ORSINI, Felice
ORSINI, Felice. – Nacque a Meldola, allora nella legazione di Forlì, il 18 dicembre 1819, da Giacomo Andrea (1788-1857), di Lugo, e da Francesca Ricci (1799-1831), di Firenze.
Giacomo Andrea fu amministratore dei beni della famiglia Borghese Aldobrandini, poi dei Doria Pamphili. Da Francesca Ricci ebbe tre figli (oltre a Felice, la primogenita Rosa e Leonida). Si arruolò assai giovane nell’esercito napoleonico e, divenuto capitano, fu forse fatto prigioniero nel corso della campagna di Russia. Rimpatriato nel 1814, aderì alla carboneria e nel 1820 fu incarcerato per alcuni mesi a Cesena, in seguito alle prime inchieste sulle ‘vendite’ romagnole. Trasferitosi a Firenze, nel febbraio 1821 fu segnalato dalla polizia granducale come uno dei primi ad avere introdotto la carboneria in città. La sua vita sembrò più regolare dopo il fallimento dei moti del 1821. Nel 1828, tuttavia, fu arrestato di nuovo a Firenze, espulso dal Granducato e costretto a riparare a Bologna. Decise allora di affidare i figli, anzitutto Felice, poi anche Leonida (1823-1897), al fratello Orso (1786-1864), che risiedeva a Imola. Morta precocemente la prima moglie, si risposò con Matilde Fabbri (1811-1849), da cui ebbe altri quattro figli, fra cui Cesare, garibaldino dei Mille che, dopo avere vissuto a lungo in America latina, divenne una personalità politica dell’Italia liberale: dal 1883 al 1886 fu deputato per il primo collegio plurinominale di Roma, dove si era stabilito al suo rientro in Italia.
Le prime testimonianze dirette della personalità e della formazione di Felice risalgono al soggiorno imolese, che data dalla fine degli anni Venti. Se il suo secondo nome era Teobaldo, in omaggio al santo protettore della carboneria, il terzo, Orso, rientrava nella tradizione familiare: era infatti quello dello zio amatissimo, anche se totalmente estraneo al filone ‘rosso’ degli Orsini. Infatti, ricco commerciante «onesto, molto considerato da’ suoi conterranei», era, secondo la restituzione narrativa del nipote, «devoto al governo pontificio, rigido osservante delle pratiche religiose, caritatevole, severo» (Memorie politiche scritte da lui medesimo, Torino 1858). Fra lui e Giacomo Andrea la distanza era abissale. Nonostante ciò, gli anni che Felice trascorse presso lo zio a Imola furono complessivamente sereni. Il suo carattere, tuttavia, non tardò a manifestarsi: scarsa docilità, forte immaginazione, propensione alle azioni temerarie.
Il 5 luglio 1836 uccise involontariamente il cuoco di casa, Domenico Spada: aveva approfittato dell’assenza dello zio per esercitarsi con la pistola, ma gli partì un colpo. Le circostanze della morte di Spada restarono oscure: fu solo grazie alle relazioni di Orso col potere pontificio e alla benevolenza del vescovo di Imola, Giovanni Maria Mastai Ferretti, che al giovane fu concesso di riparare per qualche tempo in Toscana, da dove ritornò solo in occasione del processo a suo carico, che peraltro si concluse senza gravi conseguenze.
L’ambiente familiare cercò di spingerlo verso la carriera religiosa e, per qualche mese, fino al dicembre 1837, fu sul punto d’intraprendere il noviziato fra i gesuiti: ma il suo carattere era incompatibile con la disciplina della Compagnia. Tornò a Bologna dal padre, che alla sua ‘conversione’ non aveva mai creduto, e cominciò a studiare per prepararsi all’Università: inglese, francese, geometria, filosofia. Lo zio gli suggeriva d’iscriversi a giurisprudenza; Felice avrebbe preferito le scienze esatte. La spuntò il vecchio Orso e, per Felice cominciarono anni intensi e piacevoli. Alle materie curriculari affiancò la lettura dei classici latini e del pensiero politico: l’apprendistato del rivoluzionario romantico. La lontananza da Imola rese più blando l’effetto moderatore dei parenti clericali, liberando del tutto il suo temperamento decisamente estremista. Nonostante le distrazioni e le tentazioni della politica – per il momento più retoriche che reali – il 1° maggio 1843 avanzò regolare domanda per laurearsi nella facoltà legale e alla fine di giugno sostenne positivamente l’esame.
Era pronto per una vita comoda e tranquilla, quando, proprio nell’estate del 1843, fu coinvolto nelle azioni di una nuova società segreta, la Congiura italiana dei figli della morte, frutto della cospirazione di Eusebio Barbetti, persuaso che fosse giunto il tempo «di tentare a pro’ dell’Italia un movimento che [facesse] epoca negli annali del mondo» (ibid.).
Il ‘movimento’ non aveva nulla del sofisticato ripensamento della carboneria condotto dalla Giovine Italia: era, piuttosto, il frutto dell’incontro – in una realtà culturalmente arretrata – di vecchie impostazioni giacobine, molto democratismo letterario e vaghe eredità settarie preesistenti nella realtà felsinea. L’obiettivo era sempre lo stesso: unirsi in segretezza per liberare l’Italia con le armi, affidarsi a comitati segreti, esibire pose classiche e motti allusivi all’eredità rivoluzionaria francese.
In effetti, la Congiura bolognese, nella sua ingenuità, appariva più radicale rispetto ai moti romagnoli che, fra il 1843 e il 1845, mantennero in ebollizione lo Stato pontificio: essa mancava, cioè, della proposta riformista che animava i sudditi riottosi di Gregorio XVI, ancora incerti – pur partendo dalla comune base anticlericale – fra la forma nazionale e il gradualismo sostanziale. In ogni caso, si trattava di un piano dettagliato e fantasioso di assalto diretto al potere, la cui stesura, in virtù dei confidenti infiltrati fra la trentina di giovani animosi, arrivò quasi in tempo reale nelle mani della polizia, avviando l’immediata repressione. Barbetti fu arrestato il 27 ottobre 1843. Felice e Giacomo Andrea Orsini lo furono solo nell’aprile 1844, in seguito all’evoluzione delle indagini, allargate al territorio romagnolo. Giacomo Andrea era estraneo ai fatti, ma la sua casa era piena di stampa liberale e sovversiva: il che lo rendeva più che sospettabile. Fu proprio lui, nella sua prima deposizione, a creare non poca confusione sugli effettivi estensori dei piani eversivi, nel tentativo di ridimensionare il ruolo del figlio. In ogni caso, il coacervo di ingenuità e contraddizioni emergenti dai costituti indusse l’accusa a prescrivere la reclusione degli imputati che, ai primi di giugno, giunsero al forte di S. Leo. Vi rimasero per mesi, tanto da indurre alcuni a cercare la fuga (ma Orsini non prese parte al tentativo); furono poi tradotti alle Carceri nuove di Roma sul finire dell’anno, poco prima di Natale, per partecipare alla discussione della causa davanti al tribunale della Sacra Consulta. Il processo ebbe inizio il 28 febbraio 1845 e si concluse in primavera: Felice Orsini, condannato con Barbetti ed Enrico Serpieri all’ergastolo, entrò nei primi giorni di giugno 1845 nel forte di Civita Castellana per espiare la pena.
A cambiare la prospettiva di una lunga detenzione fu l’elezione al soglio pontificio del cardinale Mastai Ferretti: nel luglio 1846, in virtù dell’amnistia concessa ai ‘politici’, Felice tornò libero e si recò a trovare i parenti a Meldola e a Imola. In settembre partì alla volta di Firenze, persuaso di cominciare davvero la vita di avvocato. A Firenze, però, le seduzioni del dibattito pubblico, più aperto ed esplicito rispetto allo Stato pontificio, lo riportarono sulla via della militanza. La polizia granducale, considerandolo ‘temibile’, lo sorvegliò nei suoi spostamenti e nei suoi contatti: il mondo commerciale ebraico di Livorno, i caffè della capitale, gli editori, gli affari sentimentali. Il 22 luglio 1847 apparvero a Firenze i primi esemplari dell’opuscolo Alla gioventù italiana. Discorso, che fu la sua prima, vera opera politica.
Si trattava di una ricapitolazione della vicenda italiana dagli albori, ma anche dell’analisi dell’azione patriottica degli ultimi anni. Orsini guardava al popolo, l’«essere che forma il nervo delle nazioni», e si chiedeva come renderlo protagonista dell’impresa italiana, da cui dipendeva direttamente la sua libertà. L’impostazione era mazziniana, anche se non esplicitamente: polemica antifrancese, ruolo esemplare degli esuli, pedagogia del martirio (resa evidente dai fratelli Bandiera), attenzione alla politica europea, alla quale agganciare il grande moto di emancipazione. Rispetto alle ingenuità libresche del periodo bolognese, il salto di qualità, sul quale aveva di sicuro influito il clima più aperto e internazionale di Firenze, era evidente.
L’autorità granducale decise di allontanare in via definitiva lo scomodo romagnolo, il quale nel frattempo stava corteggiando Assunta Laurenzi, figlia del dottor Ercole, che avrebbe sposato nel giugno 1848. Ci volle del bello e del buono per cacciare Orsini, rassegnatosi infine a tornare in Romagna per la via di Forlì. In realtà, fra l’autunno del 1847 e i primi mesi del 1848, i suoi contatti e la sua attività fra i due versanti dell’Appennino furono continui: in primo luogo con Nicola Fabrizi, conosciuto al tempo del tentativo fallito del 1843 a Bologna; e poi con l’élite mazziniana di origine toscana, che lo introdusse nella rete cospirativa del patriota genovese.
La qualità del suo impegno era resa più preziosa dalla disponibilità a farsi rivoluzionario nazionalista senza aspirazioni alla leadership: «la redenzione patria è la causa mia: per lei vivo […] – aveva scritto nel suo opuscolo – e sono intento per seguitare chi primo fra di noi, o principi o privati, innalzerà il grido della italiana indipendenza» (Alla gioventù italiana).
Gli eventi lo riportarono a Meldola, dove assunse il comando di una sezione della guardia civica, fra febbraio e marzo, poi forse a Imola, sempre come ufficiale della civica; in aprile, deluso dalle attese eccessive, si arruolò nei cacciatori di Livio Zambeccari (il battaglione Alto Reno), di cui fu posto al comando della 6ª compagnia. Fu impegnato a Legnago, sul Piave e a Paderno; poi seguì la sorte dei volontari a Treviso, a Mestre e infine a Vicenza, dove si batté il 20 maggio 1848. Ripiegò con il battaglione a Treviso, in attesa di un attacco austriaco che si verificò alla metà di giugno, anticipato da un violento bombardamento: assistette alla capitolazione anche di quella città. La ritirata per Noale, Monselice, Rovigo e Ferrara avvenne con un certo ordine nei giorni successivi; il 22 il corpo franco di Zambeccari entrò a Bologna, fra il plauso della parte più radicale dei popolani e la freddezza dei notabili.
Il 28 giugno 1848, Orsini sposò Assunta Laurenzi: ma neppure venti giorni più tardi era di nuovo all’opera, per riorganizzare il battaglione Alto Reno, una compagine mal equipaggiata di circa 600 uomini. Dopo l’occupazione di Ferrara da parte degli austriaci, il battaglione fu inviato a Cattolica e non partecipò ai fatti dell’8 agosto; rientrò a Bologna solo il 15 agosto, in un contesto urbano segnato da profondi contrasti, vista l’indisponibilità a cedere le armi di fronte a una, sia pur larvata, restaurazione pontificia. Proprio per liberarsi di una componente armata potenzialmente favorevole all’ala più radicale, il governo felsineo, per il tramite di Luigi Carlo Farini, segretario del cardinale Luigi Amat, aderì alla richiesta del governo di Venezia, avanzata da Mattia Montecchi e da Nicola Fabrizi, di far affluire l’Alto Reno e una parte del battaglione universitario a Venezia: cosa che accadde, dopo varie peripezie, e dopo un complicato viaggio per mare, il 14 settembre 1848. Il battaglione fu impiegato nella difesa del forte di Marghera e, il 27 ottobre, prese parte alla sortita per prendere Mestre: Orsini diede prova di coraggio e di fermezza, riportando un successo personale significativo. Ma di lì a poco, l’annuncio dell’assassinio di Pellegrino Rossi animò di nuovo il dibattito all’interno dell’Alto Reno sulle priorità della democrazia: il battaglione s’imbarcò alla volta di Ravenna a metà dicembre 1848.
Giunto a Bologna, per Orsini si aprì una nuova fase: a Roma, infatti, erano stati indetti i comizi a suffragio universale maschile per l’Assemblea costituente ed egli, candidatosi a Bologna e nella provincia di Forlì, prevalse nella sua terra d’origine con 4802 voti, piazzandosi decimo su 14 eletti. Iniziò così un periodo decisivo, a fianco delle personalità più rilevanti del Risorgimento. Il ruolo che ricoprì nella Repubblica Romana fu del tutto peculiare: infatti, apprezzato per il coraggio e la determinazione, fu inviato a mantenere l’ordine nelle province, spesso in aperto contrasto con altri patrioti o con organizzazioni malavitose aggregatesi al movimento repubblicano. La prima missione nel Frusinate, ai primi di marzo 1849, per contenere la violenza e gli abusi di Callimaco Zambianchi, compiuti in nome del nuovo regime, si risolse in un fallimento; più efficace l’azione condotta ad Ancona come commissario civile e militare della città e della provincia (aprile-maggio) e, in seguito, ad Ascoli, con la stessa investitura (maggio). Ad Ancona, si affrettò a dare un segno tangibile di forza per disarmare e contenere un potere paracriminale e terrorista infiltratosi nel governo repubblicano; ad Ascoli contrastò, invece, il brigantaggio legittimista. Tornato a Roma, partecipò all’agonia della Repubblica, dopodiché partì per l’esilio: Firenze, Genova, dove trascorse alcuni mesi e dove conobbe la madre di Mazzini, poi, dal marzo 1850, Nizza, con la moglie.
A Nizza, dove cercò di conciliare un faticoso ritorno alla normalità – come commerciante di canapa – con le sirene della militanza rivoluzionaria, nacquero le figlie Lucia Ernestina (1851-1924) e Ida (1853-1859); e lì, in virtù delle mediazione di Mazzini, ebbe occasione di stringere rapporti con Aleksándr Herzen, esule russo, e con i coniugi Georg ed Emma Herwegh. Con Emma, in particolare, la relazione fu stretta e assai decisiva, da allora fino alla sua morte.
Il tempo della riflessione e del ripiegamento durò poco: dati alle stampe Memorie e documenti intorno alla Repubblica Romana (Nizza 1850) e una Geografia militare della penisola italiana (Torino 1852), con lo strutturarsi del Partito d’azione, concepito da Mazzini come un esercito in borghese che avrebbe dovuto continuare la ‘guerra di popolo’ interrotta brutalmente nell’estate del 1849, Orsini si rese disponibile per altre missioni. Fra la fine del 1853 e l’estate del 1854, partecipò a tre tentativi, tutti falliti: a Sarzana e Massa; di nuovo in Lunigiana e, infine, in Valtellina. In questo periodo, fra un’azione e l’altra, fu a Londra presso Mazzini (vi giunse il 6 novembre 1853 per restarvi quattro mesi), passando e ripassando attraverso l’Europa occidentale, da Parigi alla Svizzera: «io era come un uffiziale al soldo di Mazzini», avrebbe scritto nelle Memorie. La prima rottura con l’esule genovese, tuttavia, si colloca proprio dopo il fallimento del moto valtellinese, quando, nell’autunno 1854, Orsini prese a elaborare un proprio piano insurrezionale personale. Era finita l’epoca della subalternità psicologica: cominciava una fase segnata dal tentativo di sondare le possibilità estreme del coraggio individuale, al di là dell’organizzazione e della rete patriottica.
Tornato a Nizza nell’agosto 1854, ruppe di fatto con la moglie, che non accettava di seguirlo nella sua ‘carriera’ di cospiratore professionista. Il mese successivo, da Ginevra, inviò allo zio Orso e al fratello Leonida una lettera, chiedendo loro di occuparsi della sua famiglia: Orso, in effetti, non fece mancare ad Assunta e alle figlie di Felice il necessario sostentamento. In ottobre, Orsini era a Milano col nome di copertura di Tito Celsi; qui, utilizzando un passaporto di Georg Herwegh, procuratogli da Emma, divenne Georg Hernagh, svizzero e soldato. In questa veste partì per Vienna, con lo scopo di arruolarsi nell’esercito imperiale per svolgervi un’intensa propaganda patriottica, approfittando del contesto internazionale in ebollizione a causa della guerra di Crimea: tutto inutile. Il 17 dicembre 1854 fu arrestato a Hermannstadt (Sibiu), allora in Ungheria, tradito da alcuni conoscenti con cui era venuto in contatto durante il viaggio. Naturalmente aveva compiuto imprudenze; aveva lasciato carte compromettenti, a Milano, nelle mani di Giuseppe Bideschini, ritenuto un fedele seguace di Mazzini, in realtà un confidente della polizia. Interrogato, non impiegò molto a confessare. Il 28 marzo 1855 entrò nella prigione del castello di S. Giorgio, a Mantova, a disposizione della Corte speciale incaricata di giudicare i delitti di alto tradimento. La sua cella era vicina a quella di Pier Fortunato Calvi, che fu giustiziato il 4 luglio 1855. La prospettiva della morte lo spinse a tentare una fuga ritenuta impossibile. Aiutato da Emma Herwegh e da altri – dentro e fuori la prigione – riuscì a procurarsi lime e lenzuoli per scendere lungo le mura della fortezza, gettarsi nel fossato e guadagnare, quindi, la libertà. Il tentativo ebbe luogo nella notte fra il 29 e il 30 marzo 1856 e fu coronato da successo. Nella caduta si slogò un piede e restò nel fossato fino al mattino, quando un pescatore di lago, Giuseppe Sugrotti, detto ‘Toffin’, rispondendo alle sue richieste di aiuto, lo caricò sulle spalle e con l’aiuto di due contadini lo portò in un luogo sicuro. Qui, tramite la rete della cospirazione, riuscì a fuggire a Genova, poi in Svizzera e infine a Londra.
Nella capitale britannica, si consumò un’ulteriore fase della sua avventurosa esistenza. La pubblicazione in inglese di due libri fortunatissimi, The Austrian dungeons in Italy. A narrative of fifteen months’ imprisonment and final escape from the fortress of S. Giorgio (London 1856), tradotto da Jessie Meriton White, e Memoirs and adventures written by himself (ibid. 1857), tradotto da George Carbonel, diedero al rivoluzionario romagnolo una fama incredibile. Le sue conferenze in giro per l’isola furono seguitissime e la sua fama di patriota e insieme di ‘avventuriero’ contribuirono a creare intorno a lui un alone mitico paragonabile a quello di Garibaldi. Non tardò la rottura definitiva con Mazzini, che vedeva nel ‘culto della personalità’ allestito da Orsini una deviazione pericolosa rispetto alla lotta per la causa nazionale condotta nella prassi quotidiana della propaganda e della cospirazione. D’altra parte, come sosteneva lo stesso Orsini, l’attrazione esercitata dai nuovi eroi senza divisa della rivoluzione dipendeva non dalle parole, ma dai fatti. Fatti erano stati la guerra del 1848-49, i moti, la fuga dal castello di Mantova: ora occorreva un’altra spinta, ancora più imponente, per costringere l’Europa a farsi carico della causa italiana.
L’idea, non nuova, fu il tirannicidio. La vittima individuata fu Napoleone III, reo di aver assassinato la Repubblica Romana. Ci avevano già provato in due, nel 1855: Giuseppe Piolti de’ Bianchi e Giovanni Pianori, arrestato e ghigliottinato; nel 1857, Paolo Tibaldi aveva fallito un altro tentativo, che gli dischiuse la via della Caienna. Simone Bernard, fuoriuscito francese in Inghilterra, procurò a Orsini ciò che avrebbe potuto fare la differenza: micidiali bombe al fulminato di mercurio che, lanciate contro carrozze in corteo, avrebbero di sicuro annientato uomini e cose. Orsini, aiutato da Andrea Pieri di Lucca, dal napoletano Antonio Gomez e da un giovane nobile bellunese, Carlo di Rudio, preparò con cura il suo disegno: attaccare Napoleone III mentre si recava all’Opéra, la sera del 14 gennaio 1858. L’attentato di rue Le Peletier si trasformò in una carneficina: i morti furono almeno otto, i feriti più di 150, mentre imperatore e imperatrice rimasero illesi. Le bombe lanciate furono tre, due delle quali di sicuro da Gomez e da di Rudio. I componenti del gruppo furono subito arrestati: Gomez finì alla Caienna, di Rudio fu graziato e inviato ai lavori forzati. Orsini, pur difeso brillantemente dall’avvocato radicale Jules Favre, fu condannato a morte, così come Pieri.
Scrisse due lettere a Napoleone III, l’11 febbraio e l’11 marzo. Si dichiarava colpevole, rinnegava l’assassinio politico, chiedeva all’imperatore di battersi per la causa italiana. Fossero interpolate dal legale o frutto della sua alterata personalità da precursore dell’‘eroe di massa’, le dichiarazioni di Orsini colpirono l’opinione pubblica, ripristinando una lettura ‘nobile’ dell’attentato che l’effetto terroristico delle bombe sembrava aver reso assai poco plausibile.
Fu ghigliottinato il 13 marzo 1858 a Parigi, sulla piazza de la Roquette, dopo avere gridato: «Viva l’Italia! Viva la Francia!».
Fonti e Bibl.: Oltre ai materiali conservati presso l’Istituto per la Storia del Risorgimento italiano di Roma, un significativo fondo di autografi e di documenti orsiniani è consultabile presso la Biblioteca comunale di Forlì, Raccolte Piancastelli. Inoltre: P. Mastri, F. O. nel Forte di San Leo, Imola 1908; A. Luzio, F. O. Saggio biografico, Milano 1914; R. Cadeo, L’attentato di O. (1858), ibid. 1932; Lettere, a cura di A.M. Ghisalberti, Roma 1936; A. Luzio, F. O. e Emma Herwegh. Nuovi documenti, Firenze 1937; A.M. Ghisalberti, O. minore, Roma 1955; A. Dansette, L’attentat d’O., Paris 1964; G. Manzini, Avventure e morte di F. O., Milano 1991; A. Venturi, Il terrorista. F. O. e i suoi tempi (1819-1858), Firenze 1998; R. Cappelli, Il processo a F. O., Cesena 2008; F. O. Un’esistenza avventurosa, generosa, tragica, a cura di F. Bugani - A. Bombacci, ibid. 2009.