l'anno, egli sostenne con i suoi consigli l'azione del senato veneto, ne influenzò spesso le decisioni, rappresentò sempre il partito più estremo nel difendere le ragioni della repubblica. Infaticabile, mise la sua grande dottrina di canonista e di storico al servizio della sua patria. Ammesso a consultare anche gli atti più segreti della repubblica, difese le ragioni venete in una numerosa serie di Consulte, nelle quali la dialettica del giurista più consumato è unita alla profonda conoscenza della storia ecclesiastica e alla più ampia e sicura cognizione di tutti i precedenti dell'azione politica veneta. E quando si scatenò quella guerra di scritture, che inondò tutta Europa di trattati, di opuscoli, di libelli in favore dell'uno o dell'altro dei contendenti, il S. fu tra quelli che presero parte più viva alla grande polemica. Anzi ne diede l'inizio ristampando, con una lettera introduttiva, il Trattato sulla validità della scomunica di Gerson, e scrisse poi con Simone Sardi i Due discorsi sopra la libertà ecclesiastica, e, sempre nel fervore della disputa, compose La storia particolare dell'interdetto, che costituisce una delle fonti più importanti per il turbinoso periodo della lotta fra Roma e Venezia, e la Dhfesa delle otto proposizioni del Marsili, contro gli attacchi del Bellarmino. E in numerosi altri opuscoli precisò, contro le idee propugnate dagli scrittori curiali, i capisaldi della sua dottrina sul foro ecclesiastico, sui benefici, sull'Indice, sul diritto d'asilo, sulla coercibilità degli eretici.
Del suo pensiero politico nucleo e centro ideale è l'idea dello stato la cui "sopranità e maestà" può sussistere solo in quanto "non sii limitata e soggetta a leggi d'altrui"; tuttavia per il S. lo stato non è del tutto senza limiti: la religione non è puro instrumentum regni. Egli rimane rigidamente aderente al principio della confessionalità dello stato. In lui preoccupazioni etico-religiose, pur non sempre conformi all'ortodossia cattolica, e un vivo senso della realtà storica, ponevano di fronte allo stato, suprema entità autonoma, la Chiesa, anch'essa con le sue profonde esigenze di autonomia. con i suoi programmi e la sua azione universali, con i suoi fini speciali ed esclusivi. Le relazioni tra Stato e Chiesa sono cosi dal S. adombrate sotto il famoso esempio del capitano e del nocchiero: entrambi al servizio dello stesso re, indipendenti l'uno dall'altro e nello stesso tempo uniti nella comune sudditanza e per i fini comuni della loro azione, non possono comandare mai contemporaneamente; e durante la navigazione comanderà esclusivamente l'uno, e per quello che sarà l'impiego delle truppe trasportate a bordo comanderà solo l'altro. La Chiesa perciò deve disporre soltanto dello spirituale, non deve invadere le prerogative dello stato, e poiché tale invadenza è avvenuta per il tralignare della Chiesa, causato da interessi puramente mondani e temporali, anche l'ideale della riforma della Chiesa assume per il S. un carattere particolarmente politico. Riforma morale sì, ma essenzialmente riforma della costituzione della Chiesa. Il problema ecclesiologico, sentito più che sotto l'aspetto puramente teologico, sotto la specie delle relazioni tra i fedeli e le gerarchie, diviene fondamentale per il S., come già nell'età conciliare e per il Savonarola, e come per la Riforma.
La Chiesa militante è costituita per il S. da laici ed ecclesiastici e a tutti indistintamente compete il diritto d'intervenire nelle discussioni di cose di fede. "La podestà del Sommo Pontefice di comandare ai cristiani non è illimitata... ma è ristretta al fine della pubblica autorità della Chiesa e ha per regola la legge divina". Quando il comando del papa sia contrario ad essa, il cristiano ha il dovere di disubbidire. "Il nuovo nome d'obbedienza cieca, inventato da Ignazio Loyola, fu incognito alla Chiesa e a ogni buon teologo, e leva per anche l'essenziale della virtù che è operare per certa cognizione ed elezione, espone al pericolo d'offendere Dio e non scusa l'ingannato dal principe spirituale". Espressione legittima della Chiesa e della sua libertas è quindi solo il concilio e ad esso ci si può appellare contro il pontefice che tra gli altri vescovi ha un'autorità di pura opportunità, per il governo della Chiesa.
La Chiesa non è quindi concepita né teocraticamente, né come una setta o società particolare in seno allo stato, ma come una grande società istituita da Dio per fini puramente spirituali e retta con un'organizzazione democratica. Su essa tutti hanno diritto di vegliare perché non si allontani dalla legge divina: gli stati, per concessione dei quali gli ecclesiastici godono dei benefici, come stipendî per le speciali cure di culto alle quali attendono, e i laici che nel foro della loro coscienza individuale devono conformarsi ai dettami della Chiesa, nei limiti della legge divina e dei canoni sanciti dai concilî. Chi però credesse che da queste premesse scaturisse per il S. il principio della libertà di coscienza s'ingannerebbe. Il potere assoluto che nega al pontefice, egli lo trasferisce nel principe che ha il diritto di limitare secondo gl'interessi dello stato tutte le attività della Chiesa (Indice, facoltà dei nunzî, Inquisizione, foro ecclesiastico, diritto d'asilo, erezione di chiese e monasteri, vendite e acquisto di beni immobili da parte di ecclesiastici) e come tutore degl'interessi della religione si arroga diritti che possono seriamente danneggiare quella libertas che il S. lamentava distrutta dal prepotere delle gerarchie ecclesiastiche. Nel S. si assiste, cosi, attraverso il più rigido giurisdizionalismo, al trapasso dall'ideale teocratico a quello dell'assolutismo statale.
Questa sua intransigenza nel difendere i diritti dello stato egli mostrò specialmente quando tra la repubblica e la curia si manifestarono i primi segni sicuri di una riconciliazione. Il S. fu dei più tenaci nel porre in guardia il senato contro le arti della diplomazia pontificia e nell'opporsi a ogni compromesso che potesse intaccare sia pure minimamente il prestigio e la dignità di Venezia; e seguitò a combattere anche nei primi tempestosi rapporti tra Roma e Venezia quando ambedue le potenze si sforzavano di dimostrare di essere uscite vittoriose dalla lotta, durante l'aspra polemica circa l'assoluzione dalla scomunica, che la Chiesa asseriva aver impartito al senato veneto e Venezia negava d'aver mai richiesto o accettato.
A Roma, naturalmente, l'attività dei teologi stipendiati da Venezia, e in particolare quella del S., era considerata come sommamente incresciosa. Citato con decreto del S. Uffizio del 30 ottobre 1606 a comparire personalmente a Roma entro 24 giorni per scolparsi di varie accuse di eresia, egli non aveva obbedito, pur dichiarandosi pronto a subire un giudizio, ma in luogo sicuro e da giudici non sospetti. Era incorso così nella scomunica della quale non tenne mai conto, seguitando a celebrare e non discostandosi in nulla, almeno formalmente, dalla prassi cattolica. E poiché il suo prestigio morale era sempre grandissimo, sia in Venezia sia fuori, tanto per la vastità e la profondità della sua dottrina quanto per l'integrità della sua vita, si andò ventilando nei circoli curialistici più accesi, forse non senza qualche tacita connivenza perfino di persona rivestita d'autorità, di rapirlo per darlo, a Roma, in potere del S. Uffizio, o di toglierlo di mezzo con la violenza. Si giunse così all'attentato del 5 ottobre 1607 dal quale il S. riuscì salvo per un miracolo, sebbene mortalmente ferito, e che giovò poco alla curia, molto a rinforzare l'autorità del Sarpi.
Fu in questo periodo che il S., che già aveva avuto rapporti frequenti e cordiali con l'ambasciatore inglese Wotton e col suo cappellano, il Bedell, strinse innegabili intese con personaggi autorevoli del mondo protestante ai fini della rivolta di Venezia contro Roma. Le sue lettere al Du Plessis Mornay il cosiddetto "papa ugonotto" -, i suoi rapporti con Cristoforo e Acanzio di Dohna, con Isacco Casaubon, con l'Heinsius, sono a questo proposito quanto mai compromettenti. Anzi è certo che nel 1608 il Diodati, il calvinista traduttore della Bibbia, venne a Venezia ed entrò in diretta relazione col S., e nell'agosto dello stesso anno fra Paolo fu visitato anche da Cristoforo di Dohna, inviato da Cristiano di Anhalt, capo dell'unione evangelica, per trattare di una eventuale introduzione della Riforma in Venezia.
Ma se il S. non lesinava i suoi sarcasmi contro i gesuiti e contro le alte gerarchie della Chiesa e non cessava dall'invocare la restaurazione della libertà della Chiesa contro l'assolutismo della "meretrice" di Roma, era ben lomano dall'aderire - come dimostrò con evidenza, anche per confessione del Dohna, il prudente riserbo che egli mantenne nei colloquî dell'agosto 1608 - alla dottrina dei riformati. Sia perché alieno da preoccupazioni di carattere puramente teologico, sia perché egli tendesse ormai verso atteggiamenti etico-religiosi che lo portavano a superare le posizioni dogmatiche dell'una come dell'altra confessione, è certo che egli cercò nell'alleanza con i protestanti un aiuto di carattere essenzialmente politico, per abbattere l'assolutismo papale e per restaurare quella libertas Ecclesiae che appariva nel suo pensiero come la chiave di vòlta sulla quale doveva poggiare qualsiasi ulteriore sviluppo dello spirito cristiano nel mondo. E poiché per riuscire nell'intento occorreva colpire la curia in quel potere politico di cui indebitamente si era appropriata, egli seguiva con appassionato interesse, acuito dal suo innato gusto per il giuoco della diplomazia, il vario atteggiarsi della lotta politica e religiosa in Europa, lasciandoci nelle sue lettere scorci e sguardi d' insieme sulle condizioni del tempo che non hanno nulla da invidiare, per acume e finezza, alle relazioni dei più celebrati ambasciatori veneziani.
Il suo spirito si veniva così orientando verso quegli atteggiamenti dai quali trarrà origine l'opera sua maggiore, quella Istoria del Concilio di Trento, intorno alla quale egli lavorò indefessamente per lunghi anni, dal 1610-12 al 1618.
In essa la sua veemente passione di parte veniva a coincidere con gli interessi delle sue innate attitudini di storico. Egli fu il primo a intuire l'enorme importanza che ebbe il concilio di Trento per l'ulteriore sviluppo del cattolicesimo e, se anche il suo giudizio fu negativo rispetto alla valutazione di quell'avvenimento, rimane suo merito incontestabile l'aver fissato nel concilio di Trento una delle pietre miliari della storia della Chiesa. In esso egli vedeva il pieno trionfo di quell'assolutismo papale che, in atto sin dai tempi dell'alto Medioevo, era riuscito a distruggere completamente quello che ancora rimaneva dell'antica libertà della Chiesa. Farne la storia voleva dunque dire, per il S., provarne la illegalità, voleva dire ricostruire, nei minimi e concreti particolari, per quali vie non sempre diritte e per quali interessi non sempre religiosi si era venuti alle conclusioni di quel concilio. Tendenzioso nella valutazione complessiva dell'opera del concilio, egli si apprestò tuttavia a ricostruire le vicende con cure coscienziose, attingendo a fonti preziose quali le relazioni di Camillo Oliva, segretario del cardinale di Mantova, presidente del concilio sotto Pio IV; il giornale del Chieregati, nunzio di Adriano VI; gli atti della legazione del Contarini a Ratisbona; le lettere del cardinale Del Monte, presidente del concilio sotto Paolo III; le lettere del Visconti, agente di Pio IV a Trento; le memorie del cardinale Amulio; i dispacci degli ambasciatori veneti o francesi; gli storici che ne avevano parlato come lo Sleidano, il Guicciardini, l'Adriani, il Giovio. Certamente egli poté incorrere in qualche errore di fatto, ma ciò non avvenne perché la ricerca della verità non fosse in lui veramente sincera, ma per cause comuni di errore. Ché anzi le sue informazioni sono in genere attendibili e vagliate con acume e discernimento, le figure dei maggiori personaggi del concilio dipinte con rara efficacia e verità, con i loro varî interessi, virtù, vanità, ambizioni, debolezze; le discussioni, anche di carattere teologico, riassunte ed esposte con limpida perspicuità, sicché il motivo polemico ispiratore dell'opera che, dal punto di vista storico, le conferisce un'organicità e nitidezza di contorni mirabile, non risulta mai, né da aperte dichiarazioni, né da tirate contro questo o contro quello, né da alterazione di dati - ché anzi tutto vi è misurato ed espresso in una forma quale si conviene ad un'alta opera di pensiero -, ma scaturisce specialmente da quel riportare su un piano puramente umano e materiato d'interessi terreni quel grande fatto che gli scrittori di parte curiale volevano circondato della maestà di un'assemblea che aveva deliberato sotto la diretta ispirazione divina. E nel far ciò egli compiva opera di profonda concretezza storica. Dopo la Storia del Concilio di Trento il S. non produsse null'altro di notevole.
Messo un po' in disparte dal senato che indulgeva ormai, col nuovo doge Memmo, a sentimenti di minore intransigenza verso Roma, egli seguitò tuttavia a lavorare e a studiare finché la morte lo spense a 71 anni, in pieno fervore di lavoro.
Figura complessa di pensatore, il S. riecheggia in sé le più diverse correnti del Rinascimento, dalla dottrina ecclesiologica conciliare al pensiero politico di Machiavelli, dal naturalismo di Galileo alla nuova gnoseologia campanelliana, e se egli non si affermò nelle forme originali di quei grandi, in ogni campo della cultura del suo tempo lasciò le tracce di un ingegno potente e costruttivo. Così scoperse per primo la dilatabilità della pupilla sotto l'azione della luce e le valvole delle vene, affermò le esigenze supreme della ragione in un empirismo critico pieno di misura e lontano da ogni esagerazione razionalistica, riconobbe che il sentire è essenzialmente una modificazione del soggetto, fu scrittore tra i più grandi del secolo e riflesse il suo pensiero, profondo e pur limpido e animato da un'intima passione, in una forma sobria, viva, vigorosa, efficacissima. Ma il suo maggior titolo di gloria è la sua personalità, in cui le contrastanti correnti donde traeva vita, si armonizzavano in una coscienza umana altissima, venata di quello stoicismo morale che darà vigore alle grandi figure del calvinismo e del giansenismo, avvivata da una profonda fede nell'avvento di una più alta cultura e quindi di una più alta civiltà. Egli si rivela in pieno profeta dello spirito moderno quando, di fronte alla condanna di Galileo, scrisse: "Verrà il giorno, e ne sono quasi certo, che gli uomini, da studî resi migliori, deploreranno la disgrazia di Galileo e l'ingiustizia usata a sì grande uomo".
La prima raccolta delle Opere del S. è di Venezia (1677); seguirono poi quelle di Genova (1687), di Venezia (1718), Helmstadt (veramente Verona: 1750,1761-63); Venezia (1683-87), Napoli (1789-90, in 24 volumi). La Istoria del Concilio di Trento fu stampata per la prima volta, contro la volontà del S., a Londra nel 1619 sotto lo pseudonimo anagrammatico di Pietro Soave Polano (Paolo Sarpi Veneto), da M. A. De Dominis. Numerosissime poi le altre edizioni e le traduzioni. Le edizioni più recenti sono quelle di Firenze (1858) e di Bari (1935, a cura di G. Gambarini). Per le edizioni delle opere minori, v. bibliografia in Scritti filosofici inediti a cura di G. Papini (Lanciano s. a.). Per le lettere la raccolta più completa è ancora quella del Polidori (Firenze 1863, voll. 2). Importanti le Lettere di fra P. S. ai protestanti, edite dal Busnelli (Bari 1931).
Bibl.: Su P. S., la cui figura è stata riesumata verso la metà del secolo XIX solo ai fini della polemica anticlericale, manca ancora un'opera definitiva. Oltre alla Vita di frate Paolo, del suo discepolo fra Fulgenzio Micanzio (Leida 1646) e ristampata in tutte le edizioni delle opere di P. S., v. A. G. Campbell, Fra P. S., Londra 1869 (trad. Firenze 1875); G. Capasso, Fra P. S., in Rivista europea, 1879-80; B. Cecchetti, Le consulte di fra P. S., in Ateneo veneto, 1887; G. Cornet, Paolo V e la Repubblica veneta, Vienna 1859; M. Foscarini, Della letteratura veneziana, Padova 1752; F. Scaduto, Stato e Chiesa secondo fra P. S. e la opinione pubblica durante l'interdetto di Venezia del 1606-07, Firenze 1885; C. A. Jemolo, Chiesa e Stato negli scrittori politici italiani del 600 e del 700, Torino 1914; Emery, in Nuova riv. storica, 1924; il volume edito nel 1923 dall'Ateneo veneto per commemorare il III centenario della morte del S., contenente scritti del Manfredoni, De Toni, Troilo, Brunetti; A. Luzio, Fra P. S., in Rivista storica italiana, 1928. V. Anche L. Pastor, Storia dei papi, Roma 1930, XII, dove è citata la bibliogr. di tendenza cattolica.