MOCENIGO, Filippo.
– Nacque a Venezia l’11 apr. 1524 da Chiara di Carlo Contarini e da Piero dei Mocenigo di S. Samuele detti di Casa Vecchia, prestigiosa famiglia del patriziato.
Studiò filosofia a Padova e fu affiliato dell’Accademia Veneziana. Coprì le cariche di savio agli Ordini (1552), ambasciatore straordinario in Polonia (1553), provveditore alle Pompe e avogadore fiscale (1554). Nel 1559 fu eletto oratore ordinario al duca di Savoia appena reintegrato nel suo Stato quando, ancora laico, gli si spalancarono le porte della carriera ecclesiastica: il 9 genn. 1560, infatti, fu designato da Venezia come candidato per l’arcivescovato cipriota di Nicosia (da cui dipendevano le diocesi di Famagosta, Paphos e Limassol). Lo stesso Pio IV, in ottimi rapporti con la Serenissima, ne propose la nomina in concistoro su raccomandazione del cugino ex fratre Alvise Mocenigo (all’epoca ambasciatore a Roma e poi doge dal 1570 al 1577) e del veneziano Giovanni Francesco Commendone, vescovo di Zante e nunzio pontificio. Alla carica di metropolita, conferitagli il 13 marzo 1560, fu associato il titolo di legatus natus, che dava diritto all’abito color porpora e alla precedenza sugli altri arcivescovi. Ricevuto il pallio arcivescovile il 26 apr. 1560, il M. fu consacrato il 1° maggio.
Il 10 ag. 1560 salpò da Venezia per l’isola di Cipro con una numerosa familia che annoverava il filosofo Francesco Patrizi, il vicario ferrarese Giacomo Sacrati, nipote di Iacopo Sadoleto e futuro vescovo di Carpentras, il maestro di casa Alvise Graziani, cui si aggregarono due gesuiti. Entrò trionfalmente a Nicosia il 17 settembre, primo vescovo residente dopo una serie di ordinari assenteisti tratti dalla nobiltà cipriota. Nel 1561 lasciò Cipro per il concilio di Trento dove si fermò dal 9 sett. 1562 sino alla conclusione. Qui si pronunciò a favore della residenza divino iure, pur conservando un atteggiamento di ferma difesa del primato papale e della struttura gerarchica della Chiesa che il M. condivideva con il suo teologo, il domenicano Adriano Beretti, poi inquisitore di Venezia.
Da Trento in compagnia di Beretti si recò a Roma, dove fu consultore del S. Uffizio (Arch. di Stato di Firenze, Mediceo del principato, b. 3283, 30 giugno 1564). Nominato commissario generale dell’Inquisizione del Regno di Cipro, fece ritorno nell’isola il 21 sett. 1564. Qui dovette destreggiarsi tra le resistenze del clero greco, la politica veneziana volta a non turbare i rapporti con i sudditi greci e la necessità di applicare le norme tridentine, in ottemperanza alle quali nel 1566 convocò il sinodo diocesano. In quel periodo compì probabilmente un viaggio in Terrasanta. Dopo aver generosamente contribuito alla fortificazione antiturca di Cipro, nel maggio 1568 fu convocato in patria per giustificare davanti al Consiglio dei dieci la lite con un vescovo greco dell’isola, gli echi della quale suo malgrado erano giunti a Roma sino a Pio V. Poté quindi scampare alla conquista ottomana di Cipro nel 1570, a seguito della quale perse gran parte delle proprie entrate e sostanze.
In patria riallacciò i contatti con docenti dello Studio padovano e con uomini di Chiesa veneti: i filosofi Federico Pendasio e Francesco Piccolomini, il canonico Alvise Giustiniani, i vescovi Giovanni Dolfin e Giulio Savorgnan, il teologo domenicano Gerolamo Vielmi, vescovo suffraganeo di Padova, il patrizio Giovanni Giacinto Diedo, nella cui abitazione padovana si organizzavano dispute filosofiche. Nel palazzo di famiglia in Prato della Valle il M. ospitò con il suo seguito l’amico e coetaneo cardinal Commendone, inviato legato apostolico alla corte imperiale.
Fu un periodo di studio ma anche di crescenti difficoltà finanziarie aggravate dalla lite scoppiata per ragioni patrimoniali con il fratello maggiore Marcantonio, per dirimere la quale dovette intervenire il cugino doge. Il 28 maggio 1572 il nunzio a Venezia Giovanni Antonio Facchinetti scriveva a Roma: «Questo prelato è di casa Moceniga, della famiglia del principe et dei più stretti parenti ch’egli habbia; si ritrova povero, è riputato molto erudito negli studii di filosofia et di costumi buonissimi» (Nunziature di Venezia, X, a cura di A. Stella, Roma 1977, p. 202).
Alla stessa data risalgono due lettere accorate del M., l’una a Gregorio XIII, l’altra al cardinale Carlo Borromeo affinché gli trovassero un ruolo entro quella Chiesa postconciliare cui, dopo aver rinunciato al servizio della patria, era ansioso di essere utile con i propri ampi mezzi culturali (Milano, Biblioteca Ambrosiana, F 85 inf., n. 244).
Il 12 ott. 1573 il M. partì per Roma dove alloggiò nel palazzo del cardinal Commendone, proposto da Venezia per la carica di coadiutore con diritto di successione del patriarca di Aquileia Giovanni Grimani. Nel corso delle delicate trattative – la Repubblica aveva facoltà di proporre tre nomi per la successione di Aquileia solo alla morte del patriarca – nell’aprile del 1574 emerse l’esistenza di un procedimento a suo carico presso il S. Uffizio, basato sulla denuncia presentata nel 1561 da fra Antonio da Venezia, inquisitore domenicano di Pera. Questi aveva accompagnato il M. nel viaggio via terra da Costantinopoli a Venezia alla volta di Trento e, mentre l’arcivescovo era impegnato nei lavori conciliari, l’aveva denunciato a Roma per il possesso di un libro proibito (la Geografia di C. Tolomeo commentata da S. Münster) e per aver esposto pubblicamente durante il viaggio tesi sospette sul rapporto tra fede e opere, sostenendo la necessità di riaprire la questione al concilio.
Iniziò allora una lunga e segreta trattativa (il M. era primo cugino del doge in carica) tra l’ambasciatore veneziano Paolo Tiepolo, il papa e i cardinali inquisitori S. Rebiba, G. Gambara e G.L. Madruzzo. Tiepolo, grande amico del M., giunse al punto di esortare il papa a contenere l’autorità dei cardinali inquisitori e a chiuder «loro compitamente la bocca onde non potrieno più parlare di religione in concistoro» (Arch. di Stato di Venezia, Senato, Roma, reg. 24, c. 319r, 3 luglio 1574). Dinanzi a Gregorio XIII che si schermiva affermando di essere giurista e non teologo, il cardinal Commendone e Tiepolo ottennero che il M. fosse esaminato dal teologo gesuita Francisco Toledo, il quale concluse che «i cardinali dell’Inquisitione procedevano alle volte troppo rigorosamente, et alle volte ancora s’ingannavano prendendo errori notabilissimi» (ibid., c. 317r, 26 giugno 1574).
Alla fine, il M. dovette rinunciare alla successione di Aquileia (per la quale il 14 luglio 1574 fu nominato un altro candidato proposto da Venezia), rassegnandosi a ricevere nel settembre di quell’anno il titolo onorifico di assistente della cappella pontificia in conformità al principio teorizzato dai cardinali inquisitori che neppure un’assoluzione seguita a un processo formale avrebbe potuto cambiare la sua situazione, dal momento che il solo sospetto d’eresia rendeva inabili alla cura d’anime.
Rimasto in curia, negli anni successivi vide sfumare tutte le possibilità di nomina ai benefici vacanti nel domino veneto. Nel 1579 il Dialogo della perfettione della vita politica di Paolo Paruta, ambientato nel 1563 a Trento, poneva il M. all’apice del suo prestigio tra gli interlocutori dell’immaginaria conversazione di uomini di Chiesa e patrizi veneziani sullo sfondo del concilio. Nel 1581 pubblicò le Universales institutiones ad hominum perfectionem quatenus industria parari potest (Venezia, A. Manuzio), imponente trattato latino in folio organizzato secondo le partizioni della filosofia aristotelica.
Nell’ultima sezione dell’opera il M. delineava l’utopia di una perfetta società gerarchica cristiana e di un sistema educativo articolato in collegi, all’apice dei quali si trovava il Sommo sacerdote, unico garante delle verità di fede e giudice supremo delle controversie. Era un’evidente esortazione a Gregorio XIII, cui il trattato era dedicato, affinché, scavalcando l’Inquisizione, giudicasse il suo caso esercitando il ruolo che gli spettava. L’opera (ristampata a Venezia nel 1591) fu ripubblicata a Ginevra (1588) in un’antologia filosofica includente scritti di Andrea Cesalpino e di Bernardino Telesio (Tractationum philosophicarum) con rimaneggiamenti nell’ultima sezione, dove l’autorità del Sommo sacerdote era sostituita con quella di Cristo. Le Universales institutiones sancirono la fama di filosofo del M.: se l’amico Agostino Valier nel 1559 gli aveva dedicato il De recta philosophandi ratione – pubblicato nel 1577 con espunzione della dedica al M. (K. Müllner, Reden und Briefe italienischer Humanisten, Wien 1899, pp. 277-302) –, il senese Francesco Piccolomini lo annoverò con il cardinale Valier tra «coloro che hanno purgato la filosofia umana da ogni errore e l’hanno congiunta con la sapienza divina» (Universa philosophia de moribus, Venezia 1583, p. 273).
Già nel 1579 il M. aveva chiesto l’aiuto di Venezia affinché la sua posizione fosse chiarita a Roma, ma i conflitti che stavano ridisegnando gli equilibri politico-istituzionali interni al patriziato veneziano e l’appartenenza della sua famiglia allo schieramento dei «vecchi» indussero la Repubblica a disinteressarsi del suo caso. Incalzato dalle sue richieste, Gregorio XIII lo rinviò quindi al S. Uffizio presieduto dai cardinali G.A. Santoro, G.L. Madruzzo e Savelli affinché fosse sottoposto a giudizio. Il processo iniziò l’8 giugno 1583.
A rafforzare il fragile apparato accusatorio venuto alla luce nove anni prima, dagli archivi inquisitoriali emerse un’altra denuncia presentata nel 1576 contro il M. dal benedettino Teofilo Marzio da Siena, collaboratore del S. Uffizio in varie inchieste. Il M. gli aveva dato da leggere le Vie et progressi spirituali, un trattato spirituale da lui redatto in volgare e dedicato alla sorella Paola. L’opera era inedita ma aveva già ricevuto licenza di stampa dalle autorità ecclesiastiche veneziane. Precedentemente era stata emendata su richiesta del M. dal gesuita Francesco Adorno, il quale aveva suggerito alcune correzioni per attenuare le accentuazioni spiritualistiche del testo. Gli interrogatori del S. Uffizio, condotti personalmente da Santoro e basati su una lista di tesi filosofico-teologiche estrapolate dal trattato volgare, si trasformarono in un serrato confronto dottrinale tra il M. e il cardinale inquisitore. La sentenza fu pronunciata coram sanctissimo il 6 ott. 1583: il M. non era eretico né sospetto d’eresia ma le copie manoscritte delle Vie et progressi spirituali furono condannate alla confisca e alla distruzione per le proposizioni ambigue, oscure e pericolose che il trattato conteneva.
Lasciata Roma, il M. morì nel 1586 nell’eremo camaldolese di Rua sui colli Euganei.
Fonti e Bibl.: Città del Vaticano, Arch. della Congregazione per la Dottrina della Fede, Sant’Ufficio, Censurae librorum, ff. 47-191 (processo del 1583 con allegati antecedenti); Raccolta dei libri delle Censurae librorum (1570-1606), f. V: Vie et progressi spirituali; Concilium Tridentinum, Diaria, Friburgi Br., 1901-2001, ad ind.; P. Sarpi, Istoria del concilio tridentino, a cura di C. Vivanti, II, Torino 1974, pp. 939 s., 949; L. de Mas-Latrie, Histoire des archevêques latins de l’île de Chypre, in Archives de l’Orient latin, II (1884), pp. 323-328; A. Dyroff, Ueber Fr. Bacon Vorläufer (Mocenigo), in Renaissance und Philosophie, Beiträge zur Geschichte der Philosophie, XIII, Bonn 1916, pp. 107-109; A. Serrai, Storia della bibliografia, I, Roma 1988, pp. 305 s.; K.M. Setton, The Papacy and the Levant (1204-1571), IV, Philadelphia 1994, pp. 755-758; G. Cozzi, La società veneziana del Rinascimento in un’opera di Paolo Paruta: «Della perfettione della vita politica», in Ambiente veneziano, ambiente veneto. Saggi su politica, società, cultura nella Repubblica di Venezia, Venezia 1997, pp. 155-183; G. Caravale L’orazione proibita. Censura ecclesiastica e letteratura devozionale nella prima Età moderna, Firenze 2003, pp. 115-121; E. Bonora, Giudicare i vescovi. La definizione dei poteri nella Chiesa postridentina, Roma-Bari 2007, ad indicem.