FESTO, Flavio (Flavius Rufus Postumius Festus)
Probabilmente figlio di Rufio Postumio Festo, che nel 439 fu console per l'Occidente, dovette nascere a Roma nel quarto o nel quinto decennio del secolo V. È ricordato per la prima volta dalle fonti come console per l'Occidente nel 472.
Il consolato di F. coincise con la fase finale della lotta tra l'imperatore d'Occidente Antemio e il suo potente magister militum Recimero. Nel febbraio 472 quest'ultimo pose l'assedio a Roma, dove Antemio si era rifugiato: all'inizio di luglio conquistò la città, la mise a sacco e uccise l'imperatore. Nulla dicono le fonti circa la posizione assunta da F. in questo conflitto, né la sua nomina a console appare sufficiente per concludere che egli rimase fino all'ultimo fedele ad Antemio il quale a Roma contava non pochi oppositori per i legami con Costantinopoli, per le aperture verso i monofisiti, per il favore verso esponenti della cultura pagana.
Ignote restano anche le vicende di F. nei quattro anni successivi durante i quali maturò la fine della dignità imperiale d'Occidente, con la conseguente fondazione di un regno barbarico anche in Italia. Si può ritenere, comunque, che sia in questo periodo sia durante il regno di Odoacre F. svolse un ruolo significativo nella vita pubblica romana e ricoprì cariche importanti: quando, infatti, le fonti tornano a parlare di lui, il suo nome è sempre preceduto dalla qualificazione "vir illustris" - titolo che spettava agli appartenenti alla prima classe nell'ordine delle precedenze alla corte imperiale - e seguito dall'altra "caput Senatus", o "primus prior Senatus", che competeva al senatore più eminente.
F. era, dunque, tra i principali esponenti dell'aristocrazia senatoria che dominava la penisola e che - data l'incapacità di Costantinopoli di modificare la situazione italiana - aveva finito per accettare Odoacre riconoscendolo non già come rex, bensì come comandante supremo delle forze armate d'Italia.
Il quadro politico mutò quando nell'estate del 489 Teodorico dette inizio alla conquista della penisola in nome dell'imperatore d'Oriente Zenone. Al pari della maggioranza del ceto senatorio F. non si schierò subito dalla parte di Teodorico, temendo, probabilmente, la spartizione di terre che avrebbe necessariamente seguito la vittoria degli Ostrogoti e l'atteggiamento di costoro verso il Senato. Solo sul finire del 490. mentre nell'Italia settentrionale proseguivano con alterne vicende le operazioni militari, F. e il Senato si pronunciarono per Teodorico.L'importanza che, in questo quadro politico, Teodorico attribuì a F. è dimostrata dall'incarico che gli affidò poco tempo dopo: quello di recarsi a capo di un ambasceria a Costantinopoli "ad Zenonem imperatorem, sperans ab eodeni vesteni se regiam. induere" (come si legge nella pars posterior degli Excerpta Valesiana), cioè per ottenere il riconoscimento ufficiale del diritto di governare l'Italia anche in virtù dei poteri che gli derivavano dal fatto di essere re degli Ostrogoti. Non era un compito facile: la richiesta comportava l'accettazione da parte imperiale di un regno germanico anche in Italia e non coincideva, quindi, con gli obiettivi propostisi da Zenone quando aveva affidato a Teodorico la conquista della penisola. Né la scelta di un'ambasceria di esponenti del ceto senatorio era in quel momento particolarmente felice, dato che i rapporti tra Roma e Costantinopoli erano allora assai tesi a causa della perdurante controversia sul monofitismo. La morte di Zenone (9 apr. 491) e l'avvento al trono di Anastasio I, ben più intransigente del suo predecessore sia in campo politico, sia in quello religioso, contribuirono a far fallire la missione. F. rientrò a Roma nella primavera-estate del 491.
La sua azione, comunque, fece comprendere al governo imperiale che il vero centro dell'intricata situazione italiana era il Senato. Perciò Anastasio I inviò ben presto suoi rappresentanti a Roma con l'incafico di tenersi in continuo contatto con i senatori e di sostenere quelli a lui favorevoli. F., che durante il soggiorno a Costantinopoli era riuscito a rinsaldare i vincoli con le grandi famiglie della capitale, fu sin dal suo ritorno a Roma il più autorevole esponente del partito filobizantino, partito al quale si opponevano quanti volevano difendere la tradizione e l'autonomia della Romanità appoggiandosi agli Ostrogoti.
Nel marzo 493 Teodorico riuscì, con l'inganno, ad entrare a Ravenna dove si era rifugiato Odoacre e poco dopo lo uccise a tradimento. Si fece allora proclamare solennemente dal suo popolo re in Italia, senza attendere l'autorizzazione imperiale, con un atto rivoluzionario, chiaramente lesivo dell'autorità bizantina. Anastasio I, tuttavia, non era in grado di aprire un conflitto armato con i Goti: si limitò, pertanto, a negare il riconoscimento formale del titolo regio di Teodorico, ma ratificò o accettò tutti gli atti di governo da lui compiuti dopo il marzo 493. La tensione si allentò in parte verso la fine del 496, quando, morto il papa Gelasio I (21 novembre), venne eletto Anastasio II (24 novembre), sostenitore di una linea di conciliazione con le Chiese orientali e con l'imperatore.
Nella nuova situazione apertasi alla fine del 496 Teodorico decise di promuovere un terzo tentativo per ottenere il riconoscimento imperiale. E ricorse ancora a F.: il che sta ad indicare come il partito filobizantino avesse ormai conseguito la maggioranza all'interno del Senato. All'inizio del 497 F. lasciò Roma. Insieme con la sua, partì anche un'altra ambasceria, inviata dal papa, d'accordo con il re goto, per discutere delle questioni religiose. A Costantinopoli F. trovò un ambiente più favorevole e riuscì a concludere positivamente le trattative sul finire dello stesso anno. L'imperatore concesse a Teodorico il riconoscimento della potestà regia e gli inviò, perché li custodisse a Ravenna come attributi della sua nuova condizione e come segni della sua legittimazione, le insegne e i paramenti solenni che, simbolo della suprema autorità in Occidente, Zenone si era fatto consegnare da Odoacre trent'anni prima. In cambio ottenne da F. sia l'impegno a non sostenere gli inviati del papa, sia - secondo il più tardo cronista bizantino Teodoro il lettore - quello di convincere il papa a sottoscrivere l'Henotikòn, l'editto di unione, cioè, promulgato da Zenone nel 482 per tentare una conciliazione tra le dottrine monofisite e la definizione ortodossa del Concilio di Calcedonia del 451.
F. si trattenne a Costantinopoli fino alla metà del 498. È probabile che allora ricevesse il titolo di "patricius" la cui prima testimonianza sembra risalire al 497-498. Tornato a Roma, si adoperò per convincere Anastasio II ad aderire all'Henotikòn, coinvolgendo in quest'opera di propaganda il Senato, il clero cittadino e l'aristocrazia senatoria. Tale opera suscitò la decisa opposizione dei sostenitori dell'ortodossia, i quali erano già critici dell'atteggiamento conciliativo di Anastasio II, tanto che alcuni di loro erano giunti a staccarsi dalla comunione col papa. Quando, poi, il 19 nov. 498 Anastasio II morì - senza peraltro, aver sottoscritto l'Henotikòn - lo scontro tra i due partiti esplose in maniera decisa.
Due furono i candidati alla successione: il diacono Simmaco, sardo d'origine, assai vicino ai circoli più fedeli alle tradizioni di Roma, proposto dagli ortodossi; e l'archipresbitero di S. Prassede, Celio Lorenzo, di origine romana caro al popolo e ben disposto verso Costantinopoli, proposto dai fautori della linea di conciliazione. Il primo era sostenuto dal partito che aveva tra i suoi principali esponenti Probo Fausto Niger e poteva contare sul favore del praefectus praetorio di Teodorico, Liberio; il secondo aveva l'appoggio di F. e del suo partito, quello della maggioranza del Senato e di quasi tutta l'aristocrazia. Il 22 nov. 498 entrambi furono eletti ed ordinati vescovi di Roma, Lorenzo nella basilica di S. Maria Maggiore, Simmaco nella basilica lateranense. Lo scisma, che dal nome di uno dei due protagonisti, è detto "laurenziano", provocò sanguinosi scontri tra le avverse fazioni. All'inizio del 499 Teodorico, nell'intento di restaurare l'ordine a Roma, convocò a Ravenna i due eletti: accertata la modalità delle due elezioni, si pronunciò in favore di Simmaco il quale aveva ricevuto un maggior numero di suffragi; Lorenzo venne inviato ad amministrare la diocesi di Nocera Inferiore.
La soluzione sembrò porre fine allo scisma. Riportò certamente pace a Roma che Teodorico visitò nel 500: è molto probabile che F. abbia preso parte alle cerimonie e ai colloqui ufficiali che si svolsero in questa occasione. Nel 501, però, il conflitto religioso si riaccese con rinnovata intensità.
F. si inserì nel nuovo, acceso, clima di tensione: non gli era certamente estraneo l'obiettivo di rafforzare l'orientamento filobizantino del Senato, in funzione di appoggio alla politica di Costantinopoli diretta a creare difficoltà ai Visigoti e, quindi ai loro alleati Ostrogoti. Con una capillare opera di propaganda ed utilizzando i suoi consistenti mezzi finanziari, guadagnò alle sue tesi l'opinione pubblica romana e accrebbe il proprio peso nella vita pubblica della città. Sul finire di marzo insieme con il patricius Probino presentò a Teodorico, a nome del Senato e del clero romano, formale atto di accusa contro Simmaco, contestandogli non solo la fissazione della Pasqua, ma anche l'illegittima alienazione di beni appartenenti al patrimonium beati Petri e una continua intimità con donne. L'atto di accusa fu seguito dalla richiesta formale di un visitator che assumesse la guida spirituale della diocesi romana e l'amministrazione dei suoi beni, in attesa della definizione della vertenza.
Il re goto convocò a Ravenna Simmaco, ufficialmente solo per discutere della questione della data di Pasqua, ed affidò il governo della diocesi romana al vescovo di Altino, Pietro. Inoltre, in tutta segretezza, chiamò a corte quanti potevano fornirgli testimonianze sulla condotta di Simmaco: e tra costoro anche Lorenzo. Simmaco accolse di buon grado la convocazione e lasciò Roma per Ravenna. Giunto a Rimini, venne a sapere per un caso fortuito che sarebbe stato interrogato anche sugli addebiti di ordine morale e canonico che gli venivano mossi. Abbandonò, allora, di nascosto la città e tornò da solo precipitosamente a Roma.
Qui, però, durante la sua assenza la situazione era profondamente mutata. F. e il suo partito avevano conquistato il controllo dell'Urbe, mentre il vescovo di Altino si era insediato alla guida della diocesi. Simmaco fu respinto alle mura della città e fu costretto a rinchiudersi in S. Pietro. F. si servì dell'episodio della fuga di Simmaco per indurre il Senato e il clero di Roma a chiedere a Teodorico la convocazione di un'assemblea di vescovi italiani che vagliasse la portata delle accuse mosse al pontefice e decidesse della sua sorte. La richiesta non aveva precedenti: non si era mai dato il caso, infatti, di un pontefice romano chiamato a rispondere dei propri atti davanti ai vescovi suoi suffraganei o comunque sottoposti alla sua autorità.
L'assemblea, che si aprì il 22 aprile, e si articolò in quattro sessioni, fu accompagnata da violenti scontri a Roma tra le due fazioni, scontri che videro F. tra i protagonisti: quando, ad esempio, Simmaco cercò di uscire da S. Pietro, fu F. a impedirgli di raggiungere la città e a costringerlo a rientrare nella sua chiesa. Alla fine di ottobre l'assemblea si chiuse con l'approvazione di un decreto che dichiarava l'incompetenza di un concilio a giudicare un pontefice e stabiliva la reintegrazione di Simmaco nell'amministrazione dei beni. Il decreto, che costituiva una sostanziale vittoria dei sostenitori di Simmaco, dette nuovo vigore all'azione di Probo Fausto Niger e del suo partito che cercarono di reintegrare Simmaco nelle funzioni e nella carica pontificia. Ma F. e i suoi sostenitori respinsero ogni tentativo del partito avversario: conservarono il pieno controllo di Roma, intervenendo con violenza contro ogni opposizione, e continuarono a costringere Simmaco fuori delle mura. Nel 502, poi, chiesero formalmente a Teodorico di reintegrare Lorenzo nella dignità pontificia perché le norme canoniche vietavano il passaggio di un vescovo ad una sede diversa da quella per la quale era stato ordinato. Teodorico dette il suo consenso e Lorenzo ricevette dal vescovo di Altino il governo della diocesi romana e dei beni di questa. La reazione del partito di Probo Fausto Niger non ebbe successo, né significative conseguenze produsse il sinodo convocato da Simmaco in S. Pietro nel novembre 502. F. continuò a controllare Roma e a garantire a Lorenzo l'esercizio della sua potestà spirituale.
Il contrasto che negli anni successivi si aprì tra il regno goto e l'Impero orientale modificò gli equilibri politici romani: a partire dal 503 Teodorico cominciò ad innalzare alle più alte cariche della sua amministrazione esponenti della fazione moderata, o addirittura di quella simmachiana, dell'aristocrazia senatoria. Alla fine del 506 Teodorico inviò a F. quale "caput Senatus" l'ordine di attuare i decreti approvati dal sinodo romano del novembre 502 in materia di edifici sacri e di beni ecclesiastici, aggiungendo istruzioni "ut omnes tituli Simmacho reformentur et ununi Romae pateretur esse pontificem" (come si legge nel Fragmentum Laurentianum). F. non poté non obbedire: il Senato approvò la conferma dei decreti sinodali che vennero poi ratificati da Teodorico con un rescritto dell'undici marzo 507 (0 508). La reintegrazione di Simmaco nella carica pontificia dovette avvenire nello stesso 507 o l'anno successivo.
La vittoria della fazione avversaria non allontanò, comunque, F. dalla vita politica. Continuò ad essere "caput Senatus" e ad intrattenere buoni rapporti con il re goto, come attestano quattro dispacci a lui trasmessi da quest'ultimo e conservati nelle Variae di Cassiodoro. Riuscì anche ad instaurare buoni rapporti con senatori della fazione moderata: insieme con uno di loro, Quinto Aurelio Memmio Simmaco, ad esempio, promosse, probabilmente nel 508, un'azione giudiziaria contro un altro senatore, Flavio Paolino. Dopo il 508 cominciò a ridurre i suoi impegni pubblici: così rifiutò di trasferirsi a Ravenna per assumere importanti dignità di corte, motivando la sua decisione con il desiderio di dedicarsi esclusivamente agli studi. Né F. né Aurelio Simmaco si lasciarono coinvolgere nei torbidi che insanguinarono Roma nel 509, scoppiati a causa dei violenti contrasti tra le fazioni del circo: e per questo comportamento furono lodati da Ennodio. F. era a Roma nel 512 quando Ennodio scrisse di lui e di Aurelio Simmaco il famoso elogio che li presenta come maestri di cultura ed esempi di condotta morale.
Viveva ancora nel 513, come risulta dall'epitafio di Fringillo, suo "horrearius". Dopo questa data più nulla ci dicono le fonti di lui.
Fonti e Bibl.: Magni Felicis Ennodii Opusculum VI, Rhetorica, a cura di F. Vogel, in Mon. Germ. hist., Auctores antiquissimi, VII, Berolini 1885, p. 345; Cassiodori senatoris Variae, a cura di Th. Mommsen, ibid., XII, ibid. 1894, pp. 22, 27, 36, 58 s., 84; Fragmentum Laurentianum, in Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, I, Paris 1886, p. 44 n. 16; Abrégé Félicien, ibid., pp. 96, 98; Abrégé Cononien, ibid., pp. 96, 98; Symmachus, ibid., pp. 260 s.; Corpus inscriptionum Latinarum, VI, 4, Berolini 1902, n. 32202; XII, ibid. 1888, n. 1724; Excerpta Valesiana, a cura di J. Moreau, Lipsiae 1968, pp. 15, 18; Th. Mommsen, Ostrogotische Studien, in Neues Archiv. d. Gesellschaft f. ältere deutsche Geschichtskunde, XIV(1889), 2-3, pp. 244, 489; G. B. Picotti, Il "patricius" nell'ultima età imperiale e nei primi regni barbarici d'Italia, in Arch. stor. ital., serie 7, IX (1928), p. 25 n. 1;O. Bertolini, Roma difronte a Bisanzio e ai Longobardi, Bologna 1941, pp. 29 s., 37-40, 47-49, 69-77, 79, 81, 84, 106; A. Alessandrini, Teoderico e papa Simmaco durante lo scisma laurenziano, in Arch. d. R. Deputaz. romana di storia patria, LXVII (1944), pp. 153-207 passim; O.Bertolini, IGermani. Migrazioni e regni nello Occidente già romano, in Storia universale (Vallardi), III, 1, Milano 1965, ad Ind.; J. R. Martindale, The prosopography of the later Roman Empire, II, Cambridge-London-New York 1974, pp. 467-469; P. Lleweilyn, Roma nei secoli bui, Bari 1975, p. 20.