Vedi FIDIA dell'anno: 1960 - 1994
FIDIA (v. vol. III, p. 649)
Gli studi più recenti sulla vita e le opere di F. hanno come epicentro la scoperta dell’ergastèrion di Olimpia dove, tra il 435 e il 425 a.C. circa, ebbe luogo la lavorazione della statua crisoelefantina di Zeus. Grazie soprattutto ai risultati della pubblicazione analitica dei trovamenti e alle conclusioni di A. Mallwitz e di W. Schiering, sembra ora assicurata la priorità cronologica dell’Atena Parthènos, e pertanto non è più sostenibile la contemporaneità di lavorazione delle due opere monumentali già proposta da J. Fink e B. Fehr. Secondo l'opinione prevalente F. dovette lasciare Atene nel 438/7 a.C., o subito dopo, e recarsi a Olimpia, avendo già completato la statua di Atena. Non sarebbe per conseguenza possibile che egli abbia avuto la responsabilità della supervisione dei lavori relativi alla decorazione scultorea del Partenone, protrattisi fino al 432 a.C., portandoli fino allo stadio finale; così come non sarebbe possibile addossargli anche le cause dello scoppio della guerra del Peloponneso nel 431 a.C. A tale deduzione, che giustifica la testimonianza di Filocoro (FrGrHist, p. 328, F. 121) e concorda con l'analisi storica degli avvenimenti condotta da F. J. Frost, è giunto G. Donnay in una revisione delle fonti epigrafiche e letterarie in nostro possesso. Sono dunque molte le questioni sollevate in merito ai contraddittori apprezzamenti e alle contrastanti interpretazioni dei dati, sulla storicità del famoso processo intentato contro l'artista, sulle effettive cause e sulle vicende che portarono alla sua partenza per Olimpia. Enigmatici restano, peraltro, anche i dettagli della sua attività dal 438/7 a.C. - cioè il sicuro termine cronologico, da B. Wesenberg ritenuto assoluto, per la conclusione del lavoro sulla statua di Atena - fino all'incerto anno in cui si prese sistematicamente cura della lavorazione della statua di Zeus. Quanto alla base cronologica del problema del «processo» a F., la combinazione delle tardive informazioni sui rapporti di lavoro, peraltro non pienamente chiari, e delle strutture giuridiche dello stato ateniese, rende ammissibile la proposta di C. Triebel-Schubert, G. Marasco, W. Ameling e L. Prandi di sostenere rispettivamente le cronologie basse del 435/4, del 433/2 e del 431 a.C. Tuttavia sull'esattezza della tradizione di Plutarco (Per., 31) sono valide le osservazioni di F. Preisshofen, malgrado l'ulteriore difesa della sua attendibilità per quel che riguarda almeno la quota di partecipazione dell'artista alla generale progettazione del Partenone. In ogni modo il riesame di tutto il materiale presentato in merito ai processi di Anassagora, di Aspasia e di Pericle da parte di R. L. Fitts (che pone la celebrazione del processo a F. in un qualche momento tra il 433 e il 430 a.C.) e di J. Mansfeld, non lascia dubbi sulla concatenazione degli avvenimenti entro il più ampio clima di opposizione politica che investì la cerchia dei collaboratori del grande statista ateniese. L'indubbio intensificarsi delle attività e la contemporaneità nella scelta degli obiettivi non sembrano tuttavia aver avuto connessioni, nell'intreccio della «congiura» antipericlea, con lo schieramento degli aristocratici, ma piuttosto - come sosteneva F. J. Frost - con gruppi di opposizione non senza rapporti con lo spirito della successiva azione politica di Cleone. Per quel che concerne il contenuto dell'accusa, tuttavia, è stata a buon diritto messa in dubbio la storicità di quelle fonti che menzionano la sottrazione dell'oro in un modo o nell'altro rimovibile. Ma anche il furto di avorio, che tuttavia difficilmente avrebbe potuto essere dimostrato a posteriori, è confutabile, malgrado le opinioni di coloro che, come D. M. MacDowell, sostengono che le due preziose materie prime erano probabilmente elementi dell'atto di accusa. L'enfasi che J. Mansfeld pone sul comune sostrato religioso di tutte le accuse contro la cerchia di Pericle, e nel caso di Fidia l'uso disonesto di «beni sacri», ci spinge verso un altro problema assai discusso: la notizia di Plutarco circa la sacrilega riproduzione delle fattezze dell'artista sullo scudo dell’Atena Parthènos, di nuovo sostenuta principalmente da D. Metzler. L'eventualità di un processo di «empietà» - come osservava E. B. Harrison - non è confortata da nessun testo, e ciò indipendentemente dal contrappeso storico della notizia stessa, che F. Preisshofen interpreta giustamente come un'invenzione favolistica di epoca post-ellenistica. Alla stessa conclusione giunge anche Th. Stephanidou-Tiveriou, riconoscendo in ultima istanza nel duplice «criptoritratto» di Pericle la figura di un'Amazzone. Per quel che riguarda l'eventuale conclusione del processo, i cui dettagli ci sfuggono, F. Frost e G. Donnay ritengono che F. non può avere evitato la condanna, mentre secondo J. Mansfeld egli dovrebbe aver lasciato Atene come esule «sia dopo una condanna, sia prima della pronunzia di un verdetto. In quest'ultimo caso, se si fosse trovato in custodia preventiva, doveva esser fuggito dal carcere, cosa che, dopo tutto, poteva non essere troppo difficile ad Atene». Un tale punto di vista difficilmente si concilia, però, con la celebrazione quasi propagandistica della città di Atene all'ornamento della statua dello Zeus di Olimpia. Parimenti esso non si accorda con i dati cronologici di molte altre opere di F. che, mentre sono successive all’Atena Parthènos, devono porsi in un più immediato rapporto con il periodo ateniese dell'attività dell'artista, p.es. con l’Amazzone di Efeso e principalmente con la statua di culto dell’Afrodite Urania nell’Agorà.
L'indeterminatezza degli elementi disponibili e l'incertezza che contraddistingue il peso specifico delle testimonianze sono state ripetutamente segnalate in questi ultimi anni da D. M. MacDowell, da J. Boardman, A. H. Borbein e da molti altri studiosi. Meriterebbe, così, indagare da principio se effettivamente F. sia mai stato sottoposto a un processo oppure no, dal momento che, come si deduce dalle conclusioni di A. Wittenburg, doveva essere Pericle il diretto responsabile degli aspetti economici relativi alla realizzazione dell’Atena Parthènos. Di fatto, dato che un'istruttoria preliminare poteva facilmente dimostrare l'infondatezza delle denunce, non è del tutto improbabile che, alla fine, si fosse evitata una sentenza sull'argomento. Tuttavia, anche nel caso di un verdetto, nulla impedisce di pensare all'assoluzione dell'artista, cosicché la sua partenza per Olimpia acquisterebbe un contenuto completamente diverso, come necessaria conseguenza solo di un sollevamento dai suoi impegni professionali collegato all'atmosfera, in senso lato, opprimente, che si era venuta a creare ad Atene intorno a Pericle. Un'ipotesi del genere sembra in ogni modo più credibile del punto di vista espresso da W. Ameling, secondo il quale i nemici di Pericle potrebbero aver preteso la celebrazione del processo sia pure in assenza dell'accusato, al quale per un certo periodo di tempo sarebbe stato possibile lavorare contemporaneamente sia ad Atene sia a Olimpia, seguendo fino al 432 a.C. i lavori del Partenone, come crede anche A. Giuliano. E', infatti, difficilmente ammissibile che i sacerdoti del santuario di Olimpia decidessero di affidare l'esecuzione di un'opera tanto importante e dispendiosa a una persona appena giudicata per furto o gravata dal sospetto di un'imminente condanna.
Un fatto del genere non si deduce, d'altro canto, come necessaria conseguenza né dalla testimonianza di Eforo (apud Diod. Sic., XII, 39), e neppure dallo scolio ad Aristofane (Pax, 605-611) cronologicamente più vicino agli avvenimenti, la cui inventiva non avrebbe mancato di sfruttare il processo e la condanna dell'artista per alludervi solo con un, relativamente neutrale, «essendosi egli comportato male».
In immediato rapporto con le implicazioni cronologiche della vicissitudine di F. bisogna considerare una serie di penetranti articoli di N. Himmelmann, in cui viene scossa la scontata sicurezza circa il grado di partecipazione di F. al programma pericleo dell'acropoli. Sebbene possa sembrare dolorosa una simile ammissione - per quanto nel frattempo possano averne mitigato i termini i contributi di A. Wittenburg, G. Zinserling, E. Kluwe, e principalmente il rigore logico di A. H. Borbein - essa estende le prospettive della ricerca futura in questo campo, al fine di rintracciare il sostrato della tradizione artistica ateniese e di chiarire le componenti genetiche dell'arte classica. In termini puramente cronologici sembra dunque che - sia pure sul piano della sequenza delle opere - F. debba essere svincolato dalla materiale esecuzione dei complessi frontonali del Partenone. Tuttavia l'invenzione tematica di Helios e di Selene, nella pregnanza di significato che conferisce alle rappresentazioni delle metope e del frontone del lato orientale, arricchendo parallelamente con il suo contenuto cosmologico il carico dei simbolismi a loro volta presenti nei cicli mitologici della decorazione dell’Atena Parthènos e dello Zeus di Olimpia, continua a rivendicare, nell'ispirazione, la più autentica impronta fidiaca.
Al di là della disomogeneità qualitativa presente, per quanto riguarda l'esecuzione, in molte componenti della decorazione scultorea del Partenone, la magnificenza della concezione unitaria è impressionante tanto quanto la coerenza interna che governa il progetto generale dell'architettura e della statua di culto che questa era destinata a ospitare. Ciò si è rivelato chiaramente grazie ai lavori teorici di R. Carpenter, W. B. Dinsmoor Jr., H. Knell, D. Mertens e Β. Wesenberg, e principalmente grazie alle ricerche ancora in corso di M. Korres, le quali, oltre che sulla storia del monumento, hanno gettato luce anche su molti problemi più propriamente architettonici. Ugualmente sorprendente è stata la scoperta di un grande numero di nuovi frammenti che completano molte sculture ridotte in frantumi, facilitando parallelamente anche l'identificazione di molte raffigurazioni enigmatiche. Oltre al decisivo contributo di F. Brommer, J. Marcadé, E. Berger, M. Brouskari e J. Binder, è degno di nota in questa sede l'apporto di due studi, in quanto particolarmente incoraggiante per le speranze di tracciare un quadro ancor più preciso nell'immediato futuro: si tratta dei lavori di A. Mantis, grazie alle cui ricerche iniziano ad acquistare un'effettiva consistenza le metope del lato S, andate distrutte e note dai disegni di J. Carrey, e di G. Despinis, che ha scoperto avanzi, finora rimasti ignoti, delle perdute figure centrali del frontone orientale, completando nello stesso tempo diverse figure di quello occidentale e restituendo la composizione, raramente attestata, nella lastra del fregio orientale con Artemide e Afrodite.
Con ritmi analoghi procede anche la comprensione del contenuto dei temi delle raffigurazioni attraverso la graduale scoperta di molti riferimenti allusivi e l'intreccio di significati dei cicli mitologici, al di là delle interpretazioni frequentemente in contrasto tra di loro. Tra i contributi degli studiosi che prendono parte al comune sforzo di tale decifrazione vanno certamente ricordati quelli di W. Schiering, E. Simon, M. Moltesen, E. B. Harrison, Ν. Himmelmann, M. A. Tiverios, A. Mizuta, J. Dörig, M. Robertson ed E. Berger, per la soluzione di molti problemi relativi alle metope, mentre ad A. Mantis si deve principalmente l'indubbia conferma dell'unitarietà tematica che regge la raffigurazione della Centauromachia nelle metope del lato S del tempio. Lo stesso vale anche per le raffigurazioni del fregio, per quel che riguarda i lavori di U. Kron, E. G. Pemberton, J. Boardman, J. H. Kroll, A. Linfert, H. Kenner, E. Simon, E. B. Harrison, M. Cool Root, I. D. Jenkins, ma soprattutto di L. Beschi che ha mostrato il concorrere dei valori politici e culturali nella concatenazione della cristallizzazione compositiva del tema. Circa il contenuto del lato orientale, particolarmente decisivo si è rivelato l'approccio filosofico-religioso di I. S. Mark, ma anche la prospettiva che schiude l'orientamento interpretativo di Th. Schäfer verso la comprensione della scena centrale in relazione con il rituale cultuale-celebrativo delle Panatenee. Per quel che concerne la decorazione frontonale vanno menzionate le opere di E. B. Harrison, I. Beyer, H. Walter, A. Delivorrias, W. Fuchs, Κ. Κ. Jeppesen, Α. Mantis, Μ. Wegner, Β. F. Cook, e principalmente i contributi di E. Simon sulla posizione di Atena nella raffigurazione del lato orientale e circa una più precisa definizione del contenuto di quello occidentale. Infine, sui gruppi acroteriali - oltre al contributo di H. Gropengiesser e J. Binder - va presa in considerazione anche la proposta di A. Delivorrias in merito alla reintegrazione degli elementi vegetali centrali accompagnati alle estremità dei triangoli frontonali da figure femminili in movimento.
La decorazione scultorea del Partenone nel suo insieme innalza un irripetibile inno di glorificazione al passato, al presente e al futuro di Atene, proiettando il progresso e la potenza della città oltre le proporzioni di una diacronia armonica. Nell'esaltazione trionfale dell'ordine e della civiltà di fronte al caos e alla barbarie, il principio causale dell'utopia democratica trova la sua definizione normativa nel dialettico intrecciarsi del mito con la realtà e della lotta umana con la certezza della impenetrabilità divina. Nei valori qualitativi dell'ornamentazione scultorea del Partenone lo scalpello di F., malgrado la continua ricerca di H. Walter, si rintraccia davvero con difficoltà. Come ha ancora sottolineato A. H. Borbein, l'intervento del grande artista vi è riflesso in maniera ben distinguibile «anche nel caso che egli personalmente non avesse posto mano direttamente in nessun punto». Principale fonte di informazioni circa il linguaggio artistico di F. rimane così l’Atena Parthènos, della quale molti problemi ha potuto risolvere G. Donnay riesaminando i resti epigrafici dei relativi rendiconti. La pubblicazione dall’Atena del Varvakeion da parte di W. H. Schuchhardt e la revisione di tutte le ricerche relative da parte di N. Leipen, in occasione di una ricostruzione in dimensioni ridotte eseguita nel Royal Ontario Museum di Toronto, hanno portato decisamente avanti la ricerca su quest'opera. In quest'ultimo tentativo, come anche negli studi che da allora hanno visto la luce, nell'impossibilità da parte della sensibilità della nostra epoca storica di concepire la grandezza e la spiritualità delle forme fidiache, traspare anche il tempo che sarà necessario per acquisire una più completa immagine di questa creazione, del cui èthos qualche elemento forse si conserva nella testa di Copenaghen. La tradizione copistica si è arricchita nel frattempo con la nuova replica di Boston che, come ha riconosciuto C. C. Vermeule, conserva particolari della creazione originaria finora rimasti sconosciuti; con la riscoperta del torso di Civitavecchia, al quale risulta pertinente la nota testa del Louvre; con la riproduzione di piccolo formato da Apollonia al museo di Tirana, firmata dall'ateniese Euemeros; e anche con diversi esemplari da aree orientali.
Tra le riproduzioni dell'opera, assieme alla ben conservata replica ellenistica da Pergamo, di nuovo studiata da M. Gernand e da J.-P. Niemeier, vanno annoverati anche i frammenti della statua di culto del Tempio di Atena a Priene, della metà del II sec. a.C. Lo studio di quest'ultima, in collegamento con le testimonianze numismatiche esistenti, ha portato J. C. Carter alla conclusione che la mano destra della dea con la figura di Nike non avrebbe mai potuto appoggiarsi a una colonna. A. Mallwitz, E. Simon, A. J. N. W. Perag e H. Williams, e anche B. Sismondo Ridgway (che ne ha seguito la ricostruzione in dimensioni colossali dentro il «Partenone» di Nashville) hanno continuato, dopo G. M. A. Richter e G. P. Stevens, a mettere in dubbio, ma con argomenti tratti da esempi tardi, la presenza di questo basilare elemento nella costruzione dell'opera fidiaca come la tramanda l’Atena del Varvakeion. Nella logica di affrontare il problema dal punto di vista tecnologico, la maggior parte delle altre ricerche mostra un certo fastidio verso il peso dei simbolismi religiosi e l'esigenza di riequilibrare in maniera più convincente tutti gli elementi costitutivi della composizione. L'immagine di Nike, che è raffigurata nel momento del suo «atterraggio» sulla mano destra della dea e che simboleggia l'offerta del dono più prezioso al dèmos degli Ateniesi, è stata identificata da R. Carpenter - con la recente conferma di J. Boardman - nella Nike Pitcairn di Filadelfia, ritenuta da A. Gulaki un condensato di tipi più antichi. Al contrario E. B. Harrison, ribadendo gli argomenti circa l'autenticità del tipo conservato in dimensioni ridotte dall’Atena di Varvakeion, ha riconosciuto le caratteristiche della fisionomia della Nike in una nuova replica della testa Hertz dall'agora di Atene, che giustamente distingue dalla Nike di Paionios.
Dei rimanenti elementi dell'opera, grazie alla ricerche di G. Hafner, è stato nel frattempo precisato il tipo della Sfinge che sorreggeva il cimiero centrale dell'elmo, con una replica, qualitativamente migliore, della testa nell'Antikenmuseum di Basilea. All'ornamentazione dei sandali, oltre al vaso marmoreo di Madrid e al rilievo neoattico dell'ex Museo Lateranense, Β. Sismondo Ridgway ascrive un episodio della Centauromachia di Eracle, dall'elmo indossato da Menelao nel Gruppo del Pasquino. I rilievi neoattici di Palazzo del Drago, di Corinto e la base dell'ex Museo Lateranense, che ripetutamente erano stati messi in rapporto con il basamento della statua, a parte la loro difesa ripresa da N. Leipen, sono ricondotti senza alcun dubbio a un'opera cronologicamente più avanzata. Come ha sottolineato W. H. Schuchhardt, solo le tracce che si conservano sulle basi delle repliche della Pnice e di Pergamo offrono qualche indizio per l'interpretazione delle figure effigiate sul basamento e sulla composizione della rappresentazione. Ripubblicando un frammento di rilievo da Rodi la cui importanza era stata già riconosciuta da Β. Schweitzer, ha localizzato la posizione originaria di Apollo tra le schiere di divinità raffigurate nell'atto di recare doni alla «neonata» Pandora. Secondo A. Delivorrias il fregio del basamento doveva essere costituito da figure in buona parte semilavorate, tanto sulla faccia principale, quanto sulle due laterali. Per quel che riguarda, infine, l'Amazzonomachia dello scudo, hanno portato a molte nuove conclusioni i lavori di V. M. Strocka, B. Schlörb, T. Hölscher, E. Simon, E. B. Harrison, J. Floren, Th. Stephanidou-Tiveriou, H. Meyer, D. Mauruschat e W. Gauer. Bisogna peraltro sottolineare che qualsiasi nuovo elemento acquisito pone parallelamente una nuova serie di domande sia riguardo il numero crescente delle figure presenti nella raffigurazione e la loro probabile identificazione, sia riguardo le mutevoli possibilità di organizzazione compositiva che si propongono e l'eventualità dell'allusione al paesaggio con l'accenno al terreno roccioso, e certamente non con la raffigurazione particolareggiata degli accampamenti dell'Acropoli, come ipotizzava E. B. Harrison.
Dopo la fondamentale analisi storico-sociologica di B. Fehr, il contenuto concettuale e i simbolismi che riempiono di significato le relative invenzioni tematiche nella realizzazione dell’Atena Parthènos si propongono oggi in maniera più chiara. Dalla coerenza di una più profonda azione programmatica emerge così la dialettica delle sue relazioni allusive alla politica della repubblica ateniese sia interna sia esterna, principalmente nei confronti di Corinto, ma anche di fronte alle prospettive dell'alleanza di Delo. La manifesta dimensione politico-ideologico-propagandistica della statua e dell'edificio che la ospitava, contro quanto hanno di nuovo sostenuto F. Preisshofen, W. Schuller, G. Zinserling, G. Roux, e Ch. Delvoye, non necessariamente esclude i significati puramente religiosi del Partenone.
Delle creazioni pre-partenoniche di F. di cui abbiamo testimonianze, la statua votiva in bronzo vista da Pausania (X, 10, 1-2) a Delfi, dovrebbe essere stata eseguita, secondo U. Kron, negli anni del ritorno di Cimone dall'esilio, cioè tra il 457 e il 450 a.C. La più precisa cronologia dell'opera è affrontata, sia pure con riserve, da A. H. Borbein, mentre B. Sismondo Ridgway, variando una vecchia idea di A. Furtwängler, pone ancora dubbi circa l'entità della totale responsabilità di F. nella sua esecuzione. Più di recente R. Louis, riassumendo precedenti dubbi, si chiede se la tradizione tramandata dal periegeta non sia dovuta a un'erronea trascrizione dell'epigrafe in seguito a un successivo spostaménto della statua, che - come aveva ipotizzato anche A. E. Raubitschek - doveva essere in origine posta presso il Thesauròs degli Ateniesi. Ai molti interrogativi che si affacciano difficilmente si direbbe che diano una risposta le problematiche attribuzioni di alcuni tipi statuari, malgrado la loro combattiva difesa condotta da W. Fuchs e da A. Giuliano.
Delle infinite opinioni contrastanti sull'argomento, merita di essere segnalato che l’Apollo del Tevere - contrariamente a quanto aveva sostenuto E. Buschor - è assegnato a Kaiamis da J. Dörig, mentre è ritenuto opera classicistica da P. Zanker e dalla Ridgway. Lo stesso varrebbe per l'«Ares» di Villa Adriana - la cui candidatura era sostenuta da E. Berger - contro le obiezioni di W. Trillmich, P. Zanker, B. Sismondo Ridgway, W. Gauer e J. Raeder, se E. Minakaran-Hiesgen non avesse riconosciuto nella sua figura quella dell'oplitodromo Epicharinos posta sull'acropoli di Atene, opera di Kritios e Nesiotes (Paus., I, 23, 9). L’Atena di Brescia - a parte i tentativi di E. Buschor - secondo il punto di vista di V. M. Strocka riproduce la fidiaca Afrodite del Portico d'Ottavia, mentre secondo G. Becatti, con il quale concordano B. Vierneisel-Schlörb ed E. B. Harrison, è «una trasformazione romana del tipo di Afrodite classica in una Minerva o in una Roma». Al posto di questa - come ci informa J. Boardman - J. Barron propone l’Atena Lemnia di A. Furtwängler, in base a un'idea di E. Petersen, che sembra essere stata accolta anche da E. Berger. Il tipo della testa «Barberini-Milles» secondo T. Hölscher e G. Despinis dovrebbe essere piuttosto in rapporto - contrariamente a quanto sostiene A. Giuliano - con il monumento degli Eroi Eponimi dell’Agorà di Atene, in base anche alla sua datazione nello «stile ricco» da parte di E. Voutiras, mentre il commento di W. Gauer e di J. Frel adombra il tipo del Milziade di Ravenna. La testa barbata inv. 1964 del Museo Nazionale di Atene, apparentemente unica replica di un'opera classica non incrociata da altri esemplari, al di là dell'eccezionale interesse che presenta, difficilmente può datarsi prima del 450 a.C. Così, se di fatto raffigura qualche eroe, come pretende W. Fuchs, dovrebbe piuttosto ricondursi al monumento dell' Agorà, sulle cui figure ha effettuato una ricerca anche V. M. Strocka proseguendo il cammino di H. Walter, W. Gauer e B. Vierneisel-Schlörb. Allo stesso monumento potrebbe appartenere il prototipo della testa di Codro, riprodotta nella tarda gemma da anello di Heidelberg pubblicata da R. Hampe, ma non della testa, cronologicamente anteriore, del Museo Chiaramonti inv. 287A, il cui contenuto e le cui caratteristiche stilistiche - contrariamente a quanto sostiene B. Vierneisel-Schlörb - rimangono indecifrabili. La ricerca sul donario di Delfi risulta complicata in misura ancora maggiore dalla proposta di W. Fuchs di inserirvi le due statue bronzee di eroi da Riace (v.).
Delle opere fidiache precedenti l'attività nel cantiere del Partenone, A. Linfert ha riconosciuto l'acrolito dorato dell’Atena Arèia di Platea (Paus., IX, 4, 1; Plut., Aristid., 20) in un'unica replica di Madrid, che anche da W. Fuchs viene ricondotta a un'opera attica - ma in bronzo - e che ci fornisce un'idea di come poteva essere la raffigurazione della Pròmachos dell'acropoli di Atene. L'ipotesi del Linfert rafforza la possibilità che il monumento, finanziato con il bottino della battaglia di Platea, sia stato commissionato in un anno incerto entro il secondo quarto del V sec. a.C., ipotesi contrapposta da W. Gauer alle conclusioni di G. Becatti, respingendo con buone ragioni anche la vecchia identificazione di quest'opera giovanile di F. con il tipo dell’Atena Medici sostenuta da H. Thiersch. In accordo con diverse testimonianze numismatiche di epoche successive e sulla base delle argomentazioni di A. Linfert, sempre come Pròmachos sembra che sia stata raffigurata l'ancora precedente statua crisoelefantina di Atena a Pellene di Acaia (Paus., VII, 27, 2). Una lontana eco, infine, della statua bronzea di Atena che Paolo Emilio aveva portato a Roma (Plin., Nat. hist., XXXIV, 54) da Tritea, probabilmente di Acaia (Paus., VII, 22, 9), lo stesso studioso crede di ravvisare nella piccola Atena arcaizzante di Dresda, sostenendo che il culto della dea, in origine in comune con Ares, avrebbe condotto ancora una volta l'artista verso il tipo iconografico della Pròmachos.
Per quanto riguarda l'indagine relativa a queste due ultime sculture, va ricordata la vecchia tesi della Ridgway che, basandosi sull'incertezza della tradizione riportata da Pausania, le espunge dalla lista delle opere fidiache. Parallelamente, però, bisogna porre l'accento sul fatto che evitare così drastici interventi e considerare il testo del periegeta come oggetto di culto costituisce una petizione di principio. Sarebbe pertanto ammissibile una certa problematicità sia circa la più precisa puntualizzazione della cronologia delle opere, sia su quante di esse appartengano di fatto alla produzione pre-partenonica o alla fase post-partenonica della sua carriera, quando si era stabilito definitivamente a Olimpia, come considera probabile anche A. Giuliano.
Negli anni precedenti i lavori del Partenone - e per un lungo periodo di nove anni, a giudicare dai resti delle testimonianze epigrafiche - F. dovette essere impegnato quasi esclusivamente ad Atene soprattutto nella realizzazione della Atena Pròmachos in bronzo, che per generale ammissione occupò la maggior parte del decennio 460-450 a.C. Malgrado l'eccezionale importanza di quest'opera per la politica della democrazia ateniese nel periodo successivo alle guerre persiane, importanza che emerge più chiaramente con la ricerca di W. Gauer, e malgrado anche le molte, probabili reminiscenze di essa nella ceramica e nelle arti minori del tempo, si dovrebbe piuttosto ritenere probabile, in accordo con l'esauriente studio di H. G. Niemeyer, che non se ne troveranno mai repliche fedeli. Seguendo, al contrario, problematiche più vecchie, A. Linfert ha sostenuto la sua identificazione con il tipo dell’Atena Medici, la cui interpretazione non trova concorde la critica. In questa spettacolare creazione, comunque post-partenonica, è indicativo che G. Despinis, sviluppando un'idea di A. Frickenhaus con l'assenso di B. Vierneisel-Schlörb e di P. Karanastassis, riconosca - sia pure con qualche comprensibile dubbio - la Atena crisoelefantina che Kolotes aveva plasmato per Elide (Paus., VI, 26, 3; Plin., Nat. hist., XXXV, 54), e che, al contrario, la Ridgway individui in essa «un'invenzione romana in linguaggio greco classico». Dopo la strenua difesa da parte di M. Weber della discendenza fidiaca dell'opera, la Harrison - portando alle estreme conseguenze la teoria di G. Becatti circa la c.d. piccola Parthènos dell'Acropoli (Himer., Or., XXX, 44) - giunge alla sua identificazione con la celebre Atena Lemnia, ricusando il tipo, da lei definito «androgino», ricomposto dal Furtwängler, che è frutto del felice collegamento della testa Palagi di Bologna con i due torsi di Dresda. Questa particolare scoperta - per quanto resti problematica la ricostruzione della mano destra della figura con l'elmo o con una civetta, come propone E. Simon - non viene messa in ombra dai dubbi di L. Alscher, né certamente dai giudizi di condanna della Ridgway e di K. Hartswick, confutati, del resto, da H. Protzmann e O. Palagia. Giustamente, peraltro, il Linfert esalta la fondamentale importanza della tradizione sul tipo della Lemnia per la ricomposizione della creazione fidiaca, ristabilendo la logica delle fonti e seguendo le successive vicende dell'opera a Costantinopoli fino al 1203/4. Quanto all'archetipo dell’Atena Medici, il percorso verso la sua individuazione sembra essere abbastanza difficoltoso, a giudicare dalle perplessità espresse da J. Boardman e B. Conticello.
Della produzione artistica di F. nel periodo dei lavori sull'Acropoli, resta ferma l'identificazione dell’Apollo Parnòpios (Paus., 1, XXIV, 8) con il tipo dell’Apollo di Kassel datato intorno al 450 a.C., anche dopo l'esemplare indagine sulla sua tradizione copistica condotta da E. M. Schmidt. In talune sporadiche obiezioni si inquadrano i dubbi di E. Berger circa la possibilità di considerarlo un'opera dell'artista al quale è dovuto l’Apollo del Tevere, la sua assegnazione a Mirone da parte di J. Frel, e l'ascrizione, sostenuta dalla Ridgway, al deposito in continuo accrescimento della produzione classicistica. L'identificazione, da parte di A. Furtwängler e E. Buschor, del tipo dell'Anacreonte Borghese con la statua che Pausania (I, 25, 1) vide sull'Acropoli senza però far menzione del suo autore, e anche la sua attribuzione a F., incontrano, a loro volta, la generale accettazione, nonostante la formula cautelativa di E. Voutiras e il giudizio negativo dalla Ridgway. Opinioni discordi sorgono solo circa l'eventualità di ricostruire assieme con l'attigua statua di Santippo un unico donario di Pericle, come sostengono W. Gauer, J. Dörig, D. Metzler e B. Conticello. Con tale punto di vista si allinea anche J. Frel, riconoscendo il ritratto di Santippo nel tipo dello Stratega «Berlino-Efeso-Malibu», datato, peraltro, da D. Pandermalis verso la fine del V e da G. Dontas nel IV sec. a.C. Tanto G. Hafner, quanto B. Vierneisel-Schlörb, su opposte posizioni, a parte i diversi indirizzi delle loro argomentazioni, pervengono alla medesima conclusione sostenendo che la statua di Santippo era opera di Kresilas.
Il periodo dell'attività di F. tra il compimento della lavorazione dell’Atena Parthènos e l'inizio dell'esecuzione dello Zeus di Olimpia, rimane enigmatico, senza che le rimanenti opere menzionate dalla tradizione scritta lo coprano con assoluta sicurezza. Intorno al 440 a.C., poco prima, dunque, che fosse completata la statua di Atena, F. prese parte, secondo la notizia di Plinio (Nat. hist., XXXIV, 53) unanimemente accettata, che A. H. Borbein ritiene di natura aneddotica, all'agone artistico di Efeso, modellando il tipo dell’Amazzone Mattet, che per A. Furtwängler era completato dalla testa dell'erma bronzea dalla Villa dei Papiri e secondo G. Becatti dalla migliore accezione di una replica marmorea da Villa Adriana. La relativa problematica è stata rianimata da M. Weber che avanza come controproposta la c.d. Testa Petworth e attribuisce a Kresilas il tipo «Mattei», assegnando a F. il tipo dell’Amazzone dei Musei Capitolini. Il divario dei giudizi stilistici prosegue con la datazione dell'opera verso la fine del IV sec. da parte della Ridgway e intorno al 370 a.C. da parte di E. B. Harrison che, sostenendo la candidatura della Cariatide da Loukou nel Museo Nazionale di Atene, accetta come fidiaco solo il tipo di testa «Villa dei Papiri-Tivoli». La visione tradizionale, comunque - come veniva sintetizzata da T. Dohrn e difesa da A. Linfert, W. Gauer e A. H. Borbein - non è posta in dubbio almeno dalla maggioranza degli studiosi. Ciò non significa, certamente, che ricercando una data più precisa per questa creazione si possa sfuggire alla sua implicazione con gli interrogativi, ancora senza risposta, circa le ragioni e il contenuto ideologico del Donario di Efeso.
Ponendo l'accento sul carattere panellenico-cittadino del monumento, in rapporto tanto con il passato storico dell'invasione persiana quanto con il presente che veniva a essere determinato dalle conseguenze del trattato di pace di Callia, dopo il 449-448 a.C., W. Gauer ritiene che le statue delle Amazzoni dovettero essere concepite come parti di un'unica composizione, per essere consacrate circa un decennio più tardi, vale a dire intorno al 339-338 a.C., magari dallo stesso Callia, sia come sua dedica personale, sia a nome di Atene o della Lega di Delo. A suo giudizio nelle figure ferite si riflette il ritorno delle Amazzoni vinte dagli Ateniesi al santuario che da tempi antichissimi era a esse «affidato», e non il dato storico-cultuale della sua fondazione, come sosteneva P. Devambez, spiegando la scelta del tema e collegando la dedica del monumento con la solenne consacrazione del Tempio di Artemide intorno al 430 a.C. È chiaro, pertanto, perché W. Fuchs, Β. Vierneisel-Schlörb, Α. Η. Borbein e J. Boardman preferiscano per questa creazione una data agli estremi limiti del decennio 440-430 a.C., qualcosa che certamente non attenua la più generale confusione che prevale riguardo all'attività dell'artista proprio in quegli anni. Ma anche la sua più definita collocazione da parte di A. Giuliano tra il 438 e il 435 a.C. urta con la richiesta della precisazione di una data assoluta.
Gli interrogativi in merito non hanno solo un significato filologico, dal momento che dal loro chiarimento dipende in qualche misura anche la soluzione del problema che presenta la durata del periodo «ateniese» dell'artista, come anche ciò che compete la definizione cronologica della sua partenza per Olimpia.
Delle rimanenti opere di F. di cui abbiamo testimonianza rimane nebuloso, sia dal punto di vista cronologico sia da quello iconografico, l’Hermes Prònaos nel santuario tebano di Apollo Ismenio (Paus., IX, 10, 2), malgrado la ricerca di qualche riflesso della presenza dell'artista in Beozia condotta da M. Szabó. Non sarebbe pertanto inutile una futura indagine circa la possibilità che sia stato raffigurato nella forma, da lungo tempo consacrata, dell'erma. Il noto tipo statuario dell’Hermes Ludovisi, indipendentemente dal fatto che si possa definire fidiaco - come ritengono S. Karouzou, J. Inan, M. Weber, B. Vierneisel-Schlörb e W. Fuchs - oppure no - secondo il giudizio di H. von Steuben, E. A. Arslan e B. Sismondo Ridgway - sulla base dell'attendibile interpretazione di S. Karouzou, dovrebbe provenire da un importante monumento funerario di Atene, piuttosto che da un santuario.
Lo stesso disorientamento cronologico e iconografico mostra l’Afrodite marmorea del Portico d'Ottavia (Plin., Nat. hist., XXXVI, 15), malgrado il suo riconoscimento a opera di E. Schmidt nel tipo di figura femminile seduta dell’Agrippina-Olympias, e nonostante l'argomentazione aggiuntiva di G. Becatti e di V. M. Strocka circa il collegamento con il più suggestivo tipo di testa femminile di epoca classica, la c.d. Saffo. Tale punto di vista è accettato, pur essendo indimostrabile, da N. Himmelmann, in contrapposizione a W. Fuchs che, seguendo E. Langlotz, continua a identificare il prototipo delle repliche nella Afrodite dei Giardini di Alkamenes (v.) e a datarlo nel decennio 430-420 a.C. Grazie alla scoperta sull'Acropoli di Atene di un frammento dello stesso originale marmoreo dell'opera, indipendentemente dalla sua restituzione a Kalamis, A. Delivorrias ha già proposto la definitiva separazione del tipo tanto dalla statua fidiaca di Roma, quanto dall’Afrodite alcamenica dei Giardini dell'Ilisso.
Questa scoperta non ha persuaso B. Sismondo Ridgway che il tipo statuario non sia classicistico e neppure E. B. Harrison che considera fidiaco solo il tipo della testa della Saffo, assegnando il frammento dell'Acropoli a una contemporanea ripresa di un originale che non denomina. L'incertezza dei dati emerge anche dai giudizi dubitativi di B. Vierneisel-Schlörb, che difende a oltranza il collegamento della testa con il tipo statuario della dea seduta e sostiene che il frammento dell'Acropoli deve provenire da una contemporanea ripresa dell’Afrodite fidiaca di Roma. In contrapposizione a tutte queste opinioni, G. Despinis, accettando che il frammento dell'Acropoli sia effettivamente una parte dell'originale, identifica questo prototipo con la statua di Igea che Pausania (I, 23, 4) aveva visto nella zona dei Propilei.
In una strettoia senza uscita sembrava esser giunta, dopo affannose indagini, la ricerca di altre due creazioni: la marmorea Afrodite Urania di Atene (Paus., I, 14, 7) e l'Afrodite Urania crisoelefantina di Elide (Paus., VI, 25, 1; Plut., Mor., 142 D), principalmente per quel che riguarda il loro rapporto interno con la scenografica Afrodite Brazzà di Berlino. Quest'opera era in passato annoverata, con consenso quasi unanime, tra le sculture originali di periodo partenonico, ma era ritenuta una derivazione più o meno diretta del simulacro ateniese della dea dell'amore. F. Brommer, G. Becatti, C. Blümel, S. Settis, M. Bieber e B. Conticello ritengono che il tipo debba fissare iconograficamente piuttosto la statua di Elide. Pertanto, mentre G. Despinis esita a raggiungere una conclusione definitiva su quale delle due statue fidiache di Afrodite esso possa riflettere con maggior precisione, E. B. Harrison sostiene che la dea di Elide era raffigurata con il peplo, che del suo tipo statuario sono rimaste solo le repliche della testa (la c.d. Saffo), e che la statua di Berlino altro non è che una lontana variante databile al periodo di costruzione dell'Eretteo. In direzione di un drastico abbassamento della cronologia e della separazione di quest'opera dalla produzione di F. si erano già mossi Ch. Hofkes-Brukker e F. Croissant, mentre B. Sismondo Ridgway, benché ravvisi nella sua lavorazione una copia romana - come del resto già in passato aveva accertato G. Lippold - tende verso una condanna per una sorta di derivazione classicistica dell'originale che riproduce; fatto su cui, a quanto sembra, è concorde anche J. Boardman. L'Afrodite di Berlino dovrebbe riprodurre fedelmente, e al di là di ogni dubbio, l’Afrodite crisoelefantina di Elide, la cui anteriorità rispetto allo Zeus di Olimpia era stata ipotizzata in origine da W. Schiering, sostenendo che la sua realizzazione fissa i limiti dell'attività dell'artista immediatamente prima del completamento dei lavori nell’ergastèrion di Olimpia, intorno al 435 a.C. Tuttavia, l'indubbia influenza che, anche secondo B. Vierneisel-Schlörb, esercitò sull’Afrodite di Berlino la figura con appoggio laterale dell’Afrodite dei Giardini di Alkamenes, rivela che la lavorazione dell’Afrodite di Elide dovrebbe essere avvenuta verso la fine del decennio 430-420 a.C., e con ogni probabilità subito dopo il completamento della statua di Zeus.
Quanto al problema dell’Urania di Atene, vale segnalare che la Ridgway pone in dubbio la tradizione di Pausania relativa alla sua paternità, come d'altra parte fa E. B. Harrison che, eliminando questa creazione dal catalogo delle opere fidiache e datandola al decennio del 420 a.C., sostiene la sua attribuzione ad Agorakritos. La tendenza ad allontanare da F. l’Urania di Atene si osserva già nell'ipotesi di S. Karouzou secondo cui la statua menzionata da Pausania sarebbe piuttosto una creazione di Kallimachos. Tra coloro che conservano in tutta la sua integrità la venerazione per l'attendibilità del periegeta, A. Delivorrias, ritenendo soprattutto che l'avanzata indagine di scavo di L. T. Shear Jr. nel santuario della dea (ormai definitivamente localizzato) possa dargli ragione, avanza, in uno studio ancora inedito al quale dà un contributo anche W. Hornbostel, l'identificazione della statua dell’Urania con il tipo dell’Afrodite Doria Pamphilj, solitamente, e per ultimo da G. Despinis, ritenuta opera di Agorakritos. L'esecuzione della scultura, secondo i criteri cronologici di B. Vierneisel-Schlörb, si può collocare nell'arco di tempo di entrambi i frontoni del Partenone, definendo parallelamente l'attività del maestro proprio sul piano della ricerca espressiva che immediatamente precede la sua partenza per Olimpia. Così, assieme con la più completa comprensione delle particolarità stilistiche che presentano alcuni dei rilievi del trono dello Zeus di Olimpia, viene a consolidarsi anche il giustificato sospetto che sia stato lo stesso F. a introdurre il c.d. stile ricco che orienta le tendenze artistiche di Atene in tutto l'ultimo venticinquennio del V sec. a.C.
Se di fatto l'ultima importante commissione assunta da F. ad Atene fosse la statua di culto dell'Urania, e se effettivamente l'identificazione di questa statua con il tipo dell'Afrodite Doria Pamphilj non risultasse frutto della fantasia di chi la propone, allora il riesame di tutte le ipotesi relative alla partenza del maestro verrebbe a essere davvero indispensabile. Come, dunque, il tipo statuario Doria Pamphilj può difficilmente datarsi prima del 435-430 a.C., altrettanto perde in attendibilità la dibattutissima presenza di F. a Olimpia nel 436, anno della vittoria di Pantarkes. In forma compiutamente sinottica bisogna sottolineare che il peso specifico delle tre relative notizie di Pausania (V, 11, 3; VI, 4, 5; VI, 10, 6) non costituisce un necessario presupposto per la realizzazione di una statua del vincitore precisamente in quel periodo. E ciò perché il primo passo (V, 11, 3), che del resto spiega i due successivi, non è un riflesso, nonostante quanto si è creduto in epoche posteriori (che cioè F. avesse riprodotto le fattezze del giovinetto da lui prediletto nella statua di un atleta anadoumenos), degli elementi decorativi del trono dello Zeus di Olimpia, derivando dalle stesse procedure favolistiche sulle quali si fondava anche il riconoscimento della figura dell'artista sullo scudo della Parthènos. Dalla formulazione del secondo passo di Pausania (VI, 4, 5) si deduce, senza alcuna incertezza, che nell'area sacra dell'Altis a Olimpia era posta anche una statua di fanciullo anadoumenos, il cui nome però non si era conservato sul basamento, come d'altro canto non si era salvata la firma dell'artista. La reazione che provoca la vista della statua e il suo collegamento con F. non è dovuta tanto all'educazione estetica del periegeta o alle sue conoscenze storico-artistiche, quanto al riflesso condizionato di effettuare una connessione con un tipo che già era stato segnalato in relazione con l'aneddotica relativa alle sculture di soggetto amoroso sul trono dello Zeus. Il vero e proprio riferimento con una sola, effettiva, immagine di Pantarkes è contenuto nel terzo passo di Pausania (VI, 10, 6) dove però F. non è menzionato come scultore, ma come erastès del personaggio raffigurato. A giudicare da molti esempi corrispondenti, questa statua poteva essere stata eretta molto tempo dopo la vittoria del giovane, indipendentemente dal punto di vista della Ridgway secondo la quale tutta la vicenda non sarebbe altro che una «tarda invenzione», e anche a prescindere dalle difficoltà che emergono dai tentativi finora effettuati di identificare la sua figura in diversi tipi statuari.
L'immagine che oggi fissiamo per la statua crisoelefantina dello Zeus di Olimpia continua a basarsi sulla descrizione di Pausania (V, 11, 1-10), la quale rispecchierebbe, secondo B. M. Connel, la più recente sistemazione dell'opera, e sulle monete di Elide, il cui studio è stato ripreso da P. R. Franke. Le attese che E. Kunze aveva riposto nelle matrici fittili rinvenute nell'ergastèrion di Olimpia sono state smentite nel frattempo dalle successive ricerche di W. Schiering. Indipendentemente, comunque, anche dalle opinioni pessimistiche di T. Hölscher (per cui, a eccezione del fregio dei Niobidi e dei gruppi delle sfingi, nessun'altra componente del monumento venne riprodotta in epoca romana) la ricerca archeologica, con inesauribile pertinacia, continua a ricercarne le tracce nel corso del tempo. I resti della statua di culto del Tempio di Zeus a Cirene, e la testa, che risulta meglio conservata, come aveva messo in evidenza anche P. Mingazzini, difficilmente permettono di precisare in quale misura ci troviamo di fronte a una riproduzione fedele, o a una trasformazione solo indirettamente influenzata dell'originale fidiaco. Lo stesso vale per le teste Chatsworth-Villa Giulia che periodicamente si ripresentano nelle ricerche, mentre resta incerta anche la discendenza dallo Zeus di numerose raffigurazioni statuarie di imperatori romani prese in esame da H. G. Niemeyer. Una maggior percentuale di possibilità di cogliere nel segno si ravvisa nel collegamento già effettuato parecchio tempo fa da E. Langlotz di un torso del Museo Nazionale Romano, che A. Linfert ha giustamente sollevato dall'oblio. In rapporto con la Nike nella mano destra del dio e con la sua identificazione da parte di H. Schrader con il tipo «Berlino Κ 181-183», andrebbe segnalato il punto di vista inizialmente incoraggiante di Heiderich, secondo cui diverse delle matrici fittili dell’ergastèrion fidiaco di Olimpia rendono un panneggio del medesimo tipo. Questa posizione è respinta da W. Schiering anche per motivi tecnici, a parte la sentenza di condanna espressa da A. Goulaki delle figure di Berlino come opere classicistiche e da H.-V. Herrmann come opere arcaistiche. La rivalutazione del tipo, accettata anche da B. Conticello, è sostenuta, peraltro, da molti altri argomenti: sarebbe sufficiente, p.es., sottolineare la stretta parentela che con esso presenta la Nike dell’Atena Parthènos, quale è tramandata in miniatura dall'Atena di Varvakeion. Come ha di nuovo posto di evidenza M. Robertson, è impressionante, d'altro canto, anche la corrispondenza del lato posteriore con quello conservato nella replica berlinese dell’Afrodite Urania di Elide.
La recente pubblicazione delle matrici fittili dell’ergastèrion di Olimpia da parte di W. Schiering rivela il fasto e la grandezza di questo importante elemento dello Zeus fidiaco, sia pure con una tipologia diversa.
A livelli più avanzati è giunta la ricerca sui problemi relativi alla forma originaria del trono, principalmente dopo la loro trattazione da parte di J. Fink, che riassume e supera le idee espresse in precedenza, a prescindere dalla fallace valutazione cronologica dell'opera e dalle contraddittorie conclusioni che ne derivano. Gli elementi struttivi di questo seggio monumentale, la cui altezza (m 12,37 senza la base) corrisponde, come sottolineava H.-V. Herrmann, a un odierno edificio di quattro piani, dovevano essere a sezione rettangolare e non circolare; in contrapposizione con il profilo tornito, che dopo H. Schrader, viene riproposto da A. Mallwitz e K. Stähler, e per quanto difficilmente, sulla base dei dati oggi in nostro possesso, le Nikai danzanti dei piedi del trono si accordino con la sezione rettangolare della struttura, si potrebbe considerare come indiretta testimonianza di conferma l'automatica connessione dell'opera, nella menzione che ne fa Pausania, con il trono di Apollo ad Amicle. Sulla base dell'esempio di Amicle, il trono nella sua architettura (così si può definire, date le grandi dimensioni e dato il peso che sosteneva) non dovette mai avere una struttura esclusivamente e soltanto in legno. L'uso di pietra nera di Eleusi meglio assicurerebbe, d'altro canto, l'appoggio di statue su travature orizzontali e sul coronamento della spalliera, fatto, questo, corroborato anche dalla presenza delle colonne di sostegno intermedie, come intervento aggiuntivo di sicurezza sulla qualità di struttura architettonica che doveva definire la costruzione del complesso. Una parte degli elementi decorativi di cui ci resta la documentazione in repliche di basalto nero dovevano, per conseguenza, essere stati lavorati originariamente in bronzo e non in ebano. In accordo con la strutturazione architettonica del seggio del dio e con l'esistenza di colonne, aggiunte per motivi di sicurezza statica, giustamente K. Stähler localizza, seguendo H. Schrader, i quadri di Panainos negli «intercolumni» dei piedi del trono, mentre al contrario W. Gauer, A. H. Borbein, W. Volcker-Janssen, accettano la loro collocazione, proposta da W. Dörpfeld, sui parapetti che impedivano l'accesso alla navata centrale della cella intorno alla base della statua. Tra i vari elementi decorativi del trono le Chàrites e le Hòrai del coronamento della spalliera (che erano state ricostruite nel restauro grafico di H. Schrader simili a hekàteia e che giustamente sono state eliminate da A. Mallwitz e J. Fink) dovevano essere raffigurate a rilievo secondo H. Walter. Più netta è l'immagine dei gruppi con le sfingi sui sostegni dei braccioli, principalmente dopo la nuova ricostruzione di F. Eichler. La stessa cosa vale per le raffigurazioni dell'uccisione dei Niobidi nei rilievi delle facce laterali sotto il piano del seggio, dopo la pubblicazione del rilievo di Modena da parte di G. V. Gentili, dei trovamenti del Tempio di Posidone a Isthmia da parte di M. Sturgeon e del cratere Baksy all'Ermitage da parte di B. Shefton, che ha confermato la ricostruzione di due fregi nel trono fidiaco. Per la composizione originaria, anche per il numero dei personaggi raffigurati, sono valide, comunque, le osservazioni critiche di Ch. Vogenpohl e di P. C. Bol. Diversi temi di Amazzonomachie che ornavano le traverse orizzontali laterali erano state poste in relazione da E. Bielefeld con una serie di notevoli figure di Amazzoni, regolarmente a cavallo, alquanto trascurate dalla ricerca, come d'altronde l’Amazzonomachia del suppedaneo che J. Fink identificava nella raffigurazione che circonda l'altare circolare di Nicopoli. Il problema delle Amazzonomachie va riesaminato in rapporto anche con i rilievi del teatro di Corinto, la cui derivazione da modelli classici è stata sostenuta da M. C. Sturgeon. Secondo H. Kyrieleis le raffigurazioni sulle traverse laterali dovevano essere a rilievo, al contrario del gruppo di atleti sulla traversa della facciata principale, che era costituito da una serie di statue. Nella ricostruzione di J. Fink, come anche in quella di H. Walter, la figura dell’anadoumenos è rappresentata dal Diadumeno Farnese, opera identificata da A. Furtwängler, che dopo l'analisi di P. Zanker è oggi ritenuta dai più una produzione classicistica. Con la statua di atleta che ornava il trono si deve più immediatamente mettere in rapporto il tipo «New York-Abbati-Treviri-Palazzo Riccardi» che presenta, come messo in evidenza più di recente da G. Despinis, ma anche da altri studiosi, sorprendenti somiglianze con i gruppi delle sfingi nella resa della capigliatura. In relazione all'interpretazione in chiave classicistica di quest'opera da parte della Ridgway, resta valido quanto aveva già osservato G. Becatti circa la sua resa plastica, di problematica paternità fidiaca, indipendentemente dalla sua identificazione con il tipo della statua dell'Aids. Dai sostegni dei piedi posteriori del trono, K. Stähler riteneva potesse provenire il prototipo della Nike angolare che è tramandata dalle repliche di Detroit-Napoli-Stoccolma, andando incontro al parere contrario di A. Goulaki. Per quanto riguarda infine la decorazione del basamento E. B. Harrison - completando un ciclo di dubbi che, inaugurato con G. Lippold, prosegue con H. V. Herrmann e H. Walter - ha scosso la convinzione da lungo tempo consolidata che il rilievo di Galaxidi al Louvre riproduca il tema centrale della raffigurazione con la nascita di Afrodite, e questo malgrado la sua stretta dipendenza iconografica dallo scudo dell’Atena Parthènos messa in evidenza da S. Karouzou. Certamente poco convincente è la ricostruzione di Selene basata su pitture vascolari di stile severo, proposta da J. Fink. La futura ripresa del problema non sarà inutile che si rivolga anche a una ricerca ex novo sui rilievi neoattici di Palazzo del Drago, Museo ex-Lateranense, Stoccolma, i più antichi dei quali, per ragioni cronologiche, non possono aver rapporti con il basamento della Parthènos, mentre quest'ultimo, maggiormente libero dopo la definitiva ricomposizione della base della Nemesi di Ramnunte a opera di B. Petrakos, cerca un posto in una grande creazione del decennio 430-420 a.C.
Il fatto che l’ergastèrion di Olimpia non fosse, in ogni caso, pronto ad accogliere il gruppo dei collaboratori di F. prima del 435 a.C., in collegamento con quanto già detto prima riguardo alla data dell’Afrodite Urania di Atene, ma anche circa l'anno in cui dovette essere richiesto per la realizzazione dello Zeus di Olimpia in accordo con i dati cronologici dell’Atena Parthènos, rende ammissibile l'ipotesi che l'opera sia stata completata nell'ambito del decennio 430-420 a.C., proprio nel primo e più rovinoso periodo della guerra del Peloponneso. Da questo punto di vista, nel carattere propagandistico dei temi della decorazione non si distinguono solo i riferimenti allusivi alle guerre persiane rilevati da W. Gauer e da E. Thomas, o alla proiezione di un elevato modello di èthos e di comportamento che vi individuava W. Volcker-Janssen in rapporto alla concezione centrale della creazione: quella che H. F. North definiva la sophrosỳne di Zeus. Ciò che principalmente vi risalta è l'idea dell'unità panellenica come contrappeso alla lotta fratricida, in rapporto con un ideale di armonia le cui misure possono essere comprese solo con l'autorità della garanzia divina.
Non è semplice valutare quanto ancora sia vissuto e abbia operato F. dopo il completamento dello Zeus. Il 430 a.C. che solitamente è indicato come il limite inferiore della sua attività, iniziata intorno al 460 a.C., non sembra essere una data fissa, poiché niente impedisce una prosecuzione della sua carriera anche dopo la sua delimitazione, da parte di G. Donnay, tra il 465 e il 425 a.C. Se certamente l’Afrodite di Berlino rappresenta uno stadio più avanzato, allora l’Afrodite crisoelefantina di Elide, che ne costituisce una ripresa, non può essere stata creata subito dopo l’Atena Parthènos e neppure nel corso della lavorazione dello Zeus di Olimpia: perciò il termine dell'attività di F. - almeno stando ai dati oggi in nostro possesso - dovrebbe sfiorare la fine del decennio del 420 a.C.
In relazione all'inizio dell'attività artistica di F., negli oscuri nomi, tramandatici come quelli dei suoi maestri, di Hageladas, Hegias o Hegesias, non sarebbe inopportuno riproporre le opinioni, generalmente respinte, di W. Fuchs circa Kritios e Nesiotes. Se di fatto così stessero le cose, andrebbe parallelamente ricontrollata l'idea di A. E. Raubitschek che nella nota Atena di Euenor potrebbe essersi conservata una sua opera giovanile, fatto questo che sembra condiviso tanto da A. Linfert quanto da A. Giuliano. Come opera giovanile di F. in un primo momento G. Dontas aveva pensato al tipo di testa barbata inv. 2344 del Museo dell'Acropoli, sostenendo poi un'attribuzione ad Alkamenes, contrariamente alla Ridgway che anche qui vede una «rielaborazione romana» e a J. Dörig che giudica favorevolmente un suo legame con Onatas. Quanto alle poche attribuzioni non esplicitamente indicate dalle fonti, sarà necessario ricordare la giusta rivalutazione del tipo del Posidone Krakau, altrimenti considerato classicistico, da parte di A. Linfert, che sottolinea la sua derivazione dal tipo dell’Anacreonte Borghese, e della testa tipo «Perseo» solitamente ritenuta mironiana, che ricorda da vicino l’Apollo di Kassel, fatto che precisamente spinse J. Frel a mettere in dubbio la paternità fidiaca di quest'ultimo.
Sulla base di quanto è stato svolto finora sono valide senza alcun dubbio le conclusioni di A. H. Borbein: «queste e altre opere che sono state attribuite a F., non consentono tuttavia, in base a un capolavoro anche esteriormente rimarchevole, di giungere a qualche conclusione, come nel caso di Policleto e di Prassitele». Tuttavia, tra i fatti positivi della ricerca più recente è necessario aggiungere il relativo chiarimento della confusione dominante all'epoca di Pausania circa la paternità delle statue di culto della Nemesi di Ramnunte e della Madre degli Dei nell’Agorà di Atene, due creazioni monumentali di età classica che dopo il fondamentale studio di G. Despinis possono ora assegnarsi, al di là di ogni dubbio, ad Agorakritos.
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Sul donario delfico e sul monumento dell’Agorà di Atene; sulle testimonianze delle copie romane e sui Bronzi di Riace: H. Walter, Der Meister der NordHeroen vom Ostfries des Parthenon, in AM, LXXI, 1956, pp. 173-179; E. Berger, Das Urbild des Kriegers aus der Villa Hadriana und die marathonische Gruppe des Phidias in Delphi, in RM, LXV, 1958, pp. 6-32; D. Kluwe, Das Marathonweihgeschenk in Delphi-Eine Staatsweihung oder Privatweihung des Kimon, in WissZJena, XIV, 1965, pp. 21-27; J· Dörig, Kalamis-Studien, in Jdl, LXXX, 1965, pp. 230-236, 264; G. Μ. Α. Richter, The Portraits of the Greeks, I, Londra 1965, pp. 94-97, figg. 381-383; V. M. Strocka, Aphroditekopf in Brescia, in Jdl, LXXXII, 1967, pp. 110-156; E. Kluwe, Das perikleische Kongressdekret, das Todesjahr des Kimon und seine Bedeutung für die Einordnung der Miltiadesgruppe in Delphi, in WissZRostock, XVII, 1968, pp. 677-683; W. Gauer, Weihgeschenke aus den Perserkriegen (IstMitt, Suppl. 2), Tubinga 1968, pp. 24-25, 65-70; id., Die griechischen Bildnisse der klassischen Zeit als politische und persönliche Denkmäler, in Jdl, LXXXIII, 1968, pp. 128-132; Η. Lauter, Zur Chronologie römischer Kopien nach Originalen des 5. Jhs. (diss.), Bonn 1968, p. 21 nota 90; T. Hölscher, Ein attischer Heros, in AA, 1969, pp. 410-427; J. Frel, L'erma di Milziade del Museo Nazionale di Ravenna, in FelRav, s. III, XLVIII-XLIX, 1969, pp. 5-17; D. Pandermalis, Untersuchungen zu den klassischen Strategenköpfen (diss.), Friburgo 1969, pp. 81-83; G· Becatti, Restauro dell'Afrodite seduta fidiaca, in Omaggio a R. Bianchi Bandinelli (StMisc, XV, 1969-70), Roma 1970, pp. 41-42; T. L. Shear Jr., The Monument of the Eponymous Heroes in the Athenian Agora, in Hesperia, XXXIX, 1970, pp. 145-222; R. Hampe e altri, Katalog der Sammlung antiker Kleinkunst des Archäologischen Instituts der Universität Heidelberg, II. Neuerwerbungen 1957-1970, Magonza 1971, pp. 111-117, n. 147; Η. Walter, Griechische Götter, cit., pp. 335-336, fig. 310; H. A. Thompson, R. E. Wycherley, The Agora of Athens (The Athenian Agora, XIV), Princeton 1972, pp. 38-41; P. Zanker, in Helbigt, IV, 1972, n. 3198; W. Trillmich, Bemerkungen zur Erforschungen der römischen Idealplastik, in Jdl, LXXXVIII, 1973, p. 274, figg. 29-30, p. 276, figg. 31-32; A. H. Borbein, Die griechische Statue des 4. Jhs. v.Chr., ibid., pp. 75-76, note 149-150, 86-87, 101-102; P. Zanker, Klassizistische Statuen. Studien zur Veränderung des Kunstgeschmacks in der römischen Kaiserzeit, Magonza 1974, pp. 91-92 n. 6; Α. Ε. Raubitschek, Zu den zwei attischen Marathondenkmälem in Delphi, in Mélanges helléniques offerts â G. Daux, Parigi 1974, pp. 315-316; T. Hölscher, Die Nike der Messenier und Naupaktier in Olympia, in Jdl, LXXXIX, 1974, p. 76 nota 17; U. Kron, Die zehn attischen Phylenheroen. Geschichte, Mythos, Kult und Darstellungen (AM, Suppl. 5), Berlino 1976, in part. pp. 215-232; ead., Eine Pandion-Statue in Rom, in Jdl, XCII, 1977, pp. 139-168; R. Louis, Guerre et religion en Grèce à l'époque classique, Parigi 1979, pp. 165, 175-176 nota 52; B. Vierneisel-Schlörb, Glyptothek München, cit., pp. 13 note 14, 106, 120-121, 149-150; W. Fuchs, Die Skulptur, cit., pp. 77-78, figg. 70-71; E. B. Harrison, The Iconography of the Eponymous Heroes on the Parthenon and in the Agora, in Greek Numismatics and Archaeology. Essays in Honor of M. Thompson, Wetteren 1979, pp. 71-85; Ε. Voutiras, Studien zur Interpretation..., cit., pp. 112-121, n. 11, 168 nota 767; Ε. Minakaran-Hiesgen Ruppertsweiler, Zum «Krieger» in Tivoli, in Tainia, cit., pp. 181-197; Β. Sismondo Ridgway, Fifth Century, cit., pp. 170, 237-239; AA.VV., Due bronzi da Riace (BdA, s. speciale, III), Roma 1984, con bibl. prec.; E. Pochmarski, Stilkritische Bemerkungen zu den Grossbronzen von Riace, in Römische Historische Mitteilungen, XXVI, 1984, pp. 13-29; J. Barron, in J. Boardman, Greek Sculpture. The Classical Period, cit., pp. 53-54, 84; Β. Conticello e altri, Alla ricerca di Fidia, cit., pp. 62-63; J- Marcadé, Rapports techniques et publications archéologiques: à propos des bronzes de Riace, in RA, 1986, pp. 89-100; C. Houser, Greek Monumental Bronze Sculpture of the Fifth and Fourth Cent. B.C., New York-Londra 1987, pp. 165-173; O. R. Deubner, Die Bronzen von Riace. Versuch einer Deutung und kunsthistorischen Zuordnung, in Πρακτικα του XII Διεθνούς Συνεδρίου..., cit., III, pp. 74-78; G. Dornas, Some Remarks on the Bronze Statues of Riace Marina, ibid., pp. 89-96; W. Fuchs, Thesen zu den Riace-Statuen, ibid., pp. 97-98; O. R. Deubner, Die Statuen von Riace, in Jdl, CHI, 1988, pp. 127-153; Α. Η. Borbein, art. cit., in Festschrift für Ν. Himmelmann, cit., p. 104; V. M. Strocka, Eine Replik des Münchner Königs, in Kanon..., cit., pp. 112-118.
Tipi statuari: Atena Arèia di Platea: H. G. Niemeyer, Promachos. Untersuchungen zur Darstellung der bewaffneten Athena in archaischer Zeit, Waldsassen i960, pp. 70-73; W. Gauer, Weihgeschenke, cit., pp. 24-25, 31, 98-100; Β. Vierneisel-Schlörb, Glyptothek München, cit., p. 141 nota 5; W. Fuchs, Die Skulptur, cit., pp. 187-190, fig. 200; Β. Sismondo Ridgway, Fifth Century, cit., pp. 169-170; A. Linfert, art. cit., in AM, XCVII, 1982, pp. 59 n. 4, 71; J. Dörig, in J. Boardman, J. Dörig, W. Fuchs, M. Hirmer, Die griechische Kunst, Monaco 19843, p. 126, fig. 153a; B. Conticello e altri, Alla ricerca di Fidia, cit., pp. 60-61. - Atena di Pellene: H. G. Niemeyer, Promachos, cit., p. 72 nota 274; Β. Vierneisel-Schlörb, Glyptothek München, cit., p. 141, nota 5; B. Sismondo Ridgway, Fifth Century, cit., p. 169; A. Linfert, art. cit., in AM, XCVII, 1982, p. 58 n. 2; A. Giuliano, Arte Classica, cit., p. 580 ss.; Β. Conticello e altri, Alla ricerca di Fidia, cit., p. 52. - Atena di Tritea: A. Linfert, art. cit., in AM, XCVII, 1982, pp. 58-59 n. 3, 79. - Atena Pròmachos e Atena Medici: H. G. Niemeyer, Promachos, cit., pp. 76-86; W. Gauer, Weihgeschenke, cit., pp. 24-25, 38-39, 103-105; M. H. Groothand, The Owl on Athena's Hand, in BABesch, XLIII, 1968, pp. 35-51, in part. p. 44 ss.; E. Mathiopoulos, Zur Typologie der Göttin Athena im fünften Jahrhundert ν. Chr., Bonn 1968, pp. 7-47; E. Kluwe, Studien zur grossen «ehernen» Athena des Phidias, in Die Krise der griechischen Polis (Schriften der Sektion fur Altertumswissenschaft der Deutschen Akademie der Wissenschaften zu Berlin, LV, 1), Berlino 1969, pp. 21-28; H. Herdejürgen, Bronzestatuette der Athena. Bemerkungen zur Herkunft des archaischen Promachostypus, in AntK, XII, 1969, pp. 102-110; J. Travlos, Bildlexikon zur Topographie des antiken Athen, Tubinga 1971, pp. 55, 70-71 n. 125; Η. Walter, Griechische Götter, cit., p. 238, fig. 214; E. Β. Harrison, Preparations for Marathon. The Niobid Painter and Herodotus, in ArtB, LIV, 1972, pp. 390-402, in part. p. 396; G. Despinis, Ακρολιθα, Atene 1975, pp. 11-16, 23-26, 37; M. Gernand, art. cit., in AM, XC, 1975, pp. 37-40; M. Weber, Die Amazonen von Ephesos, in Jdl, XCI, 1976, pp. 84-85; B. Vierneisel-Schlörb, Glyptothek München, cit., pp. 64, 66 nota n, 134, 141 nota 5, 156, 165, 221 nota 9; R. KastenbeinTölle, Frühklassische Peplosfiguren. Originale, Magonza 1980, pp. 58-59, 75; B. Sismondo Ridgway, Fifth Century, cit., pp. 169-170; A. Linfert, art. cit., in AM, XCVII, 1982, pp. 59 n. 5, 66 nota 47, 68-71, fig. 17; L. Alscher, Griechische Plastik, II, 2, cit., pp. 120-134, 398-399; P. Karanastassis, Untersuchungen zur kaiserzeitlichen Plastik in Griechenland, II. Kopien, Varianten und Umbildungen nach Athena-Typen des 5. Jhs. v. Chr., in AM, CII, 1987, pp. 339-350, 401-416 BII 1-9; B. Conticello e altri, Alla ricerca di Fidia, cit., pp. 53-54; G. Zimmer, Griechische Bronzegusswerkstätten. Zur Technologieentwicklung eines antiken Kunsthandwerkes, Magonza 1990, pp. 62-71. - Atena Lemnia: H. Walter, Griechische Götter, cit., pp. 232-234, fig. 211; W. H. Gross, voce cit., in KlPauly, c. 723; Ν. Kunisch, Zur helmhaltenden Athena, in AM, LXXXIX, 1974, pp. 85-104; G. Gualandi, L'Atena Lemmia ed il momento classico nella collezione Palagi, in Carrobbio, II, 1976, pp. 205-224; F. Maggi, Un passo di Imerio, la Lemnia e l'Atena pensierosa, in PP, XXXI, 1976, pp. 324-335; Β. Vierneisel-Schlörb, Glyptothek München, cit., pp. 9 nota 6, 10, 139, 141 nota 6a, 165, 194 nota 7; J. de Waele, Pheidias' und Euphranors Kleidouchoi?, in AA, 1979, pp. 27-30; W. Fuchs, Die Skulptur, cit., pp. 191, fig. 204, 668; E. Simon, Die Götter der Griechen, Monaco 19802, pp. 204-207, figg. 189-192; B. Sismondo Ridgway, Fifth Century, cit., pp. 170-171; A. Linfert, art. cit., in AM, XCVII, 1982, pp. 59 n. 7, 60-66, 72, 74; L. Alscher, Griechische Plastik, II, 2, cit., pp. 116-121, 384, 389; K. J. Hartswick, The Athena Lemnia Reconsidered, in AJA, LXXXVII, 1983, pp. 336-346; J. Dörig, in Die griechische Kunst, cit., p. 142, fig. 184; H. Protzmann, Antiquarische Nachlese zu den Statuen der sogennanten Lemnia Furtwänglers in Dresden, in Jahrbuch der Staatlichen Kunstsammlungen Dresden, 1984 (1987), pp. 7-22; O. Palagia, Ερύθημα ... αντι κράνους. In Defence of Furtwängler's Athena Lemnia, in AJA, XCI, 1987, pp. 81-84; B. Conticello e altri, Alla ricerca di Fidia, cit., pp. 57-59; E. Β. Harrison, Lemnia and Lemnos: Sidelights on a Pheidian Athena, in Kanon..., cit., pp. 101-107; A. Linfert, Keine Athena des Phidias in Konstantinopel?, in Boreas, XII, 1989, pp. 137-140; A. H. Borbein, art. cit., in Festschrift N. Himmelmann, cit., pp. 102, 104.
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Delivorrias)