CORRIDI, Filippo
Nato a Livorno il 12 giugno 1806 da Giuseppe e Giovanna Bianconi, primo di quattro figli, frequentò le scuole barnabite di S. Sebastiano, ove allora si concentravano i figli della borghesia commerciale e manifatturiera cittadina, dando prova di una singolare attitudine agli studi, che proprio per questo il C. poté continuare anche quando le condizioni economiche della famiglia divennero precarie per la morte precoce del padre, che operava nel piccolo commercio legato alle attività portuali.
Grazie all'incoraggiamento e al sostegno di G. Doveri, allora docente di matematica e nautica nella scuola per i Reali Corpi di artiglieria e marineria, il C. riuscì - dopo un brillante esame pubblico sulla "meccanica de' solidi e de' fluidi" (1823) - ad ottenere una borsa di studio per il "collegio medico-fisico" dell'università di Pisa, ove approfondì lo studio delle scienze matematiche e naturali. Laureatosi nel 1828, ottenne subito la cattedra di aritmetica razionale e di geometria, e più tardi quella di elementi di algebra. All'insegnamento il C. si applicò con grande impegno, dando prova di una cultura vasta ed aggiornata, sensibile ai problemi della concettualizzazione e del rigore logico (frutto della forte impronta che il periodo francese aveva lasciato nello Studio pisano), e di una inusuale organicità e chiarezza espositiva.
Il suo primo contributo in un settore così poco coltivato in Italia come quello della esposizione sistematica del sapete scientifico a livello di alta divulgazione furono i Principj teorici della trigonometria rettilinea e sferica (Pisa 1834), che ebbero ampi riconoscimenti anche fuori della Toscana. Due anni dopo vedevano la luce gli Elementi di geometria (Firenze 1836) in cui il C. prendeva le distanze dall'esposizione di Legendre, che allora andava per la maggiore, in nome di un "più accurato rigore di ragionamento", della necessità di rompere la sudditanza della geometria dall'aritmetica e di trattare correttamente grandezze fra loro incommensurabili, ricollegandosi alla grande lezione di Euclide: un punto, questo, su cui tornerà ad insistere ancora molti anni dopo, lodando la scelta di Betti e Brioschi in favore del trattato euclideo (che i programmi del 1867 imponevano come testo base della scuola secondaria) per la sua netta superiorità "nel rigore dei principi, nell'ordinamento logico delle proposizioni, e nella forma... delle dimostrazioni" (Il primo libro di Euclide, Firenze-Roma 1877, p. XXIII). Attento alla necessità di migliorare la conoscenza di quanto si veniva facendo in Europa anche a livello degli studi universitari, come nel 1834 aveva curato una nuova edizione (Firenze) del Trattato elementare di applicazione dell'algebra alla geometria di S. F. Lacroix, condotta sull'ultima francese, così nel 1838 tradusse il Trattato di geometria descrittiva (ibid.) del fondatore di tale disciplina, G. Monge, premettendovi una ricca biografia dell'autore ed un puntuale resoconto sulla vicenda e sul valore dell'opera; nel 1842 era la volta del Trattato di calcolo differenziale e integrale (ibid.), nato, come gli altri, dalla quotidiana esperienza di docente e dalle feconde discussioni con G. Doveri, ora professore onorario dell'ateneo pisano, grande ammiratore di Newton e di Eulero, di Lagrange e di L. Carnot, ma anche instancabile promotore, a Livorno, di scuole ed asili, gabinetti di lettura e casse di risparmio, e dunque anche su questo versante probabile mentore del più giovane C., che ne ricorderà con affetto il magistero e l'esempio (Della vita e degli studi del prof. G. Doveri, Firenze 1857).
Pur restando ai margini della vivace "fronda" al regime granducale che si sviluppò a Pisa negli anni '30, il C. si dimostrò fino da allora molto sensibile ai temi dell'istruzione popolare e alle iniziative utili a promuoverla. Di qui il suo contributo agli "asili di carità" pisani, per potenziarli e per toglier loro il carattere di puro e semplice "ricovero" infantile diurno, secondo una linea che aveva fra i suoi massimi sostenitori R. Lambruschini, e che era appoggiata da quei settori moderati che, facendo perno sul Gabinetto Vieusseux e sull'Accademia dei Georgofili, sul Giornale agrario toscano e sulla Guida dell'educatore, cercavano di risvegliare l'interesse del governo e degli strati superiori della società per il problema delle scuole per il popolo, considerato decisivo ai fini di un progresso ordinato e senza scosse del paese.
Anche in questo campo l'apporto più rilevante del C. consisté, soprattutto durante il soggiorno pisano, nella compilazione di agili strumenti didattici per l'istruzione di base. Dei molti pubblicati fra il 1832 (Elementi d'aritmetica spiegati al popolo, Pisa) e il 1853 (Abbecedario per insegnare a leggere la lingua italiana, Firenze) vanno almeno ricordati il Breve trattato di aritmetica ad uso de' fanciulli ordinato a sviluppare la loro intelligenza (Firenze 1839) e La geografia descrittiva esposta ai giovinetti (Pisa 1842), a cui Lambruschini riservò una calda accoglienza sulla Guida dell'educatore (1839, n. 41-42; 1842, n. 6), ricordando la pressoché assoluta novità di quei tentativi e riproducendo le pagine iniziali dell'una e dell'altra opera, in cui il C. si soffermava sia sulla necessità di abituare pian piano gli allievi a "ragionamenti astratti", per svilupparne le "facoltà intellettuali" e per mettere in grado "la mente e la mano" di operare in feconda simbiosi, sia sull'importanza - che avrebbe ribadito per tutta la vita - di puntare su manuali concisi e costruiti in modo da stimolare l'approfondimento personale, perché "quando il testo nulla lascia da investigare, si assuefà l'alunno a fuggire ogni raziocinio". E se nel primo caso il richiamo esplicito era alla feconda lezione di Concorcet, nel secondo il C. dichiarava il suo debito verso i principi pestalozziani e l'esempio di padre Girard, da cui aveva tratto il suggerimento di sovvertire l'ordine tradizionale dell'approccio alla geografia, cominciando non già dall'universo, ma dai luoghi familiari e dalla loro rappresentazione topografica per allargare progressivamente il quadro "dal noto all'ignoto", dal concreto all'astratto.
Questa duplice, intensa attività - che per un verso lo aveva messo in contatto con alcuni dei principali centri della ricerca scientifica a livello italiano e internazionale, e per l'altro lo aveva reso partecipe di quel moto di progresso civile che ovunque, ma in particolare nel granducato, faceva perno su uomini e gruppi sociali il cui apporto era decisivo per un esercizio del potere che non si risolvesse in semplice contenimento delle spinte provenienti dalla società civile - fece sì che il C. fosse prescelto come segretario del I congresso degli scienziati italiani, svoltosi a Pisa nell'ottobre del 1839: un'occasione importante, nella quale egli ebbe modo di mettere in luce il suo dinamismo e le sue notevoli doti di organizzatore, che gli vennero ampiamente riconosciute e che trovarono conferma nella tempestiva e accurata pubblicazione degli Atti (primavera 1840), aperti da una sua Relazione volta ad illustrare origine, modelli stranieri e caratteri di quello storico incontro posto sotto l'egida del grande Galileo, il quale, "giovandosi dell'osservazione e dell'esperienza, e sprezzando i sistemi ideali, dette vita alle discipline scientifiche".
La stima che il C. aveva saputo conquistarsi fu suggellata dalla promozione ad una cattedra universitaria di maggior prestigio, quella di "calcolo sublime", come veniva ancora comunemente chiamato il calcolo differenziale e integrale, e, due anni dopo, dall'incarico di segretario della classe di fisica, chimica e matematica che egli fu chiamato a rivestire nel congresso di Firenze. Già prima inoltre, come premio alle fatiche pisane, il granduca aveva concesso al C. permessi e lettere di presentazione d'ogni sorta per rendere più facile e fruttuoso il classico viaggio attraverso la Svizzera, la Germania, il Belgio e la Francia fino a Londra, considerato un complemento indispensabile alla formazione dell'uomo di cultura e del personaggio di rilievo pubblico; viaggio che egli intraprese nel maggio del 1840, preoccupandosi di smorzare il carattere troppo ufficiale che rischiava di assumere attraverso "commendatizie" di diverso segno politico e culturale. Fu così che il C. poté incontrare Quetelet e Jacoby, Babbage e Herschell jr., Palmerston e Faraday, Lacroix e De Gerando, De Candolle e padre Girard, essere accolto alla corte di Luigi Filippo e conoscere numerosi esuli italiani.
Attraverso queste esperienze stava però maturando il distacco del C. dalla docenza universitaria e dall'interesse per la ricerca scientifica, che avrebbe trovato sanzione, sul finire del 1843, nell'abbandono di Pisa per insegnare scienze matematiche e fisiche al primogenito di Leopoldo II, e che avrebbe comportato anche un netto ridimensionamento delle aperture politiche degli ultimi anni, testimoniate dalle sue lettere a Vieusseux e a Piero Cironi, suo scolaro a Pisa, e dagli stretti rapporti con Enrico Mayer. Non cadde invece l'interesse per l'istruzione popolare: anzi, appena giunto a Firenze, il C. accettò di assumere la carica di sovrintendente agli asili per l'infanzia, promossi da una società che aveva attraversato di recente una grave crisi, in conseguenza dei marcati contrasti ideologico-religiosi emersi in rapporto all'allontanamento di Piero Guicciardini. Ma proprio l'accettazione, caldamente sconsigliata da Vieusseux, di questa proposta, in nome della necessità di distinguere "l'utilità della istituzione e lo spirito di parte", è sintomatica di una sua insofferenza di fondo per le crescenti connotazioni politiche che moderati e democratici tendevano a dare al loro impegno civile, di una scelta di "neutralità" a cui non sarebbe più venuto meno.
Ciò non toglie che i Rapporti sull'andamento degli asili nel 1845 e nel 1847, cosìcome le memorie lette nell'agosto di quell'anno all'Accademia dei Georgofili (Della necessità di uno stabilimento tecnologico per migliorare lo stato morale degli artigiani) e nel dicembre all'adunanza della Società per il mantenimento Degli asili e della scuola di mestieri (Firenze 1848) siano pervasi da una concezione molto moderna del problema. Le considerazioni critiche del C. in merito alla scarsa incisività sociale degli asili e al loro perdurante impianto caritativo, la sua sottolineatura dei danni culturali, civili ed economici prodotti dall'ignoranza in cui restavano immerse le masse popolari, del primato da assicurare, anche nelle scuole ad esse rivolte, all'istruzione ("Coloro i quali dicono doversi il popolo educare e non istruire, oltre a dir cosa d'assai oscuro concetto, emettono una idea che potrebbe riuscire a pessimo fine"), della necessità di elaborare programmi di studio che non si risolvessero in una "serie di nozioni senza vincolo necessario di dipendenza reciproca", testimoniano di un approccio singolarmente alieno da quegli accenti spiritualistici e paternalistici di cui era intrisa tanta parte della pubblicistica sull'argomento. E a questi criteri il C. ispirò anche la sua lunga (e nel complesso perduta) battaglia per potenziare ed arricchire di officine la "scuola per artigiani" annessa all'asilo di Candeli presso Firenze, per renderla capace di combattere i guasti apportati dal tradizionale apprendistato in bottega, buono al più a perpetuare errori e pregiudizi, e sempre inadatto a foggiare "una forza creatrice", "una intelligenza che dirige e guida la mano".
Il C. mantenne la carica di sovrintendente agli asili fino al 1854. Ma negli ultimi anni il baricentro della sua attività si era spostato sensibilmente. Passata la bufera rivoluzionaria del 1848-49 - in cui egli si tenne in disparte, pur manifestando qualche simpatia albertista e una convinta adesione alla guerra d'indipendenza contro l'Austria -, il suo interesse fu attratto dai segnali di inizio di una fase di impetuoso sviluppo economico, e in particolare dell'industria, provenienti d'Oltralpe. Così, nel fervore delle attese e dei preparativi per la grande Esposizione internazionale di Londra del 1851, ottenne che l'istituzione già in passato preposta ad organizzare le mostre dei prodotti toscani (e a cui dunque era prevedibile che si sarebbe fatto ricorso per preparare la presenza del granducato al Chrystal Palace) venisse ristrutturata e potenziata.
Con una serie di decreti che portano la data 14 genn. 1850, la sezione dell'Accademia di belle arti relativa alle arti e manifatture, cui erano annessi col titolo di scuole tecniche gli scarni resti del conservatorio di arti e mestieri voluto dai Francesi nel 1811, veniva staccata del tutto dal nucleo originario, e a presiederla veniva chiamato il C., il quale, alludendo al grande modello parigino, cominciò subito a denominare tale complesso "istituto tecnico", una dizione accolta anche ufficialmente a partire dal decreto dell'ottobre 1853 che fissava le cattedre ad esso spettanti.
"Fondato a promuovere lo studio delle scienze di applicazione, e il progresso delle utili industrie, delle arti e delle grandi lavorazioni" - come recitava l'art. 1 del regolamento organico - l'istituto si componeva delle "scuole maggiori" (la competenza sulle "minori" mai aperte, venne affidata al municipio di Firenze), dell'Accademia di arti e manifatture, di due officine (di meccanica e di lavorazione del legno), di un Museo tecnologico e di una biblioteca. Ma quando il C. raccolse tale lascito, quelle sigle si applicavano ad una realtà ben misera. Disperso o nel più completo disordine il patrimonio di libri e di collezioni, da tempo non aggiornato; episodiche e irrilevanti le sedute accademiche; sospesi i corsi; pressoché inoperose le officine. Pochi anni dopo, nonostante la crescente sordità governativa, tutto era mutato, grazie all'energia e alla passione con cui il C. si mise all'opera, cosicché l'istituto poteva ben dirsi una delle realizzazioni più ricche e organiche esistenti in Italia in questo campo.
Al tramonto del granducato, infatti, il suo museo vantava "più di sedicimila esemplari di prodotti" organici e inorganici, greggi e lavorati, di macchine e strumenti, sul modello del Kensington Museum londinese; i laboratori dì chimica e di fisica erano dotati di numerosi e moderni apparecchi; l'officina meccanica lavorava a pieno ritmo, con macchinari importati dalla Francia e dall'Inghilterra, dal Baden e dall'Olanda; la biblioteca possedeva circa 2.200 volumi specializzati, dì cui molti stranieri; la scuola, aperta al pubblico nel 1857 dopo infinite tergiversazioni delle autorità, presentava una articolata gamma di insegnamenti impartiti da professori e tecnici che erano quanto di meglio poteva offrire la Toscana del tempo (e non solo essa, visto che una delle cattedre più importanti, quella di fisica, fu affidata a G. Govi, fino ad allora docente del Conservatoire parigino). Quanto all'Accademia, nonostante la flessione degli ultimi anni, la puntualità delle sue sedute mensili, la pubblicazione, a partire dal 1853, degli Atti, la tela di rapporti istituita con analoghi consessi italiani e stranieri, l'immissione di numerosi nuovi membri fecero sì che le informazioni e le discussioni sui ritrovati della scienza e della tecnica, che in tale sede avevano luogo, risultassero più tempestive e incisive, e che nel complesso essa acquistasse un certo credito, accresciuto dall'adesione di personalità di spicco sul piano nazionale e internazionale quali Poncelet, Babbage e Stephenson, Ch. Dupin ed A. Morin, Raffaello Piria e Michele Tenore.
L'impegno con cui il C. si dette a preparare le mostre di prodotti naturali e industriali del 1850 e del 1854 in vista degli appuntamenti di Londra e di Parigi, dove si recò in veste di rappresentante ufficiale del granducato, sembra confermare che egli, soprattutto nei primi anni, sperò di poter fare della istituzione a lui affidata un polo promozionale per le attività non agricole della Toscana: del resto ancora nella lapide scoperta al momento della inaugurazione dei corsi dell'istituto si accennava allo sviluppo della cultura tecnologica come ad un fattore determinante per dare impulso alle manifatture, "sostitutivo" della protezione doganale.
Fra l'altro, fu in seguito alle sue insistenze che nell'estate del 1850 si promosse e realizzò una vasta indagine volta a redigere una "statistica industriale" che - oltre a fornire le notizie necessarie a preparare una mostra meno lacunosa, rappresentativa non delle punte alte, ma del tessuto complessivo dell'economia toscana - contribuisse a risvegliare l'interesse per attività tradizionalmente considerate marginali: di qui la cura che venne posta nella pubblicazione dei Cataloghi e dei Rapporti generali (per cui poté valersi dell'aiuto di Filippo Mariotti e Zanobi Bicchierai), densi di notizie e di squarci su una Toscana ignota ai più, e l'insistenza affinché il granduca istituisse una "decorazione al merito industriale" (1851) come incentivo alla poco dinamica imprenditoria del paese.
In effetti, l'esposizione del 1850 costituì, a detta dei contemporanei, una sorta di "inattesa rivelazione", anche se il confronto internazionale avrebbe, di lì a poco, ridimensionato in modo drastico la positiva impressione ricevuta; solo il deserto del padiglione italiano (assenti Napoli, Modena e Parma; inglobato nell'impero asburgico il Lombardo-Veneto) fece apparire meno evanescente il bagaglio dei 120 espositori toscani, secondo un copione che si sarebbe ripetuto nel 1855 a Parigi. Nell'un caso come nell'altro, comunque, il C. cercò di valorizzare al massimo, come membro del giurì, la presenza del granducato e i suoi prodotti, strinse nuovi e importanti rapporti (di particolare rilievo la collaborazione del 1855 con gli inviati piemontesi), fece conoscere l'istituto da lui diretto ed ottenne per esso ricche donazioni, si interessò alle esperienze in atto nei diversi paesi per promuovere la conoscenza tecnico-scientifica e l'istruzione professionale, visitando, fra l'altro, la scuola per artigiani P.M. de La Martinière a Lione, ammirata nella primavera del 1856 anche da Ridolfi, e assunta a modello di una analoga iniziativa toscana, mai giunta in porto.
L'impressione è che il 1855 - anno in cui il C. fu anche incaricato di rappresentare la Toscana al II congresso internazionale di statistica - segni l'acme della sua fortuna. Con gli anni il suo isolamento all'interno del granducato si era venuto accentuando, anche a causa del suo carattere spigoloso e rigido, chiuso e autoritario. Tenuto a distanza per il suo lealismo (che anche negli anni '60 egli rivendicherà come obbligo di ogni funzionario statale) da quanti consideravano suicida la politica di Leopoldo II; guardato con ostilità e fastidio per le sue simpatie industrialiste da una classe dirigente decisa nella sua stragrande maggioranza a opporsi fermamente a simili prospettive; poco accetto anche agli ambienti granduchisti come persona imprevedibile e malfida, e a quelli clericali per il marcato laicismo che fu una costante di tutta la sua vita, il C. non seppe né legarsi a forze sociali e correnti d'opinione già consolidate, né farsi portavoce autorevole delle istanze fautrici di uno sviluppo industriale, del resto nettamente minoritarie e tutt'altro che omogenee al loro interno.
Questo, comunque, era il mondo in cui il C. era immerso anche per ragioni familiari. Il fratello Gustavo (1812-67), l'unico di cui si hanno notizie, partendo da una piccola fabbrica di chinino e prodotti chimici, era riuscito a costituire una robusta società per azioni per la produzione di olii industriali, e poi a impiantare nei pressi di Livorno una grossa e moderna industria a ciclo integrato agricolo-manufatturiero (del tutto anomala per la Toscana) che negli anni '60 dava lavoro a più di 1.200 persone e su cui si fondarono le fortune economiche della famiglia, una delle più ricche e potenti della città: una posizione che il matrimonio di una figlia di Gustavo con Battista Donegani avrebbe ulteriormente rafforzato.
L'unica figlia del C., Giulietta, aveva sposato Orazio Hall, parente dei Fenzi ed erede di uno dei più ricchi appaltatori toscani nel settore del ferro, Sebastian Kleiber, grande azionista in tutte le maggiori imprese ferroviarie ed estrattive dell'epoca (dalla linea Leopolda alle miniere di Montecatini Valdicecina), proprietario, con F. Sloane, della maggiore fonderia toscana di rame, quella della Briglia presso Prato, e presidente per molti anni della Camera di commercio di Firenze.
Non a caso nessuno prese le difese del C. quando, nell'aprile del 1856, lo raggiunse "l'infame accusa" (e tale era realmente in Toscana) di aver fatto da tramite per l'acquisto in Francia di una macchina da ghigliottina, resa necessaria dalla reintroduzione della pena di morte (1853); e d'altra parte egli non seppe neppure scegliere, contro le autorità che si erano trincerate nel più assoluto silenzio, la via della protesta aperta, come gli aveva suggerito Ridolfi, l'unico fra i "capi" del moderaismo toscano che in quegli anni mantenesse con lui rapporti abbastanza continui.
La rivoluzione del 1859 lo vide ancora una volta, assente. Ma se in un primo momento il C. poté credere di esser passato indenne attraverso eventi di tale portata, nel dicembre di quell'anno le pressioni congiunte di Ricasoli e di Ridolfi lo costrinsero a chiedere di esser sollevato da ogni incarico: una ingiunzione a cui non seppe mai rassegnarsi, e di cui non comprese mai le ragioni, anche perché nei mesi precedenti nulla sembrava far prevedere tale eventualità, per quanto le critiche da lui rivolte ai decreti Ridolfi del novembre - che adombravano già il ridimensionamento dell'istituto tecnico in favore del costituendo Istituto di studi superiori pratici e di perfezionamento (22 dic. 1859) - avessero reso più tesi i rapporti con il neoministro.
A tutt'oggi non è facile capire il perché di quell'allontanamento, vista la tolleranza usata in genere dal governo provvisorio toscano verso i funzionari del passato regime. Nessun documento a carico del C. fu trovato negli archivi granducali, e d'altronde i motivi volta a volta addotti per giustificare quell'atto (il discredito per la mai chiarita questione della ghigliottina; le voci di irregolarità amministrative; l'ostilità di alcuni dipendenti dell'istituto) appaiono francamente pretestuosi, visto che i ministri avevano in mano tutti i riscontri documentari per dimostrare la falsità degli addebiti mossi al C., per quanto si aspettasse più di due anni a darne comunicazione ufficiale. Né l'insofferenza di alcuni sottoposti può essere sufficiente a spiegare una scelta tanto drastica e destinata a rivelarsi definitiva, nonostante il C. continuasse a lungo a sperare il contrario, dedicandosi con una puntigliosità quasi ossessiva a raccogliere prove e testimonianze che lo scagionassero dalle vaghe accuse mossegli e a valorizzare i risultati del suo decennale, infaticabile impegno in favore dell'istituto, che non a torto egli considerava quasi una sua creatura (L'Istituto tecnico toscano: opuscoli storici e scientifici, Firenze 1860; La Ghigliottina in Toscana, chi la volle? chi la comprò? chi l'accolse? Lo sappiano tutti, ibid. 1863; Ricordi di fatti contemporanei concernenti un ministro libero nel nuocere, legato nell'amministrazione della giustizia, ibid. 1864).
Certo è che il C. non condivideva nessuno dei punti cardine dell'ideologia e del programma dei moderati allora giunti al potere, dimostrandosi del tutto refrattario a quell'opera di lenta assimilazione che era all'origine della loro salda egemonia sulla società toscana. Lo si vide ancora una volta nel 1862, quando, intervenendo nel dibattito suscitato dal progetto di legge Matteucci sull'insegnamento superiore, avanzò proposte che andavano in un senso opposto a quello per cui la "consorteria toscana", fedele al dogma della libertà d'insegnamento, aveva mosso guerra al ministro della Pubblica Istruzione. A parere del C., infatti, la "piena libertà" era un principio incompatibile col servizio pubblico, e comunque un obiettivo a cui tendere senza astrattezze e senza apriorismi, non un canone da applicare nell'immediato, in questo come in altri campi: ed esemplificava tale convincimento attaccando un altro "mostro sacro" dei Toscani, il liberismo economico, ammissibile, egli diceva, solo allorché le industrie nazionali fossero abbastanza solide da poter reggere alla concorrenza estera. Su queste basi non stupisce che il C., nonostante le sue chiusure municipaliste, che lo spingeranno a legarsi a numerosi "cruscanti", difensori a oltranza della purezza della lingua e del primato toscani, dimostrasse tanta simpatia per uomini e ambienti del vecchio Piemonte (da I. Giulio ad A. ed E. Sismonda, da Sobrero a Cibrario), altrettanto chiusi nel loro mondo sabaudo, ma cultori di un austero "senso dello Stato".
Proprietario fin dal 1860 - prima con altri e poi da solo - della tipografia delle Murate (che, tempestivamente ammodernata nel 1865, poté sfruttare appieno l'alta congiuntura apertasi col trasferimento della capitale a Firenze), il C. si dedicò in modo sempre più esclusivo, col passare degli anni, a questa nuova attività, mettendo a frutto le conoscenze acquisite nella intensa frequentazione degli stabilimenti tipografici da cui erano uscite gran parte delle opere da lui scritte o curate (Nistri e Capurro a Pisa, Piatti, Tofani, Ricordi e la Stamperia sulle logge del grano a Firenze), e saggiando anche la strada dell'editoria.
Dopo qualche tentativo, sostanzialmente fallito, di conquistarsi uno spazio nel settore dello scolastico, dei testi universitari di argomento medico e scientifico e della stampa periodica "pedagogizzante" (con La Vita civile. Repertorio di narrazioni, memorie e notizie, pubblicato fra il 1862 e il 1864 e rivolto a o madri di famiglia, maestri di scuola, direttori di istituti d'istruzione, collegi, licei e scuole normali"), il C. spostò i suoi interessi verso una editoria di élite, molto accurata sia dal punto di vista grafico sia nella preparazione dei testi, per cui Firenze costituiva una sede ideale, e che lo portò a intensificare i suoi rapporti con archivisti e bibliotecari, eruditi e antiquari, filologi e pedanti, a cui lo accomunava forse quel gusto per il corredo documentario e per il collezionismo già emerso negli anni in cui aveva diretto l'istituto tecnico.
I suoi referenti privilegiati divennero così, soprattutto a partire dagli ultimi anni '60, P. Fanfani e F. Bonaini, F. Palermo e G. Milanesi, L. Passerini e G. Rigutini, con alcuni dei quali organizzò anche, nel 1872, una sorta di società di autori-editori da cui nacquero i sei volumi delle Opere di Nicolò Machiavelli (1873-77) riviste sugli originali e puntualmente annotate, sulla base di un vasto materiale d'archivio, da Fanfani, Passerini e Milanesi, la Bibliobiografia di Fanfani (1874), e il Dizionario della lingua parlata di Rigutini e Fanfani (1874).
Da quella scelta, inoltre, erano nate anche La Tipografia italiana (1868) e L'Arte della stampa (1869), dirette da Salvatore Landi, già da qualche anno in forze nella tipografia delle Murate, che proprio allora assunse il nome di Cenniniana in onore del primo illustre stampatore fiorentino, e che dal 1874 si sarebbe arricchita di una succursale romana, seguendo l'esempio di molte consorelle, emigrate nella nuova capitale al seguito dei loro principali committenti, che nel caso della Cenniniana si identificavano con la Direzione di statistica e delle Case di pena del Regno, con la Banca nazionale e le Ferrovie romane: società e istituti dietro i quali è facile intravedere un mondo di relazioni interfamiliari e di interessi d'antica data.
Negli ultimi anni l'insofferenza per l'ambiente fiorentino e la necessità di seguire da vicino l'andamento della nuova tipografia in rapida crescita spinsero il C. a lunghi soggiorni a Roma, dove morì, ancora nel pieno delle forze, il 2 genn. 1877.
Oltre alle opere già citate si segnalano: Dori Vincenzo. Trattenimenti sui principali fenomeni del cielo ad istruzione dei fanciulli e del popolo (Pisa 1842), Principi di algebra (Firenze 1843), Scuola materna (Firenze 1845), Principi di disegno lineare (Firenze 1849), Lode del prof. Gio. Pieraccioli (Prato 1843), Elogio di Giuseppe Pianigiani e Relazione della Commissione incaricata di studiare e proporre i mezzi opportuni a promuovere il concorso della Toscana alla grande Esposizione inglese dei prodotti dell'industria, in Atti dell'Accademia dei Georgofili, XXVIII (1850); Relazione del cav. prof. F. C. commissario per la Toscana all'Esposizione Universale di Londra intorno agli oggetti toscani inviati all'Esposizione medesima, in A. Zobi, Storia civile del Granducato di Toscana dal 1737 al 1848, IV, Appendice (Firenze 1852, pp. 303-28); De l'enseignement supérieur en Italie, à propos du projet de loi de M. le senateur C. Matteucci e Considerazioni intorno al confronto ragionato di alcuni ordinamenti di pubbliche scuole ideati in Firenze e di quelli ammessi dall'onorevole Commissione del Senato rispetto alle proposte del senatore Carlo Matteucci disteso dal cav. prof. M. Bufalini (Firenze 1862). Numerosi discorsi e memorie del C. sono contenute negli Atti dell'Accademia di arti e manifatture, 1853-1859. Da ricordare infine l'Annuario dell'Istituto tecnico toscano per il 1857, che ricostruisce nascita e struttura di tale istituzione, oltre a riportare i discorsi inaugurali per l'apertura delle scuole, fra cui quello del Corridi.
Fonti e Bibl.: La figura del C. non è mai stata oggetto di studio; al di là dei pochi cenni contenuti soprattutto in opere concernenti i congressi degli scienziati e della rapida biografia tracciata da F. Pera, Nuove biografie livornesi, Livorno 1895 (rist. anast. 1972), pp. 52-60, l'unico scritto di rilievo è l'ampia commem. firmata dal direttore della Cenniniana, F. Angioli, Notizie sulla vita e sulle opere di F. C., Firenze 1878, che riporta anche i necrologi apparsi su giornali e riviste. Di scarso interesse M. Battistini, F. C. nel Belgio e un suo ritratto, in Boll. stor. livornese, IV (1940), 1, pp. 63-66. Anche le carte del C. sono andate disperse. Un certo numero di lettere del C. sono comunque conservate alla Biblioteca nazionale di Firenze e alla Biblioteca comunale di Livorno. Utili per ricostruire l'apporto del C. all'organizzazione delle mostre di prodotti toscani e alla fondazione e organizzazione dell'istituto tecnico, e alle vicende relative al suo "licenziamento" sono i fondi dell'Archivio di Stato di Firenze. Ma su questi punti un apporto fondamentale è dato dal ricco apparato documentario di cui sono corredati gli opuscoli del C. a cui si è fatto riferimento nel testo.