Vedi FIDIA dell'anno: 1960 - 1994
FIDIA (Φειδίας, Phidias)
Scultore ateniese, figlio di Carmide, fratello (Plin., Nat. hist., xxxv, 54 e xxxvi, 177) o zio (Strabo, viii, 354) del pittore Panainos. Ebbe come maestro Hegias (Dio Chrys., Or., lv, 1, p. 282) o, secondo altre fonti meno attendibili (Suda, s. v. Geladas; Tzetz., vii, 929; viii, 325), Hageladas argivo. Plinio dice che in gioventù F. esercitò la pittura con Panainos. Sappiamo che le fonti cronografiche ponevano la sua acmè nella 83a Olimpiade 448 a. C. (Plin., xxxiv, 49). Platone (Protag., 311 c) ricorda F. ancora attivo ad Atene nel 433, ma proprio in questo tempo (433-432), egli subì un processo sotto l'accusa di furto dell'oro e avorio destinati alla statua della Atena Parthènos, e poi di empietà (asèbeia) per aver raffigurato se stesso sullo scudo della dea. Si hanno due versioni della sua fine, una che lo dice morto in carcere ad Atene stessa (Plut., Perikles, 31), l'altra che lo dice fuggito in Elide (Schol. Arist., Pax, 6o5); comunque la sua morte va posta certo non molto dopo il processo. La notizia di Plutarco che F. si era effigiato come un vecchio calvo sullo scudo di Atena non costituisce un sicuro elemento biografico perché frutto forse di tarde interpretazioni. Comunque possiamo porre la nascita di F. intorno al primo decennio del V sec., e le molte opere di cui parlano le fonti testimoniano una lunga attività che si svolse in varie città della Grecia: Pellene, Tebe, Platea, Olimpia e soprattutto Atene, dove specialmente dal 447 in poi concentrò la sua attività, divenendo l'amico e consigliere di Pericle, l'interprete dei suoi ideali politici ed estetici, seguendone le sorti, tanto che il processo è messo in relazione anche con lo scoppio della guerra del Peloponneso, che Pericle avrebbe scatenato per soffocare con questo avvenimento bellico lo scandalo e le dicerie dell'ambiente ateniese.
La data dell'inizio dei lavori del Partenone (447), di cui F. fu il dirigente sommo, può costituire un elemento cronologico per distinguere due fasi nella carriera artistica del maestro; ma se la critica archeologica è riuscita ad identificare copie di alcune delle opere ricordate nelle fonti, si può solo darne una cronologia relativa in base ai dati stilistici e storici che abbiamo.
F. si formò alla scuola dei maestri dello stile severo e fra le prime sue opere si può forse porre l'Atena crisoelefantina eseguita per Pellene in Acaia, forse la prima formulazione di questo soggetto, che sarà uno dei più cari al maestro, come la Madonna per un Raffaello. Pausania (vii, 27,2) dice infatti questa statua di Atena anteriore a quella dell'Acropoli, cioè la Pròmachos, e a quella Areia di Platea e, se si vuol vederne una riproduzione schematica su monete romane di Pellene, essa sembrerebbe infatti di tipo piuttosto antico, riecheggiante l'arcaico Palladio.
Sull'Acropoli vicino al Partenone Pausania (i, 24, 8) ricorda una statua bronzea di Apollo, detto Parnòpios, perché il simulacro era stato innalzato a ricordo della protezione del dio da un ‛invasione di cavallette (πάρνοπες); era, secondo Pausania, opera di F. e sembra molto convincente l'identificazione, accettata dai più, con un tipo, famoso nel mondo antico perché conservato in 21 copie, detto, da quella principale, Apollo di Kassel (v. apollo). L'arco, che si deve pensare tenuto nella destra abbassata, e il ramoscello purificatore d'alloro nella sinistra protesa, ben converrebbero al dio allontanatore del male. È una creazione di alto livello artistico, di un geniale temperamento, che, se pure gravitante ancora nello stile severo, sensibile soprattutto nei capelli, se ne distacca originalmente nel ritmo avanzante, nel dinamismo spaziale, nel delicato colorismo del nudo, tipicamente attico. L'originale potrebbe datarsi intorno al 460-455. Ragioni stilistiche hanno fatto propendere ad attribuire a F. il tipo dell'Anacreonte (v.), detto Borghese dalla statua proveniente da quella raccolta e oggi a Copenaghen, e di cui si hanno 5 copie della testa testimonianti la fama dell'originale, probabilmente il bronzo visto da Pausania (1, 25, 1) vicino al Partenone, accanto al ritratto di Santippo, padre di Pericle, e che dice "in atto di cantare come nell'ebbrezza" senza nominarne l'autore. Ma strette somiglianze tipologiche con la figura del cosiddetto Capaneo (v.) dello scudo della Parthènos, confronti stilistici, per ritmo e nudo, con l'Apollo di Kassel, indurrebbero ad attribuirlo all'attività di F. tra il 460 e il 455.
Forse queste opere innalzate sull'Acropoli contribuirono a creare la fama del giovane maestro, al quale venne affidato l'importante compito di fondere il grandioso simulacro bronzeo di Atena Pròmachos, votato dalla pòlis come aristèion delle guerre persiane, con la decima del bottino di Maratona (Paus., i, 28, 2; Demosth., De falsa leg., p. 428). Era di grandiose dimensioni e si diceva retoricamente che il luccichio della lancia e del lòphos si scorgesse doppiando il Capo Sunio. Rimangono resti della base (m 5,25 di lato, forse alta circa 1,5o) a sinistra della via tra i Propilei e il Partenone. Il simulacro si può calcolare fosse alto circa m 7, e sono da escludere le ricostruzioni di m 15-16 proposte. Alla Pròmachos sono stati riferiti i frammenti di un iscrizione con rendiconti di spese per acquisto di legna, carbone, argento, rame, stagno, registrate per nove anni, probabilmente tra il 460 e il 450 (I.G.,2 i, 338; Meritt, in Hesperia, v, 362), e un'iscrizione dedicatoria.
Con una simile datazione parrebbe contrastare la notizia che la centauromachia decorante in rilievo lo scudo era stata eseguita dal toreuta Mys su cartone di Parrasio (Athen., ii, 782 B), ma la cronologia del pittore non è molto precisa e non si potrebbe escluderne un'attivita intorno al 450, oppure dovremmo ammettere che la decorazione venisse eseguita in un secondo tempo.
Si voglion vedere copie della Pròmachos su monete ateniesi imperiali con veduta dell'Acropoli, in cui appare una statua con peplo, gamba sinistra leggermente flessa, con una Nike nella mano destra protesa; rimane incerta la posizione dello scudo, se a terra o imbracciato. Il busto comparirebbe anche su tondi di lucerna, con elmo corinzio e lancia obliqua. Si è pensato, in base alla descrizione di Acominato Niceta Coniate (p. 738-740, Bonn) che parla di un'Atena alta 30 piedi e distrutta dal furore popolare nel 1203 dopo l'assedio dei Crociati, che fosse stata trasportata nel Foro di Costantinopoli, ma il riferimento alla Pròmachos pare dubbio.
A Delfi Pausania (x, 10, 1) descrive, attribuendolo a F., un donario dedicato, al principio della via Sacra, dagli Ateniesi con la decima di Maratona; il vincitore della battaglia, Milziade, era raffigurato tra Atena e Apollo e seguito dagli eroi eponimi delle tribù. Alcuni hanno datato il gruppo tra il 470 e il 460, ma esso sembrerebbe inquadrarsi nella politica antipersiana di Cimone e nel suo desiderio di onorare il padre Milziade; bisognerebbe pertanto pensare a un periodo o anteriore all'ostracismo del 461 o posteriore al suo richiamo ad Atene del 452. In esso comunque F. affronta il tema della celebrazione degli eroi mitici attici come Eretteo, Cecrope, Pandione, di cui narrerà più tardi le leggende nella decorazione partenonica, oltre al ritratto di un uomo, Milziade, che dobbiamo immaginare ancora scevro di elementi fisionomici.
A F., di cui si ammirava già sull'Acropoli la grande Atena Pròmachos, si rivolsero intorno al 450 i cleruchi Ateniesi che andavano a colonizzare Lemno per commettergli una statua bronzea di Atena, che fu detta Lèmnia (Paus., i, 28, 2). Luciano (Imag., 4) ne esalta la bellezza della linea di contorno di tutto il viso, la simmetria del naso, e probabilmente alla Lèmnia si riferisce un passo di Imerio (Or., 21, 4) dove è detto che F. non rappresentò sempre Atena con le armi, ma "ornò la vergine diffondendole un rossore per le guance affinché sotto questo e non sotto l'elmo si celasse la bellezza della dea", e forse anche un passo di Plinio (Nat. hist., xxxiv, 54) celebrante un'Atena fidiaca di esimia bellezza. Queste fonti che indicano un'Atena senz'elmo rendono molto suggestiva l'identificazione, proposta da A. Furtwängler, con un tipo da lui ricostruito attraverso un torso di Dresda e la bella testa Palagi del museo di Bologna. Altra copia del torso è a Dresda, e della testa a Oxford; il tipo è imitato nella Cariatide con testa non pertinente, a Villa Albani, ed è riprodotto in gemme. Atena veste il peplo cinto, tiene l'elmo nella destra protesa di lato, e la lancia, come uno scettro, nella sinistra scartata, con egida obliqua, con il volto giovanile, dalla chioma raccolta, reclinato leggermente. La creazione, che accentua il carattere pacifico della dea, ha grande armonia ritmica e compositiva, una intima semplicità di intonazione e di linea, una elegante chiarezza e purezza di forme e ben si attribuirebbe allo stesso artista dell'Apollo di Kassel in un momento più maturo.
Per l'attività di questi anni intorno al 450 che precedono i lavori del Partenone, sorge il problema se vi si debba inquadrare il soggiorno di F. ad Olimpia per la creazione del grande simulacro crisoelefantino dello Zeus o se questo debba spostarsi al periodo posteriore alla Parthènos, inaugurata nel 438, e, come vogliono alcuni critici, dopo il processo del 433-432 e la supposta fuga in Elide. I pareri sono discordi e vi sono partigiani di ambedue le tesi cronologiche, chiamando ugualmente a sostegno dati storici e stilistici.
Plutarco (Per., 31), Diodoro (xii, 39) e lo Pseudo-Aristodemo (xvi, 1) riportano tutti la versione dell'imprigionamento di F. e della sua morte in Atene, mentre Filocoro (Schol. Aristoph., Pax, 605) parla della fuga in Elide, dove F. sarebbe stato accolto dagli Elei e dove sarebbe morto. Coloro che datano lo Zeus dopo la Parthènos insistono sull'iscrizione sul dito dello Zeus con il nome di Pantarkes, un efebo amato da F. (Clem. Alex., Protrept., 53) che, essendo stato vincitore ad Olimpia nel 436, presupporrebbe un'attività di F. nel santuario in questi anni. Inoltre si ricordano gli onori tributati ai discendenti di F. in Elide (Paus., v, 14, 4), la guerra tra Sparta e gli alleati contro Atene, che si conclude nel 451; infine si sottolineano alcuni elementi stilistici, come il carattere partenonico maturo del fregio dei Niobidi decorante il trono e, secondo E. Kunze, anche delle matrici fittili per le parti auree dello Zeus, rinvenute nell'ergastèrion di Olimpia e tuttora medite. Lo strato di scarico che ha restituito queste matrici si daterebbe per i frammenti ceramici nell'ultimo ventennio del V sec. e il deposito sarebbe stato fatto quando lo Zeus era terminato. Si possono notare, per contro, il carattere aneddotico e la redazione tarda e incerta della leggenda dell'iscrizione di Pantarkes, riferita da altre fonti anche alla Parthènos e all'Afrodite Urània di Elide; inoltre le guerre possono aver ritardato la commissione dell'àgalma del tempio, finito da Libon intorno al 455, e non escluderebbero una chiamata di E. a Olimpia intorno al 451; così come gli onori ai discendenti non presuppongono necessariamente la fuga e lo stabilirsi della famiglia dell'artista in Elide.
Non è da trascurare che Plinio pone l'acmè di F. nel 448 e questa data sarebbe verisimile che si riferisse alla creazione dello Zeus, una delle sette meraviglie del mondo e giudicata da tutte le fonti antiche il capolavoro del maestro, l'opera inimitabile e insuperata (Hygin., Fab., 223; Plin., Nat. hist., xxxvi, 18; Dio Chrys., Or., xii; Plut., Sulla, 17; Cic., Orat., ii, 8; Propert., iv, 9, 15; Quint., Inst., xii, 10, 9), per la quale egli si sarebbe ispirato allo Zeus di Omero (Polyb., xxx, 15; Plut., Aem. Paul., 28). Le sproporzioni tra colosso e cella, notate già dagli antichi, fra cui Strabone (viii, 353), che dice che si aveva l'impressione che se il colosso si fosse alzato avrebbe sfondato il tetto, potrebbero far pensare a un periodo anteriore all'esperienza della Parthènos, piuttosto che posteriore, e mal si giustificano dicendole derivate dal desiderio di far lo Zeus grande quanto la Parthènos. Dal vi giambo di Callimaco abbiamo le misure del simulacro (altezza m 12,375, più forse m 1 di base, mentre il tetto doveva essere alto circa m 14,330). F. ebbe come aiuti Panainos (συνεργολάβος) e Kolotes (adiutor), oltre, certamente, a varî technìtai riuniti in un'officina del luogo, che si è riconosciuta nell'ambiente rettangolare a O del tempio, trasformato poi in chiesa bizantina. Il trono era riccamente decorato, come descrive Pausania (v, ii, 1-10), in oro, avorio, ebano, pietre preziose; sulla spalliera erano tre Canti e tre Horai, nei braccioli Sfingi con fanciulli tebani, sui fianchi laterali del sedile rilievi con la strage dei Niobidi; sulle gambe del trono Nikai danzanti; sulle sbarre, tra le gambe, in quella anteriore 7 statuette di atleti, una di queste somigliante a Pantarkes; sulle altre sbarre era raffigurata l'amazzonomachia di Eracle; le barriere fra le gambe del trono erano dipinte con varî soggetti mitologici da Panainos; il suppedaneo aveva leoni d'oro e in rilievo l'amazzonomachia di Teseo; sulla base era la nascita di Afrodite, accolta da Eros e coronata da Peitho, con varie divinità fra Elio e Selene. Il dio, seduto, coronato di ulivo, era coperto di mantello gigliato; aveva ai piedi calzari d'oro; una Nike nella mano destra, scettro sormontato dall'aquila nella sinistra. Gli scavi recenti nel luogo dell'ergastérion hanno messo in luce oltre alle matrici fittili per le parti auree del simulacro e ai resti della decorazione a gigli in paste vitree del manto, anche un vaso frammentato di fabbrica locale con l'iscrizione graffita sotto il piede ΦΕΙΔΙΟ ΕΙΜΙ (sono di Fidia), che verrebbe così a dare la piena conferma del riconoscimento dell'ergastèrion fidiaco in modo davvero insperato. Del colosso (ζόανον ἐλεϕάντινον), scomparso, si sono identificate riproduzioni su monete di Elide, che dànno sia l'intiero simulacro, sia la sola testa, di cui si sono ricercate copie in una testa di Cirene del II sec. d. C. e riflessi lontani in una testina fittile etrusca del Museo di Villa Giulia a Roma (da Falerii), in gemme, come una dell'Ermitage, una da Amisos, ora a Berlino. Si è fatta anche l'ipotesi, considerando classicheggianti i riccioli che l'immagine mostra sul collo, che le monete dell'Elide, che sono adrianee, riproducano non lo Zeus di Olimpia, ma quello eseguito sotto Adriano per l'Olympieion di Atene. La Nike sulla mano è stata ricercata dallo Schrader in un tipo di Berlino e Parigi in volo discendente, che lo Schweitzer non ritiene fidiaco e giudica di carattere tettonico. Il gruppo della Sfinge che afferra l'efebo tebano è stato ricomposto accuratamente da frammenti di una copia da Efeso ad opera dell'Eichler; la Sfinge ha il petto femmineo e il giovane un'acconciatura a piccole ciocche aderenti che trova confronti con efebi dell'amazzonomachia dello scudo della Parthènos. Il fregio dei Niobidi ci è noto da copie neo-attiche (Ermitage, Villa Albani, Palazzo Bevilacqua a Bologna, Collezione Milani di Firenze, Antiquarium di Pozzuoli e disco marmoreo di Londra), ma nessuno di questi rilievi ci dà la composizione originaria dei due settori del fregio, la cui ricostruzione è stata molto discussa dagli archeològi con diverse soluzioni. Sembra sicuro che Apollo e Artemide aprissero le due scene alle due estremità comprendenti ciascuna sei Niobidi e, quanto ai gruppi patetici del fanciullo e della fanciulla morenti fra le braccia delle sorelle, sembra più probabile la collocazione al centro della composizione, piuttosto che all'altra estremità. Della scena con la nascita di Afrodite non abbiamo copie, ma forse qualche eco in vasi dipinti, come una pyxis da Numana, nel museo di Ancona.
La cura del simulacro era affidata ai Phaidyntai, che si consideravano discendenti di F.; nel II sec. a. C. Damophon di Messene (v.) eseguì riparazioni alla statua (Paus., iv, 31, 6). Luciano (Iupp. trag., 25; Icarom., 4) ricorda il furto di due riccioli d'oro dello Zeus ciascuno del peso di 6 mine. Sotto Cesare la statua sarebbe stata colpita dal fulmine (Euseb., Praep. ev., iv, 2, 8). Caligola nel 40 d. C. dette al legato Memmio Regulo l'incarico di trasportare il simulacro a Roma, impresa che ragioni tecniche e religiose resero impossibile. Libanio (Epist., 1342) ci dà l'ultimo ricordo, nel 363 d. C., della statua, che forse fu distrutta nell'incendio appiccato al tempio nel 426 in seguito all'editto di Teodosio II, mentre, secondo una notizia di Cedreno (Comp. hist., p. 322 B, 348 A), era già stata trasportata a Costantinopoli dove poi sarebbe stata distrutta nell'incendio del 476.
È molto probabile che a questo soggiorno ad Olimpia per i lavori dello Zeus risalga la statua di Anadoùmenos ricordata da Pausania (vi, 4, 5) nell'Altis e che si è voluto riconoscere nel tipo Farnese, che infatti potrebbe ascriversi a un maestro che avesse fatto l'Anacreonte, e trova confronti con efebi del fregio O del Partenone e con i Niobidi del trono. Il ritmo raccolto, il nudo delicato ne fanno un'opera attica intorno al 450 e lo differenziano profondamente dal più recente Diadoùmenos di Policleto. Pausania (vi, 10, 6) ricorda altresì nell'Altis una statua di Pantarkes, il fanciullo amato da F., e, pur se non è nominato l'autore, è verisimile che questa fosse opera di F. e potremmo pensare che egli l'avesse eseguita più tardi, in occasione della vittoria del 436 del fanciullo. Durante il soggiorno ad Olimpia possiamo forse porre la statua dell'Afrodite Urània crisoelefantina per il tempio di Elide (Paus., vi, 25, 1), tema che F. riprenderà per il simulacro in marmo pario nel tempio di Melite in Atene costruito sotto Pericle (Paus., i, 14, 7). Sappiamo che la statua di Elide aveva il piede poggiato su una tartaruga e conosciamo questo tipo da statuette ellenistiche e da una statua acefala già Grimani, dei Musei di Berlino, con chitone trasparente, di fine modellato, giudicata dai più originale della fine del V sec. a. C. e che va certamente riportata all'ambiente stilistico partenonico, trovando strette somiglianze con le statue del frontone orientale. Potrebbe darci allora il tipo del simulacro di Melite. Difficile è precisare il periodo a cui risale la creazione dell'acrolito di Atena Arèia eseguito da F. per il tempio di Platea, che Pausania (ix, 4, 1) dice elevato con il bottino di Maratona, e Plutarco (Arist., 20) con il bottino di Platea (479), dipinto da Polignoto ed Onasias. È probabile che si debba scendere a un periodo posteriore alla pace di Callia (448), e al congresso panellenico, a cui Atene invita tutti i Greci per discutere il restauro dei templi distrutti dai Persiani.
Il Thiersch ha voluto identificare l'Atena Arèia nel famoso torso Medici al Louvre, che l'Amelung aveva completato con una testa nota in più copie (museo Naz. Romano, di Vienna, British Museum, di Efeso, di Atene dalla Pnice, di Salonicco, del Vaticano) mentre del corpo si hanno due repliche a Siviglia e frammenti da Salonicco. Veste il peplo sovrapposto a un chitone sottile, visibile sulla gamba destra fiessa, e il panneggio è di stile partenonico. Il tipo compare su monete ateniesi ma in alcune ha la patera nella mano destra abbassata, la lancia e lo scudo a sinistra; in altre ha la lancia nella destra abbassata e lo scudo a sinistra. È molto probabile che questo tipo fosse adoperato in periodo imperiale per biblioteche pubbliche, ma lo stile si direbbe partenonico e, mentre sembra da escludere l'identificazione con l'Atena Arèia, rimane incerta l'attribuzione a Fidia.
Nel 447 per F. si inizia quell'intenso periodo di attività sull'Acropoli per tradurre in atto i programmi di Pericle, che rivive nelle pagine di Plutarco (Per., 31) descriventi il fervore che animava tutti i rami del grande cantiere di lavori, che procedevano ammirevoli per la grandiosità della mole, immitabili per bellezza e grazia, in prodigiosa celerità. Opere compiute in breve, ma per lungo tempo; classiche nella loro bellezza e sempre nuove come in fiore, di aspetto non tocco dal tempo, come spirito sempre vivo e anima immortale infusa in essi. Tutto diresse F. e tutto sorvegliò, dice Plutarco. Gli architetti furono Kallikrates e Iktinos (v. atene, vol. i, p. 795 ss.).
Di fronte alla distruzione di tutti gli originali del maestro è problema particolarmente importante il cercare di definire se e quanto i marmi partenonici possano riflettere l'arte fidiaca e la mano, il tocco del maestro. Tale problema, meno sentito nell'8oo, quando sulla scia del Furtwängler si cercava di ricostruire la personalità degli scultori greci dalle copie romane, è divenuto sempre più appassionante e dibattuto in questi ultimi anni, culminando soprattutto negli studî di B. Schweitzer. In base ai risultati della critica e dell'analisi stilistica si può concludere che F. deve aver concepito e disegnato tutti i cartoni delle metope, sorvegliato la traduzione dei modelli in marmo, affidata a scultori di varie scuole e di varia levatura, intervenendo forse direttamente in alcuni punti, come, ad esempio, nella testa del centauro della metopa I S, di intensa drammaticità e vivezza plastica.
Disegnò tutto il fregio panatenaico ed eseguì i modelli delle lastre O (ancora in situ), forse eseguendone qualcuna quale campione, come l'VIII centrale, sorvegliandone comunque la traduzione in marmo per opera di varî technìtai, i quali mostrano un affiatamento molto maggiore che non nelle metope, un'assimilazione più profonda dello stile fidiaco, e che eseguirono poi, forse dal solo cartone disegnativo, i lati lunghi N e S, lavorati in opera, mentre il lato E, come quello opposto, è stato lavorato nell'ergastèrion con la guida di modelli plastici fidiaci. Ancor più diretto deve esser stato l'intervento di F. nell'esecuzione delle statue frontonali, dove si afferma in pieno l'altezza geniale del suo linguaggio plastico, che con profonda originalità crea nuove espressioni nei ritmi dinamici, nel nudo possente e nel panneggio "velificato", cioè reso simile a un velo, modellato dalla luce, coloristico, che sono solo fidiache e che non si ritrovano con simile livello e con tale intensità in nessun'altra opera contemporanea, ma solo in imitazioni o in rielaborazioni sempre qualitativamente inferiori. Al di sopra degli accenti diversi degli aiuti e delle varie mani ben riconoscibili, che alcuni critici, come lo Schrader o il Buschor, hanno voluto identificare con noti artisti della cerchia fi diaca, considerandoli creatori di queste varie espressioni plastiche, emerge peraltro una inconfondibile e intima unità di stile e di concezione che è frutto del genio creatore del maestro. Il tipo del cavallo partenonico di cui abbiamo varie formulazioni nel fregio panatenaico (vol. i, fig. 1005) e nei frontoni, il tipo dell'efebo, della peplophòros, delle divinità, ciascuna con un contenuto nuovo rispetto alla tradizione, sono creazioni di una fantasia che gli antichi stessi riconobbero inimitabile e sovrana. Isolati tentativi (Blümel) di attribuire tutto ciò a una fase post-fidiaca permeata di influenza ionica, sono da considerarsi inconsistenti.
I rendiconti (I. G., i, 2, 339-353) ci dicono che i lavori iniziati nel 447 duravano per rifiniture nel 433 e sappiamo che nel 438 fu dedicata la statua di culto di Atena Parthènos, colosso crisoelefantino (Plato, Hippias m., 12, p. 290 B; Paus., i, 24, 5; Plin., Nat. hist., xxxvi, 18; Tucid., ii, 13; Diod., xii, 40; Ampel., Lib. mem., viii, 10) vestito di peplo, con elmo decorato da tre lòphoi con Sfinge nel centrale e grifi nei laterali, e da protomi di animali nei frontale, orecchini, collana, egida, Nike d'oro alta 4 cubiti (circa 2 m) sulla mano destra protesa, lancia appoggiata alle spalle e al fianco lo scudo, sul cui orlo poggiava la mano sinistra. Le suole dei sandali erano decorate con una centauromachia, la base con la scena della nascita di Pandora, e lo scudo nella parte esterna con amazzonomachia in rilievo e nell'interna con gigantomachia dipinta o graffita.
L'oro adoperato nelle varie parti, che erano smontabili e quindi controllabili nel peso, ammontava a 44 talenti (Philoch. Schol. Aristoph., Pax, 605) o 40 (Thucyd., ii, 13, 5; Plut., Per., 31), oppure 50 (Diod., xii, 40).
La statua ci è nota da piccole riproduzioni (Varvakeion, dalla Pnice nel Museo Naz. di Atene, da Patrasso, da Bitoli e nei Museo Nuovo dei Conservatori) e da statue (di Antiochos alle Terme, del Louvre, da Pergamo a Berlino) che mostrano le severe linee architettoniche del peplo. Quella del Varvakeion, presenta una colonnina che sostiene la mano destra con la Nike e si discute se questo elemento sia o no da ricostruire anche nell'originale fidiaco per ragioni tecniche (vol. i, fig. 1008). Della testa esistono varie copie (Louvre, Ny Carlsberg, Berlino, Cirene, ecc.), ma più stilisticamente fedele è la riproduzione sulla fine gemma di Aspasios (v.) al Museo delle Terme, oltre a medaglioni fittili dall'Agorà e aurei da Kul' Oba all'Ermitage. L'amazzonomachia dello scudo si può ricreare nei gruppi principali da una serie di rilievi neo-attici nel museo del Pireo, ripescati nel porto, da altri a Villa Albani, Ny Carlsberg, Berlino, Chicago, e dai piccoli scudi marmorei Strangford (a Londra), di Patrasso, del Capitolino, del Museo Chiaramonti e quello, abbozzato, Lenormant. Un frammento in terracotta, delle dimensioni di quello Lenormant, è stato trovato in un deposito del III sec. d. C. nell'agorà di Atene; appartiene all'orlo inferiore (diametro cm 15). Da tutte queste copie si possono ricostruire le linee generali della grandiosa composizione, che F. aveva immaginato svolgentesi sulle pendici rocciose dell'Acropoli, a cui le Amazzoni davano l'assalto dal basso, con un'onda ascendente e discendente creante una gamma di ritmi dinamici nei varî gruppi e con ardite soluzioni che dànno la misura della genialità fidiaca, come l'Amazzone cadente a capofitto, quella afferrata per i capelli sull'orlo del balzo roccioso, il cosiddetto Capaneo, di intenso lirismo.
Al centro della lotta in basso era il gruppo dei due combattenti in cui la tradizione riconosceva Fidia stesso, come vecchio calvo, e Pericle, ma che, come pensa B. Schweitzer, dovevano raffigurare nell'intenzione dell'artista Dedalo e Teseo. Copia del gorgonèion centrale si è ritenuta (Buschor) la nota Medusa Rondanini.
La gigantomachia dell'interno ha influenzato la ceramica contemporanea, dove si possono trovare echi dei motivi tipici e forse un'idea della composizione nel vaso di Napoli, dove Elio e Selene all'estremità della vòlta celeste inquadrano il gruppo ascendente piramidale dei giganti che scagliano rocce e faci verso l'alto e gli dèi combattenti dall'alto. Per la nascita di Pandora sulla base abbiamo l'abbozzo di alcune figure nella statuetta Lenormant e nella statua di Pergamo, e copia di quattro delle 20 divinità assistenti, nel rilievo neo-attico di Palazzo Del Drago a Roma (che lo Schweitzer riferisce invece ad un'opera della cerchia fidiaca) e nella base del Laterano, dai quali ricaviamo che Helios e Selene inquadravano gli dei disposti per coppie e che al centro era Pandora.
Lo Zeus del rilievo Del Drago richiama quello del frontone E e gli altri tipi trovano confronti con il mondo figurato partenonico. In genere si nota una stretta unione e corrispondenza di motivi tipologici e stilistici in tutta la decorazione partenonica e dei due colossi dello Zeus e della Parthènos.
Dopo la dedica della Parthènos, mentre si andavano rifinendo i frontoni, F. può essersi dedicato anche ad altre opere, come l'Afrodite Urània di Melite, la statua di Pantarkes per Olimpia, l'Amazzone che, secondo la tradizione (Plin., Nat. hist., xxxiv, 53), avrebbe eseguito per Efeso in concorrenza con Policleto, Kresilas e Phradmon. Luciano (Im., 4) ne ammirava il delicato modellato della bocca e della nuca. L'Amazzone è stata riconosciuta dai più nel tipo detto Mattei dalla copia migliore in Vaticano; altre due copie sono al Museo Capitolino, molto fresco è il torso di Treviri e accurato quello in basalto di Torino. Una nuova copia è venuta in luce negli scavi del Canopo di Villa Adriana; è acefala, ma conserva tutto il braccio destro alzato, che era di restauro o mancante nelle altre copie; presenta inoltre una ferita sulla coscia sinistra. Nessuna di queste copie ha la testa pertinente e la copia della Collezione Petworth ha una testa che è ritenuta da alcuni non pertinente, mentre il Michaelis e il Langlotz la ritengono originaria. Il Furtwängler pensò che l'erma bronzea di Amazzone da Ercolano fosse il tipo fidiaco; un'altra copia stilisticamente molto superiore trovata a Villa Adriana, è oggi al Museo Naz. Romano, ed è stato fatto il tentativo di ricostruirla sul corpo della copia Mattei (Roma, Museo dei Gessi). L'Amazzone è una creazione di intensa vitalità plastica, ritmica e dinamica, e rappresenta il punto di arrivo di questo tema di cui F. ci aveva dato tante originali formulazioni, specialmente nello scudo della Parthènos. Si è discusso se l'Amazzone fosse rappresentata appoggiata all'asta perchè in atto di salire a cavallo, oppure perché ferita, e il trovamento della copia dal Canopo di Villa Adriana, farebbe ora accettare la seconda interpretazione, se il dettaglio sulla coscia della ferita gocciolante apparteneva all'originale.
Di un'Afrodite che Plinio (Nat. hist., xxxvi, 15) dice esposta nel Portico di Ottavia e celebrata per la sua bellezza, si è pensato di ricercare il corpo nel tipo noto in molte copie (Torlonia, Villa Albani, Uffizî, Verona, Ostia) della cosiddetta Agrippina del Museo Capitolino, usata anche come statua funeraria di dame romane, e la testa nel tipo della cosiddetta Saffo o Aspasia di Napoli, di cui abbiamo varie copie sempre in erma (Firenze, Borghese, Chiaramonti, Palazzo Riccardi). Il corpo è di stile partenonico e la testa, di grande ricchezza plastica, potrebbe ben adeguarsi ad esso e dovremmo se mai considerarla una delle ultime creazioni del maestro, ma si è anche fatta l'ipotesi di vedervi invece l'Afrodite dei Giardini di Alkamenes (v.) e gli stretti rapporti tra F. e il discepolo giustificherebbero i caratteri fidiaci.
Pausania (1, 3, 5) e Arriano (Per. Pont. Eux., 9) attribuiscono a F. una statua di Meter del Metroon di Atene, che Plinio (Nat. hist., xxxvi, 17) assegna invece ad Agorakritos. Il Langlotz, che l'attribuisce a F., la ricerca in un tipo noto da una statua di Hermias ateniese del II sec. d. C. da Livadia. Sconosciute rimangono altre opere citate dalle fonti, un'Atena ad Atene, e Atena ed Eracle (Tzetz., Chil., viii, 353 e 359), un Hermes Prònaios nell'Ismenion di Tebe (Paus., ix, 10, 1), una statua di Kleidouchos e una Atena bronzea dedicata da Paolo Emilio nel tempio della Fortuna huiusce diei, due statue con pallio e un colosso nel tempio di Catulo (Plin., Nat. hist., xxxiv, 54).
F. fu un caposcuola. Accanto al suo genio animatore si formarono Vari allievi che divennero le personalità artistiche più elevate della seconda metà del V sec., come Alkamenes, Agorakritos, Kolotes, e tutti risentirono l'influsso del suo stile originalissimo, sviluppandone gli elementi più tipici in nuove forme, spesso non esenti da accenti manieristici, come in Paionios e Kallimachos.
Gli antichi stessi furono incerti riguardo all'attribuzione di alcune opere e si diceva che F. avesse messo mano ad alcune, firmate poi dagli allievi. Forse l'allievo più vicino al maestro fu Agorakritos (v.).
Fra le opere nate sotto l'influsso partenonico nella cerchia fidiaca si possono citare lo Zeus di Dresda, l'Afrodite appoggiata a un pilastro con gambe incrociate, la Kore Albani, la Demetra di Cherchel, la Hera Borghese.
Ma nelle officine del Partenone e dei colossi crisoelefantini si formò anche una schiera di artisti che assimilarono alcuni modi del linguaggio formale fidiaco e che risentiamo poi nella produzione artistica contemporanea, in stele funerarie, rilievi votivi, fregi come quello del cosiddetto Theseion, e che vengono riecheggiati anche nella ceramica dipinta degli ultimi decennî del V sec., che a volte copia perfino motivi determinati, come l'efebo che sta per salire a cavallo del fregio O (lastra xiii) nella pelìke di Berlino, o i conducenti di tori del lato S (lastra xli) nell'oinochòe Robinson e in quella di Lipsia, oltre a quelli profondamente influenzati dalle amazzonomachie, gigantomachie, centauromachie fidiache.
F. appare un genio universale. Conosce tutte le tecniche, si diletta di creazioni miniaturistiche e affronta opere colossali; ha un senso profondamente plastico e sa dar vita a vaste composizioni pittoriche, e anche inquadrare le sue decorazioni con perfetta organicità e con raffinato senso ottico in una architettura. Sa guardare con occhio attento nel variopinto mondo dell'Atene periclea e trarre dalla realtà tipi ideali, come dare una solennità e una bellezza nuova a quelli divini (explevit deorum auctoritatem, dice Quintiliano, Inst. or., xii, 10). Dà forma a tutti i ritmi più vari; modella nudi di una struttura poderosa come di un'elegante e agile scioltezza, e a tutte le superfici conferisce un delicato chiaroscuro tipicamente attico. Trasforma il pesante panneggio di stile severo in pepli ricchi di pieghe di una morbida e sciolta consistenza e giunge anche a creare una struttura "velificata" della stoffa in chitoni trasparenti, vibranti nelle superfici increspate di pieghe sottilissime. Una folla di immagini scaturisce dalla sua feconda fantasia creatrice, egli affronta una serie di temi nuovi e quando rielabora quelli tradizionali vi infonde sempre un contenuto originale.
F. segnò per gli antichi stessi una vetta insuperata e nel suo nome si accentra il classicismo del tardo ellenismo, riflesso dalla maggior parte delle fonti letterarie conservateci; la sua intensa e alta liricità ha creato l'arte classica, fondamento di tutta l'arte europea.
Bibl.: Tra la ricca serie di studî fidiaci, oltre quelli citati sotto la voce atene si possono ricordare:
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Per l'Atena Arèia: H. Thiersch, Die Athena Areia des Phidias und der Torso Medici, in Nachrichten Göttingen, II, 10, 1938, pp. 211 ss.
Per tutte le altre opere oltre alle citate monografie si veda: Ch. Picard, Manuel d'archéologie grecque, La sculpture, II, i, Parigi 1939, pp. 308-521; A. Della Seta, Il nudo nell'arte, Milano-Roma 1930, pp. 225-246.
Per il processo: J. Nicole, Le procès de Phidias dans les chroniques d'Apollodore d'après un papyrus inédit de la coll. de Genève, Ginevra 1910; L. Pareti, Il processo di F. e un papiro di Ginevra, in Röm. Mitt., XXIV, 1909, pp. 271-316; A. W. Byvanck, Le procès de Phidias, in Symbolae Van Oven, Leida 1946, pp. 82-91; F. Jacoby, Die Fragmente der Griech. Historik Ken, III, b, Suppl. Commentary on the Historians of Athens, 1954; e rec. di H. Bloch, in Gnomon, XXXI, 1959, p. 494; O. Lendle, Philochoros über den Prozess des Phidias, in Hermes, LXXXIII, 1955, pp. 284-303.