CAVRIANI, Federico
Decimo di tredici figli, nacque a Mantova il 16 sett. 1762 dal marchese Ferdinando e da Maria Rosa, Bentivoglio D'Aragona. La famiglia antica e illustre era anche, secondo il catasto teresiano del 1785, di gran lunga la più ricca tra quelle della nobiltà mantovana. Ricevette in casa una buona educazione dal sacerdote G. Slopp e, successivamente, dal gesuita bolognese T. Paolini, mentre l'abate G. B. Bozzoli gli insegnò matematica e filosofia.
Nel 1781, dopo avere rischiato di morire di vaiolo, passò a completare la propria formazione all'Accademia dei nobili ecclesiastici di Roma (1781-84), frequentata dai giovani delle più illustri famiglie italiane. Qui, con l'ex gesuita F. A. Zaccaria, il vivace difensore dell'ortodossia cattolica e del primato del papa, studiò storia ecclesiastica, di cui, proprio negli anni romani, redasse un Compendio rimasto inedito. La sua educazione fu dunque rigidamente ortodossa "secondo il metodo dei gesuiti", come egli stesso, ormai vecchio, ebbe a definirla; di suo, semmai, ci aggiunse l'amore per le lingue che lo indusse a studiare oltre al latino e al greco, anche il francese e il tedesco. Laureatosi in utroque iure all'università romana della Sapienza, ricevette nel 1785 gli ordini minori e quindi fu nominato da Pio VI cameriere segreto (1785) e prelato domestico (1786).
All'inizio del 1786, in qualità di vicelegato, si trasferì nelle Marche gl seguito del tollerante cardinale G. M. Doria Pamphili, che era stato inviato dal papa a reggere la Legazione di Urbino. Giovane, ricco e colto, il C. visse "con grandissimo splendore" tra Urbino e Pesaro, la sede ormai preferita dai cardinali legati, dove, proprio in quegli anni, sulla scia di una pregevole tradizione di studi classici, si veniva sviluppando tra gli esponenti della nobiltà e del clero un moderno circolo culturale che ruotava intorno all'ambizioso e brillante marchese F. M. Mosca, figlio del primo editore dell'Anti-febbronio dello Zaccaria (Pesaro 1767).
Nel 1792, allorché il Mosca erigeva nella splendida villa di Caprile un'accademia dove i futuri "giacobini" pesaresi vennero dibattendo, con notevole apertura mentale e spesso al limite dell'ortodossia politica e religiosa, grandi temi del riformismo illuminato, il C., col nome di Dercillo Ippaniense, assunto allorché, appena ventenne, era stato aggregato all'Arcadia, pubblicava una canzone per La morte di Leopoldo II (Ferrara 1792) ricordando dell'imperatore scomparso "la solidità del filosofo" e, con riferimento agli anni in cui da Firenze aveva guidato il moto riformatore in Italia, "gli applausi della Toscana per lui rigenerata". Contemporaneamente pubblicava anonimo un Saggio sui principi fondamentali de' diritti dell'uomo (Assisi 1792).
L'opuscolo era presentato come una "compendiosa ripetizione" del trattato De' diritti dell'uomo (Assisi 1791) di Nicola Spedalieri, da cui riprendeva in effetti lo schema e i motivi ispiratori. Identica è la tesi sull'origine contrattualistica del potere (e sulla naturale socialità dell'uomo, in implicita polemica con Rousseau), ma il C. appare più deciso fautore, in un momento di profondo sconvolgimento sociale, della necessità di un nuovo ordine, il cui fondamento deve rimanere comunque la religione cristiana. Anch'egli, inoltre, aderisce all'ipotesi reazionaria circa l'esistenza di un "piano concertato per distruggere la religione cristiana, ed i presenti governi" bandito dai "philosophes" e attuato mediante la lotta contro il principio d'autorità, la libera circolazione dei libri e la tolleranza.
Nel quadro della cultura tradizionale si muovevano invece il curioso dibattito con l'abate G. C. Cordara, in cui il C. si faceva sostenitore De' vantaggi dell'orologio oltramontano sopra l'italiano (Urbino 1792) e, sotto il solito pseudonimo arcadico, i tre libri della fluida e fine traduzione in versi anacreontici degli Amori ovidiani (Sulmona 1794), presentata in aperta polemica con quella del Baretti giudicata "incompleta" e spesso confinante con "la schietta prosa".
Nel 1795 lasciò le Marche per ritornare in patria, e qui, dopo l'arrivo delle truppe francesi, si indusse ad abbandonare l'abito talare e a trasferirsi, per evitare ogni curiosità e pettegolezzo, a Cento, dove possedeva una signorile dimora. Nel 1797 rifiutò la nomina a rappreselitante di Cento nel Corpo legislativo della Repubblica cispadana,. preso come era dalla, stesura degli Elementi repubblicani (Bologna 1797).
Il lucido volumetto, scritto "con la sicurezza beata di poter dire la verità al popolo senza paventare le minaccie del despota e del superstizioso" (p. 3), riprende in gran parte le tesi esposte nel Saggio del 1792, che ora però sono dirette a sostenere la superiorità della democrazia "convenzionale" (cioè rappresentativa) sulle altre forme di governo. È ribadita fermamente la necessità di fondare lo Stato sui principi etici del cristianesimo, il quale "ha la facoltà di conferire la grazia Divina, e con questa l'Uomo vince gli ostacoli, che si oppongono ad essere virtuoso" (p. 66).
Subito dopo la caduta del governo temporale, il C. pubblicò una seconda edizione degli Elementi repubblicani (ibid. 1798), "corretta e riformata", in modo da accogliere i principi cari al "giacobinismo" italiano del triennio rivoluzionario.
Vi si riprendono sinteticamente le idee del Rousseau sui diritti naturali, sul contratto sociale e sulla sovranità popolare per condannare la monarchia con esempi tratti dalla storia biblica ed esaltare la democrazia e il governo repubblicano. Testimoniano le aspirazioni e le illusioni del giacobinismo italiano l'affermazione recisa che "l'aristocrazia deve perire" (p. 28) e l'insistenza sull'istruzione obbligatoria dai sei ai dieci anni come "massima fondamentale della democrazia" (p. 40) e sul principio che nella repubblica "ogni cittadino è soldato" (p. 41), anche se l'indispensabile "democratizzazione universale" esclude ogni ricorso alla guerra. Trovano altresì spazio le idee più avanzate del radicalismo religioso, per cui le verità fondamentali della religione cristiana, se professata "nella sua purità e quale il suo fondatore la proclamò" (p. 49), necessariamente derivano dai dettami della ragione e delle leggi naturali.
Il successo del volumetto rese il suo autore molto popolare tra gli "unitari" italiani, e indusse gli esponenti del Circolo costituzionale di Pesaro, in buona parte suoi vecchi amici, ad invitare l'autore a partecipare alle loro riunioni. E il C., tra il maggio e il giugno 1798, parlò a Pesaro una prima volta abbozzando sarcasticamente le caricature degli aristocratici e dei "fanatici" che prosperavano all'ombra dell'odiata libertà; una seconda volta, esaltando come necessario il terrorismo e invocando "il rigor della legge velocemente esercitato contro i rei di lesa nazione" e, infine, per convincere gli incerti, anche con il conforto di esempi biblici, a prestare giuramento di fedeltà alla Repubblica cisalpina e di "odio al governo dei re".
Crollate le repubbliche giacobine, il C. parve disposto a ricredersi; secondo il Fabi Montani egli si sarebbe recato a Padova per invocare il perdono di papa Pio VII, dopo di che avrebbe vestito di nuovo l'abito prelatizio e sarebbe tornato a Pesaro a completarvi la carriera di vicedelegato. La notizia non trova riscontri e, comunque, la resipiscenga dovette essere molto breve, perché dal gennaio 1801 al marzo 1802 egli scriveva da Bologna all'urbinate marchese A. Antaldi dando notizie sui personaggi della Cisalpina con i quali veniva in contatto e inviandogli persino una strofetta in cui auspicava "ildì che le chercute teste / sgombrin dal mondo".
Faceva intanto stampare splendidamente a Parma nel 1802 dal Bodoni una seconda edizione dei tre volumi degli Amori ovidiani e, sotto il titolo di Poesie varie, una raccolta di sonetti, canzoni e odi di argomento religioso, politico e mitologico composte in un lungo arco di anni.
Con la protezione di F. Melzi d'Eril iniziava anche una fortunata carriera nell'amministrazione napoleonica, accettando nel 1802 la viceprefettuxa di Pavia. Nel maggio dello stesso anno fu tra i candidati alla carica di plenipotenziario a Madrid e nel dicembre, come "uomo di grande famiglia, illuminato, saggio e generalmente stimato", entrò in una rosa di personaggi proposti per rappresentare all'estero la Repubblica italiana.
Nel marzo del 1801, subito dopo essere passato a Ferrara come commissario straordinario del Basso Po in sostituzione del Magenta implicato nel caso Ceroni, fu presentato dal Melzi come la persona più adatta a succedere all'infermo Villa nella carica di ministro dell'Intemo nonostante qualche perplessità del Marefoschi per i suoi passati rapporti con i più accesi giacobini bolognesi. Napoleone nel giugno superò ogni indecisione invitandolo a Pari gi come suo consigliere e rinviando a un momento successivo la nomina a ministro. Ma il C. rifiutò di muoversi dall'Italia anche perché aveva intanto sposato la concittadina contessa Anpa Facchini, dalla quale avrà quattro figli: Cesare, Ferdinando, Vittoria e Massimiliano.
Rimase dunque a Ferrara dove dall'agosto ricoprì la carica di prefetto, avendo accanto per alcuni mesi come segretario generale il letterato P. Giordani. Quattro anni dopo, nel 1807, fu trasferito a Modena come prefetto dei Panaro.
Nominato senatore su designazione dei possidenti del dipartimento del Mincio, nel 1809 andò a vivere a Milano: per incarico del Senato si recò a Parigi al battesimo del figlio di Napoleone e pronunciò le orazioni funebri per il ministro del culto G. Bovara e per il senatore F. Ercolani. Nel 1813, subito dopo la sconfitta di Lipsia, fu inviato nel Mantovano a rincuorare gli abitanti e a predisporre la difesa di quel dipartimento.
Chiusa la parentesi napoleonica e tornato definitivamente in patria, poté di nuovo dedicarsi agli studi, impegnandosi in opere che uniscono l'erudizione all'intento didascalico. Pubblicò la puntuale e dotta Vita di Francesco Petrarca (Mantova 1816) scritta in un italiano volutamente ricercato; forse le trenta Lettere filosofiche alla studiosa gioventù (Milano s.d.) che egli stesso definì un "corso di metafisica antico e moderno" e, infine, una specie di ars poetica, corredata da esempi tratti da poeti greci, latini ed italiani, che intitolò Della epopea libri due (Padova 1817). Di nuovo alla poesia epica sono riferibili le Considerazioni sopra il poema dell'Odissea (Milano 1821): dedicate "alla colta gioventù", esse sono essenzialmente un'esposizione, canto per canto e con confronti tra greco, latino e italiano, del contenuto del poema omerico che l'attesa per la traduzione del Pindemonte assai viva nel mondo letterario italiano di quegli anni, rendeva, per così dire, di moda.
Con più vaste ambizioni furono invece concepiti i due massicci volumi Delle scienze, lettere ed arti dei Romani dalla fondazione di Roma sino ad Augusto (Mantova 1822-1823). In essi il C., con grande sfoggio di erudizione e con il trasparente intento di interpretare in chiave patriottica le conquiste della cultura latiba, ne traccia un quadro molto più ampio di quello corrente perché esteso, oltre che alla, letteratura e alla giurisprudenza, anche all'agricoltura, alla medicina, all'astronomia, alla nautica e, soprattutto, alla botanica, alla quale, in novantasei tavole che mettono a confronto le cognizioni di Plinio con quelle di Linneo, è dedicato quasi per intero il secondo volume. L'opera ebbe larga eco fra i contemporanei, anche, se i giudizi furono cauti o addirittura negativi: il pisano NuovoGiornale de' letterati (XI [1823], pp. 3-19; XII [1823], pp. 196-217; XVI [1824], pp. 193-206), se sottolineò che la prima parte era "ricca di scelta e pellegrina erudizione", alla comparsa del secondo volume scrisse chiaramente che le intenzioni panegiriche provocavano inaccettabile esagerazione nei giudizi e che le tavole di botanica erano "un lavoro inutile" e non esente da "grossi abbagli"; la fiorentina Antologia (XLVIII[1824], pp. 41 s.) parlò del "vano lusso di erudizione" e dei molti errori nelle pagine dedicate, alla cronologia liviana. Né fu più benevolo il giudizio della milanese Biblioteca italiana (XXIV[1824], pp. 27-43).
Intanto, anche se nelle conversazioni con gli amici ripudiava ormai le operette politiche considerandole solo "parti di fantasia giovanile", nel diffidente clima della Restaurazione venne sospettato di non essere completamente estraneo al circolo di liberali, massoni e carbonari che, con intenti antiaustriaci, si riunivano intorno al patriota mantovano conte Arrivabene. Peraltro, il prestigio del personaggio e il rilievo sociale della sua famiglia inducevano le autorità austriache a consentirgli l'esercizio di qualche incarico pubblico: veniva infatti chiamato nel. 1819 a dirigere per sette anni le Pie Case di ricovero e industria, sorte per dare sollievo alla dilagante miseria e, in chiave paternalistica, l'ormai sessantenne ex giacobino dedicò qualche energia al problema dell'indigenza e del vizio fra le classi umili. Nel 1826 fu eletto deputato presso la Congregazione provinciale di Mantova e nel 1831 presiedette il Consiglio comunale; invece non fu mai podestà, come pure affermano alcuni biografi. In questi anni fu anche viceprefetto della mantovana Accademia di scienze, belle lettere ed arti.
Cavaliere di Malta e commendatore della Corona di ferro, aggregato alla nobiltà bolognese, fu membro della Società agraria del Reno e delle accademie Rubiconia, Virgiliana, dei Rinvigoriti, degli Ariostei, e di quella di Scienze, lettere ed arti di Modena.
Il C. morì a Mantova il 3 luglio 1833.
Fra gli scritti, oltre quelli citati, vanno ricordati: Della morale dei Romani dall'epoca dei re sino a Giulio Cesare, negli Annali di scienze e lettere (X, Venezia 1812, pp. 221-50 e i Sonetti per la statua di Virgilio e pei busti di celebri mantovani eretti nel giardino di sua famiglia (Mantova 1835). Molti suoi autografi sono a Mantova presso l'archivio di famiglia e fra essi sono state scelte le Poesie inedite (ibid. 1974, a cura di M. G. Ciani). I tre discorsi tenuti al Circolo costituzionale di Pesaro e qui stampati nel 1798 sotto i titoli: Avviso ai patrioti, Ragionamento sul terrorismo e Discorso sul giuramento sono conservati alla Biblioteca Oliveriana di Pesaro (ms. 963).
Fonti e Bibl.: Lettere autografe del C. sono a Pesaro, Bibl. Oliveriana, ms. n. 1904 C a Mantova, Arch. dell'Accad. Virgiliana, Lettere di accademici, app. III. Per la biografia, fonti mas. all'Arch. di Stato di Mantova: C. D'Arco, Famiglie mantovane, III, p.180; Id., Mille scrittorimantovani, III, p. 38; Deleg. Provinciale, Attiriservati, b. 43, Esame di F. C. (1821); all'Arch. dell'Accad. Virgiliana di Mantova: P. Predella, Repert. degli scrittori mantovani; all'Arch. Cavriani di Mantova: L. Rosso, Uomini ill. mantovani, p.143. Sempre per la biografia si vedano inoltre: Gazz. di Pesaro, 1798, nn. XXII, XXIII, XXIV e XXVII; E. De Tipaldo, Biografia degliItal. ill., IV, Venezia 1837, pp. 267-70; F. Fabi Montani, Elogio stor. di F. C., Roma 1837; D. Diamilla Müller, Biografie autografe ed ined. diillustri italiani di questo secolo, Torino 1853, p. 386; G. Zucchetti, Genealogia, Cavriani, Milano 1856, p. 31; C. Zaghi, Le miserie del cittadinoGiordani, in Nuovi problemi di polit., storia edeconomia, V(1934), pp. 361-63; E. Veggetti, Notizie inedite di E. Beauharnais sui candidati alSenato del Regno Italico, in Rass. stor. del Risorg., XX(1933), p. 11; F. Melzi D'Eril, I carteggi, I-VIII,Milano 1958-65, ad Indices, ma soprattutto: I, p. 331; II, p. 279 e IV, pp. 179, 236, 294, 385, 412-413. Offrono anche valutazioni critiche: G. Natali, IlSettecento, Milano 1929, pp. 326, 361, 522; N. Bianchi, I circolicostituzionali durante la prima Repubblica Cisalpina nella Romagna, nelle Marche e nell'Umbria, in Rass. stor. del Risorg., VI(1919), p. 27; T. Casini, Ritratti e studi moderni, Milano-Roma-Napoli 1914, pp. 15-16, 405, 448; Id., Pesaronella Repubblica Cisalpina. Estratti dal diario diD. Bonamini (1797-1799), Pesaro 1891, pp. 45-51; S. Caponetto, Il giacobinismo nelle Marche. Pesaro nel triennio rivoluzionario (1796-1799), in Studia Oliveriana, X(1962), pp. 23-25; S. Rota Ghibaudi, La fortuna di Rousseau in Italia (1750-1815), Torino 1961, pp. 247-49; E. Faccioli, Mantova. Le lettere, III, Mantova 1963, pp. 190 s., 205, 246, 319 s. e L. Mazzoldi-R. Giusti-R. Salvadori, ibid. La storia, III, ibid. 1963, pp. 310, 338, 367-68, 387, 417, 425-26. Sulle proprietà dei Cavriani: M. Vaini, La distribuzionedella proprietà terriera e la società mantovana dal1785 al 1845, I, Il catasto teresiano e la Societàmantovana nell'età delle Riforme, Milano 1973, p. 170. Per l'attribuzione delle opere: G. Melzi, Dizionario di opere anonime e pseudonime di scrittori italiani, I,Milano 1848, p. 283; II, ibid. 1852, pp. 470 s.