CIMINO, Flaminio
Letterato calabrese del sec. XVII, di Pedivigliano (Cosenza).
Nel poemetto che scrisse nel 1636 sul riscatto di Scigliano si definisce "clericu coniugatu". Probabilmente era uno dì quei "diaconi selvaggi", numerosi in quel tempo - secondo L. Amabile - in Calabria: laici ai quali era concesso dai vescovì di indossare un ferraiolo nero, acquistando la qualità di chierici, godendone le prerogative ed esenzioni e sottraendosi alla giurisdizione civile. Infatti il C. nell'ottava XII si descrive con un lungo "tabanu" (mantello), che - dice - lo faceva sembrare del tutto simile a un prete.
Il poemetto Luricattu de Sciglianu èin ottave narrative in dialetto calabrese e tratta del riscatto di Scigliano, cittadina della Calabria che vantava un'antica tradizione di libertà entro il demanio regio, e illustra anche un momento del processo di rifeudalizzazione del Regno di Napoli.
A partire dal 1620 si accentua la stretta fiscale per risollevare le finanze spagnole stremate dalla guerra dei Trent'anni. A tal fine - scrive F. Braudel in L'Italia fuori d'Italia, in Storia d'Italia, II, 2, Torino 1974, p. 2232 - "non sono le rendite dello Stato quelle che vengono messe all'incanto dal vicerè, dietro ordine di Madrid, ma è quello che potremmo chiamare il capitale dello Stato; lo stesso ammontare delle imposte, la proprietà delle giurisdizioni, i diritti reali più o meno integri, le dogane del porto, l'imposta, i titoli nobiliari, e finalmente i contadini, ossia i comuni rurali del demanio regio". C'è da aggiungere che generalmente quasi tutte le città del demanio regio vendute a privati si riscattavano pagando una somma corrispondente a quella pagata dall'acquirente. Più che altro perciò lo spauracchio della vendita posto dal re alle città costituiva un ricatto: una specie di tassazione forzosa. Il poemetto racconta quindi le varie fasi che si susseguirono alla vendita della città, consentita nel maggio 1631dal viceré di Napoli, duca d'Alcalá, al principe di Castiglione don Cesare d'Aquino, fino al riscatto finale avvenuto il 12 sett. 1636.Traspare in esso la partecipazione e indignazione personale dell'autore per la vendita di Scigliano "natu culla libertate" e che ora invece si trova "mmanu de Barune". E infatti il motivo della libertà (naturalmente secondo il tema di s. Girolamo: "servire Regi libertas est") è l'idea forza che percorre, il poemetto. Al paternalismo del procuratore del principe che cerca d'indurre i cittadini di Scigliano a sottomettersi al barone - e significativamente nel manoscritto è barune "ha come variante"patrune" - il C. risponde che gli Sciglianesi sono come "l'augello cantature", al quale, sebbene nella gabbia non manchi nulla, ugualmente "gira, rigira, e pue girando va / si putissi arrivari libertà" (ottava IX). Notevole poi l'ironia con cui viene apostrofato il principe che voleva comprare "comu cipulle" gli Sciglianesi, fino allo sberleffo della riverenza finale (ottava, XLIV). Emerge, comunque nel poemetto il ruolo del ceto civile, dei dottori. Sono essi che si assumono il compito di recarsi alla corte di Madrid a perorare presso il re la causa di Scigliano. Certo il loro intervento non sembra del tutto disinteressato. Gian Leonardo Pallone, per esempio, pretendeva per gli 8.000ducati offerti come riscatto "Mastridattia, la Càmbera, e Vaglia" e cioè importanti uffici della città. È con amara ironia perciò che il C. indica come eventuali riscattatori alcune persone del ceto più misero ("facimu lu mandatu a Pignatiellu / che è juto culla fauce a fatigare", ottava XXIII). Finalmente, tassando "li gienti tutti universalmente" secondo il loro reddito, i denari vengono trovati e, ottenuta la reintegrazione nel demanio regio, tutta Scigliano scende in piazza per, festeggiare ("Vidie li genti in cientu, e cientu frotte / iire gridandu, e cantandu canzuni...", ottava LXVIII).
Il poemetto, a parte l'evidente interesse storico, è interessante dal punto di vista linguistico anche perché non sì conoscono molti testi in vernacolo calabrese della prima metà del Seicento. Un certo Luzio D'Orsi scrisse un'orazione in fingua per festeggiare il riscatto: Scigliano festante per la reintegrazione della sua libertà, Madrid 1637, L'uso del dialetto per il C. - nell'ambito dei plurilinguismo letterario dei Seicento - risponde a una scelta esclusivamente municipalistica, privo com'è di qualsiasi pretesa letteraria e sperimentalistica. Del poemetto esistono due versioni con notevoli varianti: la prima è quella pubblicata nel 1883a cura di Luigi Apcattatis sull'Ecodel Savuto di Scigliano. Nella Biblioteca civica di Cosenza sono disponibili solo i numeri (del 15 dic. 1882; 21 e 29gennaio, e 5 febbr. 1883)che riportano la III, V, VI e VII puntata, senza alcuna nota, sicché non si sa da quale manoscritto l'Accattatis abbia riportato il poemetto. Lo stesso Accattatis nelle sue Reminiscenze patrie (Cosenza 1905, pp. 21-24) ne riporta tredicì strofe come "esempio di spirito di indipendenza e amor patrio" degli Sciglianesi (p. 25), ma senza nessun'altra indicazione, oltre a rimandare alla sua precedente pubblicazione. La seconda versione è quella Dubblicata da Guido Cimino nel 1959 in Calabria nobilissima (XXXVIII), pp. 107-115, ed è tratta da un manoscritto del 1782 di cui è autore il parroco sciglianese d. Giuseppe Talarico e che è stato pubblicato in gran parte a puntate - a cura dello stesso Cimino - sul Corriere delle Calabrie di Cosenza, 1959-60. Il Cimino non fa menzione della pubblicazione del poemetto da parte di Accattatis, sicché è probabile che non la conoscesse. Egli accenna, sempre sul Corriere delle Calabrie, alla grande fortuna che ebbe il tema del riscatto presso i cittadini di Scigliano nella tradizione scritta e orale, ed egli stesso aveva potuto sentire a viva voce dagli abitanti il ricordo della coraggiosa lotta condotta contro il principe di Castiglione.
Bibl.: Non si conoscono del C. altri dati biografici, fuori di quelli, assai scarsi, contenuti nel poemetto, ripubblicato in F. A. Accattatis, Storiadi Scigliano [1749], a cura di Isidoro Pallone, II, Cosenza 1965, pp. 167-195.