Federico Chabod
L’importanza della figura di studioso di Federico Chabod, uno tra i massimi storici del Novecento italiano, non si limita alla sua produzione scientifica, né alla rilevanza dell’impegno politico che profuse nel difendere il confine occidentale dell’Italia. Il suo impegno didattico, nelle università dove insegnò, e gli incarichi come direttore, a Napoli, dell’Istituto italiano per gli studi storici e, a Roma, dell’Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, gli consentirono di forgiare le menti dei molti giovani che ebbe devoti attorno a sé, mentre la direzione della «Rivista storica italiana» gli permise di dare un indirizzo tangibile alla produzione storica nell’ambito e al di là dei confini nazionali.
Federico Chabod nacque ad Aosta il 23 febbraio 1901. Dopo la licenza liceale si trasferì a Torino; iscrittosi alla facoltà di Lettere e Filosofia, vi si laureò nel 1923, sotto la direzione di Pietro Egidi (1872-1929), con la tesi Del “Principe” di Niccolò Machiavelli. L’anno seguente si perfezionò a Firenze con Gaetano Salvemini. Su indicazione di Egidi, rielaborò la tesi di laurea, prima nell’Introduzione (pp. I-XLVIII) a una ristampa del Principe (pubblicata nel 1924 nella collana I classici italiani della casa editrice torinese UTET) e poi nel saggio Del “Principe” di Niccolò Machiavelli (redatto per il seminario berlinese di Albert Brakmann e pubblicato nel 1925 sulla «Nuova rivista storica», pp. 35-71, 189-216 e 437-73, e nel 1926 in uno specifico volume, ora in Scritti su Machiavelli, 1964, pp. 29-135).
Nel 1925 vinse il concorso a cattedra di filosofia, storia ed economia politica negli istituti superiori, e gli fu assegnata come destinazione Palermo; ma si mise in aspettativa fino all’anno scolastico 1928-29 per poter partecipare alla missione archivistica promossa da Egidi presso l’Archivo de Estado di Simancas in Spagna. Missione che gli consentì di raccogliere abbondante materiale documentario sul ducato milanese nell’età di Carlo V, un tema che lo avrebbe occupato sino al 1933 e oltre.
Dopo aver mutato la sua destinazione di insegnante da Palermo a Roma (presso il liceo Mamiani), nel 1928 iniziò a collaborare all’Enciclopedia Italiana come redattore per la storia medievale e moderna (e fu nelle stanze del palazzo di piazza Paganica che incontrò la donna della sua vita, Jeanne Rohr: cfr. Sestan in Federico Chabod e la nuova storiografia italiana dal primo al secondo dopoguerra, 1919-1950, 1984, p. 10, e Sestan 1997, pp. 206-207). Tra il 1930 e il 1934 fu alunno borsista (un posto riservato a funzionari dello Stato, insegnanti e archivisti) presso la Scuola di storia moderna e contemporanea (dal 1934 Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea), fondata nel 1925 a Roma da Gioacchino Volpe e ospitata nel Palazzo Mattei di Giove.
Ottenuta la libera docenza in storia medievale e moderna presso l’Università di Roma, nel 1935 salì sulla cattedra di storia medievale e moderna nell’appena istituita facoltà di Scienze politiche di Perugia. Nel 1938 passò all’Università di Milano. Dopo la guerra, nel 1946, venne chiamato a ricoprire la cattedra di storia moderna all’Università di Roma. L’anno seguente, nel 1947, su indicazione di Raffaele Mattioli, venne nominato direttore dell’Istituto italiano per gli studi storici, fondato da Benedetto Croce a Napoli, a Palazzo Filomarino. Si spense, in una clinica romana, il 14 luglio 1960.
All’Università di Torino, Chabod aveva studiato, come detto, sotto la direzione di Egidi, un medievista della scuola filologica, del quale Fernand Braudel, che l’aveva conosciuto a Simancas nel 1928, ebbe a dire, nella premessa all’edizione italiana (Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, 2 voll., 1953) del suo La Méditerranée et le monde méditerranéen à l’époque de Philippe II (1949), di averlo «ad un tempo veramente ammirato e veramente amato» (1° vol., p. XXXVI).
Nel 1925-26, durante la permanenza a Berlino, Chabod aveva avuto modo di seguire il seminario di Friedrich Meinecke. Questa esperienza si sarebbe rivelata decisiva (si vedano a tale proposito il saggio Uno storico tedesco contemporaneo: Federico Meinecke, «Nuova rivista storica», 1927, pp. 592-603, e il necrologio Friedrich Meinecke, «Rivista storica italiana», 1955, pp. 272-88, entrambi poi in Lezioni di metodo storico, 1974, pp. 257-77 e 279-308) per la formulazione del metodo poi definito il canone Chabod:
Il metodo storico […] non è una chiave che si adatti indifferentemente a qualsiasi serratura, un che di inalterabile e di inalterato, il passepartout; è invece un delicato strumento ‘variabile’, che deve, appunto, essere ‘finito di adattare’ nei singoli casi, dall’intelligenza e dalla sensibilità dello studioso (Lezioni di storia moderna, prima parte, Sommario metodologico, 1947, p. LXVIII).
I frutti di quella frequentazione berlinese si ebbero subito, nel 1927, con un saggio, Sulla composizione de “Il Principe” di Niccolò Machiavelli («Archivum romanicum», 1927, 3, pp. 330-83, poi in Scritti su Machiavelli, 1964, pp. 137-93), dedicato a Die Idee des Staatsräson in der neueren Geschichte (1924) di Meinecke.
Per la formazione di Chabod come storico, l’altro incontro importante fu quello con Volpe, avvenuto quando, nei primi anni Trenta, egli fu, come già accennato, borsista presso la Scuola di storia moderna e contemporanea di Roma. Chabod considerò Volpe un suo nuovo maestro, e non rinnegò mai questo rapporto, al di là delle traversie affrontate da Volpe nel dopoguerra per la sua adesione al regime fascista. Per questo motivo, nel 1954 accettò di fornire un suo contribuito scritto alla Festschrift promossa da Luigi Volpicelli in onore di Volpe (Usi e abusi nell’amministrazione dello Stato di Milano a mezzo il ’500, in Studi storici in onore di Gioacchino Volpe per il suo ottantesimo compleanno, 1958, pp. 93-194; cfr. Sestan 1997, p. 303), nonostante le vibrate proteste di Ernesto Rossi (Frangioni 2002, pp. 102-103; R. Vivarelli, Ernesto Sestan tra Salvemini e Volpe, in Ernesto Sestan, a cura di A. Ara, U. Corsini, 1990, pp. 89-93).
Tuttavia Chabod partecipò attivamente e con grande interesse anche al dibattito e alle riflessioni che le teorie crociane su storia e storiografia avevano destato da tempo in Italia e che si erano concretate negli anni Venti nella formulazione del concetto di storia etico-politica e intorno al 1930 in un’accesa discussione – sollevata dallo stesso Croce – sullo stato della storiografia italiana. Nel 1952 Chabod mise a punto le sue idee sul pensiero storico e storiografico di Croce in un importante scritto, Croce storico («Rivista storica italiana», 1952, pp. 473-530, poi in Lezioni di metodo storico, 1974, pp. 179-253). Chabod, riferendosi al testo crociano La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte (1893), distingueva in Croce due momenti, il filosofico e lo storico, nella convinzione che, sebbene questi avesse una disposizione naturale per entrambi, fosse l’istinto dello storico a parlare in lui per primo. Una storia «riposta negli uomini e nelle coscienze», una «storia dei sentimenti e della vita spirituale, la storia morale», le cui linee direttive erano già evidenti nelle opere della ‘tetralogia storica’ crociana (Storia del Regno di Napoli, 1925; Storia d’Italia dal 1871 al 1915, 1928; Storia dell’età barocca in Italia, 1929; Storia d’Europa dal 1815 al 1915, 1932) «che sono anzitutto e soprattutto una storia, appunto, dei sentimenti e della coscienza morale e dello spirito e della cultura» (Croce storico, in Lezioni…, cit., pp. 203 e 211). A conferma di questo, Chabod riandava a una battuta del duca di Maddaloni, riferita da Salvatore Di Giacomo nella sua prefazione a Epigrammi di Francesco Prota duca di Maddaloni (1894), e diceva: «Croce storico dal quadretto umano o di costume, e dall’angolo architettonico di una via di Napoli, era salito all’interiorità morale degli uomini e dei popoli» (p. 253). Ha scritto Franco Venturi (1980, pp. 349-50):
La morte di B. Croce (1952) e poi quella di F. Meinecke (1954) lo costrinsero ad un alto commiato da questi due maestri. Forte era il legame anche personale che era venuto formandosi tra B. Croce e lo Chabod. I due uomini, così diversi, avevano ritrovato nella storia una comune ragione di vita. Lo Chabod rielaborò le idee del maestro, discutendo con fermezza pari al rispetto. Non ne condivideva il provvidenzialismo di origine vichiana. Inaccettabile gli pareva il giudizio sulla Controriforma, così anche quello sulla piaga dell’età fascista. In genere si sente nel commento dello Ch.[abod] l’impossibilità di accettare l’armonico riequilibrarsi della vita oltre ogni decadenza, cedimento o rovina. Più severa e distante appariva dopo la morte la figura di Meinecke. Con distacco lo Ch.[abod] guardava ormai a quell’armonia di potenza e giustizia che lo storico tedesco aveva preteso costruire all’inizio del secolo (“Bismarck e Goethe”), e che aveva tentato invano poi di ricreare attorno alla democrazia di Weimar.
Dopo il successo della pubblicazione della tesi di laurea e il suo sviluppo nel saggio del 1925, i quattro anni di permanenza presso la Scuola di storia moderna e contemporanea gli consentirono di raccogliere i frutti della missione archivistica in Spagna e di scrivere il libro Per la storia religiosa dello Stato di Milano durante il dominio di Carlo V. Note e documenti («Annuario del Regio Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, 1936-37», 1938, pp. 3-261; cfr. Cantimori, in Federico Chabod nella cultura e nella vita contemporanea, 1960). Quel suo primo libro, ha ricordato Ernesto Sestan, all’epoca redattore dell’Enciclopedia Italiana, era stato «messo fuori un po’ frettolosamente per il concorso che gli meritò brillantemente la cattedra» (prefazione all’edizione del 1962 di Per la storia religiosa…, cit., p. X). Un’opera che egli considerò sempre provvisoria, via via che attorno a essa fiorivano sue nuove ricerche. Frutto ancora della missione spagnola fu la nota Carlo V nell’opera del Brandi («Studi germanici», 1940, 1-2, pp. 1-34).
Nello stesso tempo egli approfondiva il discorso sull’evoluzione dell’esercizio del potere, da Machiavelli alla piena età barocca, spostando la propria ricerca sul versante della ‘ragion di Stato’. Appare evidente, nello sviluppo di questi studi, l’influenza che ebbe sulla sua formazione di storico la frequentazione del seminario meineckiano e la lettura di Die Idee des Staatsräson. Chabod era guidato da
un’intima esigenza storiografica. La sua visione del trapasso dal Rinascimento alla Controriforma, che le letture, gli studi, le riflessioni sul «concetto» del Rinascimento andavano con sempre maggiore vigore maturando in lui, esigevano di fatto una figura in cui i motivi di debolezza e di intimo disorientamento, che egli aveva avvertiti nelle coscienze a partire dall’età immediatamente successa a quella di Machiavelli, trovassero una incarnazione storica per così dire «esemplare»; e il Botero fu, per lui, questa figura (Sasso 1961, 1985, p. 91).
Fu infatti in parallelo con la sua progressione costante nelle ricerche machiavelliane che si svilupparono il libro Giovanni Botero (1934), dove egli sfruttava le lunghe ricerche compiute a Simancas (pur se mai condotte a forma compiuta), e il saggio Il Rinascimento (in Problemi storici e orientamenti storiografici: raccolta di studi, a cura di E. Rota, 1942, pp. 445-91).
Già dal 1936 egli aveva messo in cantiere, con l’aiuto di Ruggero Moscati, il grande progetto della pubblicazione dei documenti diplomatici italiani e, in concomitanza, di una Storia della politica estera italiana dal 1861 al 1914, della quale egli pubblicò, nel 1951, soltanto il primo volume, Premesse (mentre di quello che avrebbe dovuto essere il volume successivo restano solo degli appunti). Ma il suo interesse spaziò oltre, e nel 1940 egli aderì a un altro progetto, questa volta di storia economica (dal Settecento agli inizi della Prima guerra mondiale), portato avanti, insieme a Mattioli, Gino Luzzatto e Ugo La Malfa, nell’ambito del cinquantenario della Banca commerciale italiana; anch’esso rimase incompiuto.
Già in questo periodo ritroviamo tutti i temi che Chabod svilupperà nel corso degli anni futuri. Egli ha idealmente più tavoli ai quali sedersi. Tavoli sui quali, materialmente, allestiva davanti a sé una sorta di ‘trincea’ formata dai libri che intendeva tenere a portata di mano per consultarli via via che scriveva: in primis le opere di Machiavelli. Il suo interesse iniziale per questo autore risale al seminario berlinese, e venne ripreso e sviluppato prima nei diversi saggi sul Principe degli anni 1923-27 e poi nella voce Machiavelli Niccolò pubblicata nel 21° vol. (1934) dell’Enciclopedia Italiana.
Questo ritorno, nel corso del tempo, su determinati argomenti tenacemente approfonditi, testimonia il suo costante lavoro di scavo e di ricerca, ma anche l’eterna insoddisfazione per i risultati raggiunti. Di qui nasceva l’esigenza di tornare più volte sullo stesso tema, di riscrivere allargando la prospettiva. Come nel caso del ducato milanese e della sua burocrazia (riesaminato in Lo Stato di Milano nella prima metà del secolo XVI, 1955, e in Alle origini dello Stato moderno, 1957), di Botero (il citato Giovanni Botero), ma anche di Paolo Sarpi (La politica di Paolo Sarpi, 1952), mentre veniva contemporaneamente stendendo una rassegna di studi rinascimentali per la Festschrift in onore di Croce (Gli studi di storia del Rinascimento, in Cinquant’anni di vita intellettuale italiana, 1896-1946. Scritti in onore di Benedetto Croce per il suo ottantesimo anniversario, a cura di C. Antoni, R. Mattioli, 1950, 1° vol., pp. 125-207), nonché del nucleo di temi legati a Carlo V (Lo Stato di Milano nell’impero di Carlo V, 1934; Note e documenti per la storia economico-finanziaria dell’impero di Carlo V, in Studi in memoria di Roberto Michels, nr. speciale di «Regia Università degli studi di Perugia. Annali della facoltà di Giurisprudenza», 1937, pp. 131-56; e infine il citato Per la storia religiosa…, poi confluito, insieme ad altri suoi lavori sullo stesso tema, in L’epoca di Carlo V, 1535-1559, 9° vol., 1961, della Storia di Milano).
Un’altra ‘trincea di libri’ aperta sulla sua scrivania fu quella della storia contemporanea. Dopo l’interesse per la storia economica, spostò la sua ricerca nella direzione indicatagli da Alberto Pirelli e dallo stesso Volpe, progettando, come detto, una Storia della politica estera italiana dal 1861 al 1914. Il primo esito di questo progetto fu, nel 1946, Il pensiero europeo della Destra di fronte alla guerra franco-prussiana («La comunità internazionale», 1946, 1, pp. 63-77, e 2, pp. 209-26), che successivamente egli riprese inserendolo nel citato volume delle Premesse; questo saggio fu seguito da un altro, Kulturkampf e Triplice Alleanza in una discussione fra il Vaticano e il governo austro-ungarico nel 1883 («Rivista storica italiana», 1950, 2, pp. 257-80). A proposito della produzione di Chabod, avrebbe osservato nel 1960 Arnaldo Momigliano:
La produzione di Chabod è tutta spezzata, sperimentatrice e, in particolare nel decennio 1925-1940, è caratterizzata da alti e bassi, improvvise virate di bordo, abbandono o differimento a lunga scadenza di lavori già avanzati. Abbandonato il lavoro sui comuni dell’Italia settentrionale, non mai appieno utilizzate le lunghe ricerche su Henri de Boulainvilliers [a causa delle quali i suoi studenti, tra cui chi scrive, l’avevano soprannominato ‘il conte di Boulainvilliers’], Commynes e Guicciardini, di cui restano solo pallido documento i begli articoli enciclopedici e qualche recensione. Il Botero (del 1931-32) è il più enigmatico dei lavori di Chabod. Vi bollono tutti gli elementi della sua attività presente e futura: la Controriforma, l’idea di Europa, fin il rinnovamento dell’Italia settecentesca. […] La irrequietezza dello storico alla ricerca del proprio centro è palese ancora nella stessa ostinazione con cui Chabod ritornava su se stesso, riprendeva temi già trattati (quante volte tornò su Machiavelli!), faceva e rifaceva il saggio famoso sul Rinascimento, pubblicava in edizioni provvisorie e semi-clandestine molto del meglio di se stesso (Momigliano, in Federico Chabod nella cultura e nella vita contemporanea, 1960, p. 651).
Momigliano avrebbe scritto inoltre che nel 1930 Chabod gli aveva dato da leggere Wirtschaft und Gesellschaft (1922) di Max Weber, e anche in quelle prime letture è dato rintracciare le fonti delle successive note sulla burocrazia milanese cinquecentesca preparate in vista del corso universitario del 1957, poi rielaborate e destinate a occasioni diverse: Come si forma una classe dirigente nell’amministrazione pubblica, rielaborata per un convegno alla Sorbona del giugno-luglio 1956 (Y a-t-il un État de la Renaissance?, in Actes du Colloque international sur la Renaissance, 1958, pp. 57-73); Stipendi nominali e busta paga effettiva dei funzionari dell’amministrazione milanese alla fine del Cinquecento (in Miscellanea in onore di Roberto Cessi, 2° vol., 1958, pp. 187-363); il già citato Usi e abusi.
La produzione di Chabod fu davvero immensa. Anche concordando con il giudizio di Momigliano sulla sua irrequietezza, non si può fare a meno di notare come per il giovane Chabod già nel 1927, nel citato saggio Sulla composizione de “Il Principe”, la datazione di questo classico fosse sicura, apodittica, critica nei confronti dello storico Oreste Tommasini (autore dell’ampia opera La vita e gli scritti di N. Machiavelli nella loro relazione con il machiavellismo: storia ed esame critico, 2 voll., 3 tt., 1883-1911) e dello stesso Meinecke. Secondo lo storico tedesco, il Principe si comporrebbe di due nuclei distinti, formati l’uno dai primi undici capitoli e l’altro dagli ultimi quindici, che si sarebbero aggiunti posteriormente. Le conclusioni alle quali giunge Chabod sono invece che l’opuscolo machiavelliano, «scritto tra il luglio e il dicembre del 1513, non ha più subito alcuna revisione totale o parziale» (p. 190).
Nel periodo 1925-38 accaddero eventi cruciali: dalla promulgazione delle cosiddette leggi eccezionali (1925-26) alla guerra italo-etiopica (1935-36) e all’annessione dell’Austria da parte della Germania (1938). Non a caso, già nel 1925, nel saggio Del “Principe”…, Chabod così puntualizzava:
Semplici duci di partito, a cui gli uomini della fazione affidavano la dittatura per salvare se stessi, i Signori erano apparsi tosto come i salvatori della borghesia cittadina, la quale, costretta a rinunziare alla sua piena padronanza, per la incalzante pressione delle classi minori, per la necessità di trovare rimedio alla guerra civile e al dissesto finanziario, per il bisogno di assicurare la vita e la proprietà minacciata, [per] tutti questi motivi insieme, aveva tuttavia cercato di salvare quanto più le era stato possibile della sua pristina autorità (p. 40).
Si possono nutrire pochi dubbi sul significato di pagine come questa del giovane Chabod. Erano i prodromi di quello che sarebbe stato il suo futuro impegno diretto nell’agone politico. Erano i frutti del magistero di Salvemini, che era perseguitato dal regime fascista e che Chabod, nell’agosto del 1925, aiutò a espatriare in Francia, guidandolo oltre confine lungo i sentieri del San Bernardo.
Passato da Perugia a Milano, tra l’aprile 1941 e il maggio 1942 Chabod, assieme a Carlo Morandi (con il quale aveva condiviso nei primi anni Trenta l’alunnato alla Scuola di storia moderna e contemporanea), diresse il quindicinale «Popoli», uno dei primi esperimenti di divulgazione culturale. Ma i suoi anni milanesi coincisero con il periodo più nero della nostra storia patria. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 egli si ritirò in Valle d’Aosta, a Déjoz; scese periodicamente a Milano per le sue lezioni universitarie, finché quei viaggi non furono più possibili e divenne necessario seguire quell’imperativo morale che nell’estate 1944 lo spinse a trasformarsi nel partigiano ‘Lazzaro’. Senza essere a conoscenza del Manifesto di Ventotene per un’Europa libera e unita (1941), scritto da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni durante il confino per caldeggiare l’unificazione europea in senso federale, Chabod impostò il proprio corso universitario del 1943-44 sull’idea di Europa (le sue lezioni furono raccolte in L’idea di Europa, a cura di B.M. Cremonesi, 1944; cfr. Woolf, in Nazione, nazionalismi ed Europa nell’opera di Federico Chabod, 2002). In una lettera a Momigliano del 1959, sulla quale si tornerà più oltre, Chabod confesserà:
Forse il ricordo più alto della mia vita universitaria è quello del corso che tenni a Milano, durante l’occupazione tedesca, nell’inverno ’43-’44: corso sull’idea di nazione e su quella di Europa, dove contrapponevo nettamente l’idea germanica della nazione-razza, che combattevo, e l’idea della nazione-plebiscito di tutti i giorni, per dirla con Renan (cit. in F. Chabod, A. Momigliano, Un carteggio del 1959, a cura di G. Sasso, 2002, p. 103).
Dopo la fine di quella che è stata definita una «guerra civile europea» (E. Nolte, Der europäische Bürgerkrieg 1917-1945, 1987), in un altro corso universitario egli si interrogò di nuovo sul concetto di Europa «dal punto di vista culturale e morale» (Lezioni di storia moderna: Università degli studi di Roma, facoltà di Lettere e Filosofia, anno accademico 1947-48, 1948), e in seguito volle tornare a comprendere «nel pensiero dell’Ottocento» il senso di termini quali «nazione ed Europa» (come recita il titolo di una conferenza da lui tenuta il 2 marzo 1951, Nazione ed Europa nel pensiero dell’Ottocento, «Quaderni ACI», 6, pp. 17-32; cfr. Zunino, in Nazione, nazionalismi ed Europa, 2002). Questo tema fu ricorrente nel suo pensiero. Per capire la sua interpretazione della storia politica più recente occorre tornare a leggere il testo del ciclo di conferenze da lui tenuto alla Sorbona nel gennaio 1950 (L’Italie contemporaine: conférences données à l’Institut d’études politiques de l’Université de Paris, 1950; trad. it. L’Italia contemporanea, 1918-1948: lezioni alla Sorbona, 1961), dove egli usa per la prima volta il termine consenso (nei riguardi del regime fascista), delineando così un tema che sarebbe stato poi magistralmente sviluppato dal suo allievo Renzo De Felice. Nel 1955, intervenendo in un congresso internazionale tenuto a Mainz in Germania, scelse di parlare de I caratteri politici dell’Europa nel pensiero di Machiavelli (poi in Europa. Erbe und Aufgabe: internationaler Gelehrtenkongress, Mainz 1955, hrsg. M. Göhring, 1956, pp. 29-32) e, per il corso universitario del 1957, Alle origini dello Stato moderno, riprese il citato intervento svolto al convegno della Sorbona del 1950.
Il periodo dei corsi tenuti a Milano nel 1943-44 fu per lui, come detto, anche il tempo dell’impegno politico diretto. Nel 1943, a Milano, entrò in contatto con La Malfa, Mattioli e Raimondo Craveri, e, da loro spronato, aderì al Partito d’azione.
Nel dicembre del 1943 inviò un suo contributo scritto al convegno di partigiani della Val d’Aosta e delle valli valdesi che si teneva a Chivasso, e da cui scaturì un documento in cui si chiedevano l’autonomia e l’autogoverno linguistico per gli abitanti di queste valli, la Dichiarazione dei rappresentanti delle popolazioni alpine (meglio nota come Dichiarazione di Chivasso), firmata dai valdostani Émile Chanoux ed Ernest Page e dai valdesi Osvaldo Coïsson, Gustavo Malan, Giorgio Peyronel e Mario Alberto Rollier.
Nell’estate del 1944, prendendo il nome di battaglia di Lazzaro, entrò nella banda partigiana fondata da Amilcare Crétier e in quel periodo comandata da suo cugino Remo Chabod. S’impegnò inoltre, anima e corpo, nella difesa della Valle d’Aosta e della sua italianità. In una lettera a Volpe del 29 novembre 1945 avrebbe affermato: «una soddisfazione nessuno me la può togliere: ed è di aver contribuito a salvare il confine occidentale d’Italia» (cit. in Frangioni 2002).
Nel luglio del 1944 riuscirà a indire le prime elezioni comunali nella valle di cui era originario suo padre, la Valsavaranche. Testimonieranno a tale proposito nel 1960 Alessandro ed Ettore Passerin d’Entrèves:
Ancora sul letto di morte Federico ricordava con orgoglio che la sua Valsavaranche era stato il primo comune d’Italia a indire libere elezioni (A. Passerin d’Entrèves, E. Passerin d’Entrèves, in Federico Chabod nella cultura e nella vita contemporanea, 1960, p. 796).
Un rastrellamento nazista, tra la fine di ottobre e gli inizi di novembre del 1944, lo costrinse, dopo aver messo in salvo in una baita il manoscritto delle Premesse, a sconfinare in Francia, attraverso il passo del Nivolet, insieme alla moglie e a numerosi altri compagni di sventura, e a rifugiarsi poi a Grenoble, da poco liberata dall’occupazione tedesca.
Poiché fin dalla prima metà di settembre una missione militare francese percorreva la Valle d’Aosta per verificare se i suoi abitanti fossero favorevoli all’annessione alla Francia, era divenuto urgente impegnarsi per scongiurare il distacco di questo territorio italiano dalla madre patria. Fu questo il compito che Chabod si prefisse con passione e con tenacia; a tale scopo, raggiunse Parigi per prendere contatto con l’abate Auguste Petigat, direttore de «La Vallée d’Aoste», il principale giornale degli emigrati valdostani in Francia. Rientrato nella Valle il 10 maggio a bordo di un aereo militare, e recuperati libri e manoscritti, già la sera del 12 inviò ai tre ‘grandi’ (Harry S. Truman, Iosif V. Stalin, Winston L.S. Churchill) un telegramma in cui denunciava i tentativi annessionistici francesi, e il 15, a capo di una delegazione valdostana, incontrò a Torino i membri del CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia), per concordare la concessione dell’autonomia alla sua regione.
L’impegno politico di Chabod giunse sino a fargli assumere direttamente delle funzioni ufficiali: prima quella di prefetto della Valle d’Aosta per conto del CLNAI, e poi quella di primo presidente della nuova regione autonoma; questo secondo incarico gli fece rischiare il linciaggio, il 26 marzo 1946, da parte di duemila ‘annessionisti’ infuriati che avevano invaso il Palazzo del governo di Aosta (A. e E. Passerin d’Entrèves, Federico Chabod e la Valle d’Aosta, cit., p. 807).
A guerra finita, però, Chabod non seguì la carriera politica (come fece invece il fratello minore Renato), e tornò agli studi, assumendo vari incarichi accademici, tra cui la direzione della «Rivista storica italiana», dell’Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea di Roma e, come già accennato, dell’Istituto italiano per gli studi storici di Napoli (al posto di Adolfo Omodeo, prematuramente scomparso); fu inoltre eletto, nel 1955, presidente del Comitato internazionale di scienze storiche.
È difficile far comprendere il pathos che le sue lezioni suscitavano. Chi ha avuto la fortuna di seguirne per più anni i corsi (a Roma come a Napoli), come chi scrive, non può dimenticare il fascino maieutico (oggi si direbbe carismatico) che esse suscitavano in tutti i suoi allievi. Uomo delle montagne, orgoglioso del titolo di accademico del Club alpino italiano, sovrastava gli auditori dall’alto della cattedra. Un’anonima studentessa lombarda così scrisse a matita, entusiasticamente, nella premessa alle dispense litografate del corso di storia moderna tenuto da Chabod a Milano nel 1943-44: «lettore, se tu conosci Chabod, lo vedrai sorgere e agitare, da queste pagine, le sue lunghe braccia irrequiete, che fanno pensare alle ali di un’aquila in libero volo, per un libero cielo!» (cfr. Maturi, in Federico Chabod nella cultura e nella vita contemporanea, 1960, p. 747).
Quando Volpicelli si fece promotore della citata Festschrift in onore di Volpe, Chabod non dimenticò il debito che aveva nei confronti dell’ex direttore dell’Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, nonostante le proteste espresse da Rossi, che in una lettera a Chabod del 26 settembre 1954 scrisse:
Io voglio sperare che questa notizia non sia vera, perché l’iniziativa sarebbe estremamente offensiva per tutti coloro che hanno sofferto per la difesa della libertà durante il fatidico ventennio. […] Volpe è stato più che un compagno di viaggio di Mussolini. […] Nessuno può sinceramente pensare a un riconoscimento dell’attività scientifica del Volpe, prescinden-
do dalla sua attività come uomo politico (cit. in Frangioni 2002, p. 116).
Chabod passò oltre queste proteste, espresse da Rossi anche pubblicamente (La cortesia d’esser villani, «Il mondo», 12 ottobre 1954). Nel novembre del 1945, di fronte alla ‘degradazione’ di Volpe (privato della cattedra ed espulso dall’Accademia d’Italia) gli aveva scritto:
Chi la conosce bene come me, sa che ella non ha mai scritto una parola, una parola sola che non rispondesse alle sue profonde convinzioni. […] Il bene che le voglio, e da molti anni ormai, mi induce ad aprirmi con lei anche su questioni in cui posso anche dissentire da lei come impostazione generale, eppure rimanere sempre a lei legato da affetto e gratitudine grande (cit. in Frangioni 2002, p. 117).
Quando tra Chabod e Volpe si venne alla rottura, ciò accadde a causa della nomina di Chabod (in sostituzione di Omodeo) a direttore dell’Istituto italiano per gli studi storici. Una nomina che Volpe avvertì come un ‘tradimento’ del proprio magistero; egli, infatti, si era già espresso in termini assai duri nei confronti di Omodeo, e in una lettera a Chabod del 15 aprile 1944 aveva scritto:
Quasi mai ascolto la radio. Poco leggo i giornali, mi tediano. Ora poi si è aggiunta la voce nasale di quel manigoldo – scusami se sei suo amico – di Omodeo che non si vergogna di coprire di ingiurie il suo vecchio Re, il Re della grande guerra (p. 113).
La disperazione di Volpe si coglie bene in un’altra lettera indirizzata a Chabod, il 13 marzo del 1946:
Seguito a graffiare le mie carte, ostinato come sono a voler finire il secondo volume di Italia moderna. Perché finirlo, non so bene. Mi par di portare in braccio un cadavere. L’Italia che io amavo è morta e la nuova non la vedo, non la sento, non può ispirarmi nel mio lavoro (p. 118).
A Volpe, che si era lamentato con Chabod della mancata recensione dell’ultimo volume della sua Italia moderna, questi aveva però così replicato da Napoli il 12 novembre 1950:
Non posso nasconderle che la sua lettera mi amareggia. […] Insomma, ella ritiene che noi – Sestan, Maturi ed io – si possa accettare eventuali parole d’ordine altrui per boicottare l’opera sua. Che cosa vuole che le dica? L’affetto che ho avuto e che ho sempre, inalterato per lei fa sì che sorvoli ancora oggi su tutto quel che di profondo offensivo per noi è in siffatto anche solo dubbio: mi limito a dichiararle che questo dubbio è totalmente infondato. Di parole d’ordine simili non abbiamo mai fatto conto venti, quindici anni fa, quando, fascismo e non fascismo, abbiamo continuato a ricordare e a citare pubblicamente l’opera di Croce, di Salvatorelli e di altri studiosi pure ufficialmente al bando, non faremmo nessun conto oggi, anche se ci fossero (il che, per quanto almeno concerne noi e la Rivista non c’è) non diremo nei riguardi suoi, – e vale a dire di persona a cui continuiamo a sentirci profondamente legati da vincoli d’affetto e di gratitudine – ma di qualsiasi altro studioso, quali che siano le sue opinioni politiche, che a noi non interessano in sede scientifica. […] Le ho spiegato come stanno le cose; e le ho anche detto apertamente come i suoi dubbi, che devo definire ingiusti, mi abbiano ferito (pp. 124-25).
Volpe non interruppe il carteggio (che proseguì fino alla sua lettera del 24 giugno 1955, cit. in Frangioni 2002, p. 130), ma ormai per Chabod non vi era più molto da aggiungere.
Una seconda rottura, nell’ambito delle amicizie di Chabod, avvenne con Momigliano, nell’autunno del 1959. Infatti, al necrologio per Carlo Antoni che Momigliano aveva spontaneamente inviato da Londra alla «Rivista storica italiana», nel novembre del 1959 Chabod replicò con una serie di osservazioni assai pertinenti, che però Momigliano non volle accogliere. Nel necrologio, questi aveva avanzato l’ipotesi di una influenza che Antoni avrebbe esercitato su Croce. Ipotesi nettamente rigettata da Chabod: non già i libri avrebbero potuto modificare, tra il 1930 e il 1943, lo storicismo crociano, ma «i grandi eventi (la Prima e poi la Seconda guerra mondiale, il nazismo)» (F. Chabod, A. Momigliano, Un carteggio del 1959, cit., p. 99). Inoltre, a Chabod sembrava ingiusto dire che Antoni non si era «occupato più di nulla di quel che avvenisse al di fuori del crocianesimo, per cercare solo di correggere il pensiero del Maestro». E aggiungeva qualcosa che ha quasi un sapore autobiografico:
Il mondo germanico di quest’ultimo trentennio non gli ha dato [ad Antoni] più nulla: Namier, e Braudel sono di altri paesi, lontani dal suo mondo. Ritter non bastava a sollevare nuovi problemi.
Last, but not least, Momigliano asserì che il processo di nazificazione dell’Italia era iniziato sin dal 1933, e accusò gli intellettuali italiani di «essersi formati in una cultura romantica» che avrebbe aperto «le porte ai superuomini e alle superazze». Ma questa era, secondo Chabod, una chiamata in correo, «uno sproposito», che il 5 novembre egli respingeva al mittente.
Come allora, come prima del ’42, così ora, ti assicuro che non rinnego néppur un’oncia dell’eredità romantica della nazione: intendo l’eredità che fu non solo di Mazzini, ma dei moderati italiani e di Cavour. Coloro che si rifacevano al modo germanico di sentire la nazione stai pur sicuro che non si trovavano fra gli antifascisti ma tra i fascisti e i neo fascisti! Com’era logico (p. 104).
Nell’ultima missiva, datata 15-21 novembre, dopo aver espresso tutta la sua considerazione per «il modo pieno di dignità» con cui Delio Cantimori aveva abbandonato il Partito comunista dopo la rivoluzione ungherese del 1956, Chabod troncò ogni ulteriore corrispondenza:
Io sono rimasto allibito e sdegnato, alla lettura della tua lettera: allibito nel dover constatare con quale disinvoltura tu maneggi i testi, e li alteri, pretendendo di tappare la bocca altrui con citazioni a modo tuo; sdegnato nel vedere a quale miseria di artifici ti sei aggrappato per non dover dire: va bene questo è stato un lapsus, modifico. Tutto questo rende impossibile un ulteriore dialogo fra noi (p. 135).
Questo rovente epistolario del novembre 1959 fu l’ultima lezione di metodo storico di Chabod, già colpito dal male che di lì a pochi mesi l’avrebbe condotto alla morte.
Per un elenco completo delle opere di Federico Chabod, si vedano L. Firpo, Bibliografia degli scritti di Federico Chabod, 1921-1976 (in F. Chabod, Écrits d’histoire, Aoste 1976, pp. 233-304) e la sezione Bibliografia del sito della Fondazione Federico Chabod, che al testo di Firpo aggiunge delle integrazioni di R. Mantegari per gli scritti pubblicati dopo il 1976 (http://www.fondazionefedericochabod.eu/bibliografia _di.html).
Per i promemoria e i testi politici scritti da Chabod in difesa dell’italianità della Valle d’Aosta, si veda R. Chabod, Federico Chabod: partigiano Lazzaro, Quart 1985.
Per lo scontro epistolare del 1959 tra Chabod e Momigliano, si veda F. Chabod, A. Momigliano, Un carteggio del 1959, a cura di G. Sasso, s.l. 2002.
Per le lettere tra Chabod e John H. Whitfield, si veda l’appendice a E. Cutinelli-Rendina, Rileggendo gli “Scritti su Machiavelli” di Federico Chabod, in Nazione, nazionalismi ed Europa nell’opera di Federico Chabod, Atti del convegno, Aosta 5-6 maggio 2000, a cura di M. Herling, P.G. Zunino, Firenze 2002, pp. 45-39.
Si vedano inoltre:
L’Italie contemporaine: conférences données à l’Institut d’études politiques de l’Université de Paris, Paris 1950 (trad. it. L’Italia contemporanea, 1918-1948: lezioni alla Sorbona, Torino 1961).
Machiavelli and the Renaissance, ed. A. Passerin d’Entrèves, London 1958.
L’idea di nazione, a cura di A. Saitta, E. Sestan, Bari 1961.
Storia dell’idea d’Europa, a cura di A. Saitta, E. Sestan, Bari 1961.
Storia di Milano nell’epoca di Carlo V, Torino 1961.
La politica di Paolo Sarpi, Venezia 1962.
Per la storia religiosa dello Stato di Milano durante il dominio di Carlo V. Note e documenti, a cura di E. Sestan, Roma 1962.
Scritti su Machiavelli, Torino 1964.
Scritti sul Rinascimento, Torino 1967.
Lezioni di metodo storico, a cura di L. Firpo, Bari 1974.
Scritti sull’alpinismo, a cura di A. Dallou, Aosta 2008.
U. Marelli, Federico Chabod e il Croce storico, Torino s.d. (1954?).
Federico Chabod nella cultura e nella vita contemporanea, dossier di «Rivista storica italiana», 1960, 4, pp. 618-836 (in partic. A. Momigliano, Appunti su F. Chabod storico, pp. 643-57; D. Cantimori, Chabod storico della vita religiosa italiana del ’500, pp. 687-711; W. Maturi, Chabod storico della politica estera italiana, pp. 746-55; A. Passerin d’Entrevès, P. Passerin d’Entrevès, Federico Chabod e la Valle d’Aosta, pp. 793-809).
G. Sasso, Profilo di Federico Chabod, Bari 1961, poi, ampliato, in Id., Il guardiano della storiografia. Federico Chabod e altri saggi, Bologna 1985, pp. 33-133.
F. Gilbert, Three twentieth century historians: Meinecke, Bloch, Chabod, in J. Higham, L. Krieger, F. Gilbert, History. The development of historical studies in the United States, Englewood Cliffs (N.J.) 1965.
S. Pizzetti, Federico Chabod storico delle Signorie, «Nuova rivista storica», 1977, pp. 555-98.
F. Venturi, Chabod Federico, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 24° vol., Roma 1980, ad vocem.
Per Federico Chabod (1901-1960), Atti del Seminario internazionale, a cura di S. Bertelli, 2 voll., Perugia 1980-1981.
Federico Chabod e la nuova storiografia italiana dal primo al secondo dopoguerra, 1919-1950, Atti delle giornate di studio, 1983, a cura di B. Vigezzi, Milano 1984 (in partic. E. Sestan, Federico Chabod e la ‘nuova storiografia’. Profilo di una generazione di storici, pp. 1-18).
S. Berti, Gli insegnamenti di Federico Chabod, «Belfagor», 1988, 4, pp. 424-39.
E. Sestan, Memorie di un uomo senza qualità, a cura di G. Cherubini, G. Turi, Firenze 1997, passim.
A. Frangioni, Volpe e Chabod, una lunga storia (con il carteggio Volpe-Chabod), «Nuova storia contemporanea», 2002, 6, pp. 91-130.
Nazione, nazionalismi ed Europa nell’opera di Federico Chabod, Atti del convegno, Aosta 5-6 maggio 2000, a cura di M. Herling, P.G. Zunino, Firenze 2002 (in partic. P.G. Zunino, Tra Stato autoritario e coscienza nazionale: Chabod e il contesto della sua opera, pp. 107-40; S.J. Woolf, Reading Federico Chabod’s “Storia dell’idea d’Europa” half a century later, pp. 203-46).
G. Gallino, Metodo storico e storiografia politica in Federico Chabod, Torino 2004.
G. Galasso, Federico Chabod, in Storici italiani del Novecento, Bologna 2008, pp. 97-113.
A. Dallou, Federico Chabod (1901-1960), Aosta 2010.
Sia Carlo Morandi sia Nino Valeri appartennero al gruppo di storici legati a Gioacchino Volpe e a Giovanni Gentile, ma anche al magistero di Benedetto Croce, una generazione postbellica destinata a operare nel clima del nuovo regime instaurato con le Leggi eccezionali del 1925. Coetaneo di Federico Chabod, Morandi (Suna, oggi frazione di Verbania, 1904-Firenze 1950) studiò a Pavia. Libero docente in storia medievale e moderna nel 1930, entrò l’anno seguente come borsista alla Scuola di storia moderna e contemporanea di Roma, diretta da Volpe. Qui incontrò un gruppo di suoi coetanei (tra cui Walter Maturi) che nella loro vita attraversarono il ventennio fascista «in servitù volontaria» – come riconobbe lo stesso Morandi definito «il maître à penser bottaiano» (cit. in M. Serri, I redenti, 2005, p. 17). Nel 1932 Morandi chiese l’iscrizione al Partito nazionale fascista, dapprima negatagli per i suoi rapporti con Nello Rosselli. Nel 1936 accettò la nomina a Provveditore agli studi a Piacenza, offertagli dall’allora ministro squadrista Cesare Maria De Vecchi. Vinse quindi il concorso bandito dall’Università di Pisa per la cattedra di storia del Risorgimento. Vicino a Volpe, tramite Ugo Spirito entrò nella cerchia del potente ministro Giuseppe Bottai e della sua rivista «Primato». È in questi anni (1941-42) che con Chabod realizzò la pubblicazione di un quindicinale di divulgazione storica, patrocinato dall’Istituto per gli studi di politica internazionale (ISPI) di Milano: «Popoli». Trasformatosi in «funzionario dello Stato fascista» (M. Ciliberto, Intellettuali e fascismo, 1977, p. 149), nel dopoguerra temette di finire davanti alle commissioni per l’epurazione, e scelse una posizione defilata, tanto da rifiutare una candidatura per la Costituente offertagli dal Partito democratico del lavoro di Ivanoe Bonomi. Dopo aver sposato le tesi di un nazionalismo aggressivo (Guerra per l’Europa, 1943), espresse giudizi ben diversi sul recente passato in I partiti politici nella storia d’Italia (1945). Gran parte di questi e degli altri suoi lavori fu raccolta in Scritti storici (a cura di A. Saitta, 4 voll., 1980).
Valeri (Padova 1897-Roma 1978) fu titolare della cattedra di storia moderna all’Università di Catania nel 1943, per poi passare all’Università di Trieste e quindi a quella di Roma dal 1955. I suoi interessi si divisero tra Rinascimento, con un certo influsso di Francesco Ercole (La libertà e la pace. Orientamenti politici del Rinascimento italiano, 1942; L’Italia nell’età dei principati (1343-1516), 1949), e mondo contemporaneo. Nell’immediato dopoguerra, mentre Morandi rifletteva sulle strutture partitiche della nazione, si manifestò in Valeri un nuovo interesse per l’età contemporanea. Egli affrontò così «nei suoi brillanti saggi» (L. Valiani, La storiografia italiana del dopoguerra sul periodo 1815-1870, in La storiografia italiana negli ultimi vent’anni, 2° vol., 1970, p. 767) il tema de La lotta politica in Italia dall’Unità al 1925 (1945) e quindi la riflessione Sulle origini del fascismo (in Questioni di storia contemporanea, 3° vol., 1953, pp. 733-57) e su La lotta politica in Italia dall’Unità al 1926 (1946), anche nei volumi Da Giolitti a Mussolini (1956), D’Annunzio davanti al fascismo (1963). Scrive Franco Gaeta (Nazionalismo italiano, 1965, p. 52), le pagine di Valeri
si rifanno all’impostazione di Croce e […] d’altra parte precisano come dal 1911 gli accenni antidemocratici e antiliberali non rappresentassero semplicemente la ‘letteratura’ di qualche solitario scrittore, ma fossero l’anima stessa dal partito [nazionalista], ormai nettamente orientato ad un’esaltazione dello Stato-nazione (concepito alla maniera prussiana come ‘volontà di potenza’) e ad una connessa nuova ‘morale dei produttori’, ad una forma di politica protezionista in favore specialmente dell’industria pesante.
Direttore della Storia d’Italia della UTET (5 voll., 1959-1960), scrisse, tra i suoi ultimi contributi, Tradizione liberale e fascismo (1972).
Gaetano Cozzi, nato a Zero Branco (Treviso) nel 1922, dopo aver compiuto gli studi a Milano, entrò nel 1938 nella Scuola militare, per poi passare, l’anno successivo, all’Accademia militare di Modena, uscendone nel marzo del 1942 come sottotenente degli Alpini. Mentre frequentava la scuola di applicazione di Parma, gli effetti di un’infezione mal curata dovuta a una caduta da cavallo lo portarono alla paralisi degli arti inferiori. Malgrado ciò, riuscì a dare ugualmente un suo contributo alla Resistenza, scrivendo sulla stampa clandestina ed entrando in contatto, attraverso Vittorio Enzo Alfieri, allievo di Benedetto Croce, con il Partito liberale, dal quale uscirà più tardi, riconoscendosi nelle posizioni del gruppo raccolto intorno alla rivista «Il Mondo» diretta da Mario Pannunzio, schierata in area decisamente laica, e aderendo al Partito radicale. Nel 1949 si era frattanto laureato in storia del diritto italiano all’Università di Milano, con Enrico Besta e l’incoraggiamento di Gian Piero Bognetti, con una tesi su Paolo Sarpi e sulle relazioni tra Stato e Chiesa, temi che rimarranno al centro dei suoi interessi. Quindi si trasferì a Venezia, città intorno alla quale si svilupperà la linea portante dei suoi studi e di cui, sin dai suoi primi lavori, comprese ed evidenziò con chiarezza «il contesto italiano, mediterraneo ed europeo» (G. Galasso, Storici italiani del Novecento, 2008, p. 405). Risale a questi anni anche l’incontro con Alberto Tenenti e Ruggiero Romano. Nel 1960 ricevette un incarico per l’insegnamento della storia presso la facoltà di Lingue e letterature straniere a Venezia. In quello stesso anno conobbe la giovane Luisa Zille che nel 1962 diverrà sua moglie. Da questa data si delinea accanto al Cozzi storico anche il binomio Cozzi-Zille. L’apice del loro sodalizio sarà il volume, firmato da entrambi, dedicato a Paolo Sarpi e pubblicato nel 1969. Perduta prima tragicamente la moglie (1995), quindi l’anziana madre, a Cozzi non restavano più riferimenti affettivi e si spense a Venezia nel 2001.
Come scrive Giuseppe Galasso «l’avventura storiografica di Cozzi non fu affatto una corsa solitaria» (Storici italiani del Novecento, cit., p. 400). È infatti lo stesso Cozzi a indicare i punti di riferimento dei suoi lavori nella prefazione al volume su Sarpi: Bognetti e Delio Cantimori, Chabod, don Giuseppe De Luca, nomi cui va affiancato il magistero di Hubert Jedin, autore di una monumentale Geschichte des Konzils von Trient (4 voll., 1949-1975; trad. it. 1949-1981), a delineare
la fisionomia di una storiografia etico-politica, articolata nelle sue varie dimensioni politico-culturali ed etico-religiose, in un’idea di storia politica complessa, ma chiara, attenta alla dimensione prosopografica e, insieme, e altrettanto, alla vicenda dei gruppi in cui ogni classe o ceto si presenta distinto (Storici italiani del Novecento, cit., p. 403).