fonemi
Suoni emessi dall’apparato fonatorio che costituiscono l’elemento di contrasto, la minima unità differenziante e indivisibile di un sistema linguistico. Per individuare i f. di una data lingua si usa il criterio della ricerca di coppie minime, coppie di parole in cui un solo f. differente è sufficiente a individuare significati diversi. Per es., in italiano i foni (classe di suoni simili per modalità di articolazione e che condividono un’onda sonora ben definita) /p/ e /b/ sono f., perché è possibile trovare almeno una coppia minima (per es., pelle – i). Si definiscono invece allofoni (o varianti di un f.) due tipi fonici che in una determinata lingua non hanno carattere distintivo. Per es., la enne ([ŋ]) in valanga è foneticamente differente dalla /n/ di pane, ma anche se pane venisse pronunciato con la [ŋ] non diventerebbe una parola diversa. Non essendo quindi presenti in italiano coppie di parole che cambiano significato se /n/ viene sostituito da [ŋ], quest’ultimo viene considerata allofono di /n/.
La produzione di foni è funzione dell’apparato fonatorio (➔ fonazione). Essi sono distinti sulla base del modo e del luogo di articolazione. Per modo si intende il tipo e il grado di costrizione che gli organi articolatori raggiungono per la produzione di un dato suono (per es., occlusivo, costrizione massima, come per /t/ e /p/; fricativo, costrizione media, come per /f/; nasale, con abbassamento del velo palatino e passaggio dell’aria nelle cavità nasali, come per /n/). Per luogo si intende il punto o zona del cavo orale in cui si ha la massima costrizione (per es., bilabiale, avvicinamento delle labbra, come per /p/ e /b/; dentale (o alveolare), avvicinamento della punta della lingua ai denti superiori, come /t/ e /d/). I foni vocalici vengono generati senza punti di costrizione e coinvolgono tutti la vibrazione delle corde vocali; hanno quindi onde sonore caratterizzate da componenti armoniche e dalla presenza di zone di risonanza ben definite, date dall’apparato risuonatore; le zone di risonanza sono individuate dalle frequenze formanti. I foni consonantici possono avere onde sonore con componenti armoniche e zone di risonanza (consonanti sonore, come /b/ e /d/) o essere di tipo rumore (consonanti sorde, come /p/ e /t/). Unità foneticamente diverse possono appartenere a categorie fonemiche diverse in una lingua ma non in un’altra. Per es. /r/ e /l/ appartengono a categorie fonemiche diverse in italiano o in inglese (come in pelo-pero, rake-lake), ma non in giapponese; in quest’ultima lingua, /r/ e /l/ sono combinate in un’unica categoria fonemica. Il numero totale di f. può variare tra lingue diverse; in media una lingua ha circa 40 f., ma si può arrivare a superare i 100 in alcune lingue. L’italiano ha 30 f., 7 vocali e 23 consonanti, ma ha anche molti allofoni.
I diversi f. vengono discriminati sulla base di diversi parametri acustici, quali le caratteristiche temporali e di frequenza del suono, e le differenze fra questi parametri possono essere molto sottili, come accade per consonanti che condividono il sito di articolazione, tipo le due occlusive labiali /p/ e /b/, l’una sorda e l’altra sonora. Per le consonanti si parla di percezione categorica, con la quale si intende la tendenza degli ascoltatori di una determinata madrelingua a classificare i suoni usati nel loro linguaggio come appartenenti a una categoria fonetica o un’altra, stabilendo un confine netto fra due categorie che esclude la sensibilità per suoni intermedi. Per es., a un gruppo di ascoltatori viene chiesto di identificare ogni suono di una serie presentata attraverso un computer. Nella serie viene fatto progressivamente variare un parametro acustico in 13 piccoli scalini, fisicamente uguali, passando in questo modo da una unità fonetica a un’altra (per es., da ra a la). Un ascoltatore americano, per cui /r/ e /l/ sono f. distinti, non percepisce 13 suoni diversi ma percepisce una serie di ra e poi, bruscamente, passa a percepire una serie di la. Viceversa, un ascoltatore giapponese, per cui /r/ e /l/ sono combinate in un’unica categoria fonemica, non udrà alcuna differenza fra i 13 stimoli, che verranno tutti identificati con lo stesso suono, la /r/ giapponese.
Da ascoltatore universale ad ascoltatore nativo. Alla nascita i bambini hanno già la capacità di discriminare tra categorie fonetiche diverse e sono in grado di farlo per i contrasti fonetici usati in tutte le lingue. Per es., un bambino giapponese all’inizio sa discriminare la r dalla l. Durante questa fase, per dirla con le parole di Janet Werker, il bambino è un «ascoltatore universale». La capacità di discriminare e categorizzare i f. è presente anche in specie animali che non possiedono il linguaggio, quali il cincillà e la scimmia. Inoltre, i bambini discriminano con uguale abilità sia i f. sia stimoli acustici non linguistici di uguale complessità. Secondo Patricia Kuhl, la corrispondenza tra la percezione uditiva di base e i confini acustici che separano le categorie fonetiche nei linguaggi umani non è casuale: potrebbero essere proprio le capacità percettive uditive generali ad aver fornito quelle ‘separazioni di base’ (basic cuts) che hanno influenzato la scelta di suoni per il repertorio fonetico delle lingue del mondo, privilegiando quelli per cui era presente una maggiore sensibilità. La capacità di essere ascoltatore universale è alterata dall’esperienza linguistica: le abilità fonetiche nella lingua nativa aumentano progressivamente (a 6 mesi c’è la formazione dei ‘prototipi’ per le vocali e a 11 mesi per le consonanti), mentre la capacità di discriminare contrasti fonetici non rilevanti per la propria lingua declina. Il bambino diventa così un ‘ascoltatore nativo’. L’apprendimento a produrre suoni linguistici si basa quindi sulla capacità di discriminarli. In base all’apprendimento, il bambino si esercita a riprodurre un f., apprendendo così quei gesti articolatori e quei programmi motori specifici che gli consentiranno di articolare rapidamente e senza sforzo tutti i f. della propria lingua.