GALIZIA, Fede
Anno e luogo di nascita della G. rimangono ancora da precisare. La tradizionale data 1578 - ricavata dall'iscrizione apocrifa del Ritratto di Paolo Morigia della Pinacoteca Ambrosiana, che mal si combina con le precoci attestazioni di stima nei confronti della pittrice - è stata opportunamente posta in discussione da G. Berra (1989), che propone di anticiparla al 1574. Giunta bambina da Trento a Milano, o più probabilmente nata in questa città, la G. si formò nella bottega del padre Nunzio.
Nunzio nacque a Trento probabilmente intorno al quarto decennio del Cinquecento e giunse a Milano intorno agli anni Settanta. Senza preliminari contatti di committenza, riuscì ad affermarsi gradatamente nell'ambito della produzione artigianale di lusso. Il rifiuto di due richieste di privilegio avanzate dall'artista per il commercio di ventagli "alla spagnola" (marzo-aprile 1573) testimonia un'iniziale difficoltà di inserimento nel mercato milanese, superata con un'abile politica di relazioni e conoscenze: nel 1578 dedicò la stampa di una veduta di Milano incisa su rame a G. Gosellini, rivolgendosi all'omaggiato come a intenditore e "fermo presidio" degli artisti; e nel nono decennio l'attività miniaturistica gli procurò una certa fama, sanzionata anche in ambiente letterario: nel 1587 un sonetto di G.P. Lomazzo includeva il nominativo di Nunzio tra quelli dei migliori esponenti del genere (Fogolari, 1898, pp. 295-297, 299). Qualche anno più tardi (1592), nella dedica di un madrigale, il letterato G. Borgogni lo definiva "miniator eccellente" (Berra, 1989, p. 25). All'inizio del 1589 disegnò e realizzò gli ornamenti dell'abito indossato dal duca di Mantova Vincenzo Gonzaga per le nozze di Ferdinando de' Medici con Cristina di Lorena, dando prova di uno squisito talento decorativo. A simili commissioni di prestigio l'artista affiancò, nella pratica di bottega, impegni di minor entità: rimane menzione documentaria di alcuni stemmi di papa Gregorio XV da lui dipinti nel duomo di Milano, uno dei quali rifiutato perché male eseguito (1591); e in occasione delle nozze del figlio del governatore di Milano Juan Fernández de Velasco, celebrate nel 1594, gli venne affidata la realizzazione dei costumi di scena di una Caduta di Fetonte: la rinomanza acquisita attraverso le commissioni di carattere ufficiale gli consentì di prendere contatti con la corte sabauda a Torino, ove forse si trasferì a fine secolo (Fogolari, 1898, pp. 302 s., 306), aprendo alla figlia importanti prospettive di lavoro. Nel 1610 abitava con la moglie Caterina e il resto della famiglia nella parrocchia milanese di S. Nazaro (Berra, 1989, pp. 23, 28; 1992, p. 44); ancora nel 1621 ricevette un pagamento a Torino per un'opera non identificata. Nunzio morì con ogni probabilità nel terzo decennio del secolo.
Già nel 1587 il Lomazzo associava la G. al genitore per merito e bravura, distinguendo però nettamente tra le rispettive competenze; tre anni dopo ne lodava l'attività di copia dai nomi eccellenti della pittura italiana (Fogolari, 1898, pp. 299, 309 s.). La pratica incisoria e quella miniaturistica, apprese dal padre, condizionarono da presso la maniera dell'artista. Prima opera nota della G. è il ritratto a incisione di G. Borgogni, col quale il letterato corredò, nel 1592 e nel 1593, due successive raccolte di rime (Berra, 1989). Attraverso l'uso della tecnica paterna la giovane G. espresse, sin da questi anni, la propria vocazione fondamentalmente ritrattistica. Entro il 1595 aveva prodotto un numero considerevole di disegni e vari ritratti degni di menzione, tra i quali quelli del padre, della madre, di due nobildonne milanesi (tutti perduti) e quello di Paolo Morigia allo scrittoio (Milano, Pinacoteca Ambrosiana), in cui l'interesse naturalistico si rivela nella forte caratterizzazione fisiognomica e nel riflesso delle finestre sulle lenti impugnate dall'effigiato ritratto tra i suoi libri nell'atto di siglare una poesia sull'autrice (scritta, in realtà, per l'occasione dal Borgogni: Berra, 1989).
All'inizio degli anni Novanta, per diretto interessamento di G. Arcimboldi, alcuni quadri della G. raggiunsero la corte praghese di Rodolfo II, dove pare che la maniera della giovane fosse particolarmente apprezzata. I contatti con la corte imperiale contribuirono, insieme con quelli con l'aristocrazia e con l'élite culturale milanese, a confermare la visibilità della G. nel panorama artistico cittadino. Nel 1596 firmò e datò la Giuditta (Sarasota, FL, Ringling Museum of art), in cui l'attenzione verte sulla perfetta resa delle vesti e dei gioielli, trattati con cura meticolosa, piuttosto che sulle potenzialità drammatiche della scena. Il tema della Giuditta è una costante nell'opera della G., non per le implicazioni ideologiche del soggetto come è stato ipotizzato (Caroli, 1990, p. 81; Caroli - Spadaro, 1997, p. 565), quanto per le possibilità combinatorie che consentiva l'abbigliamento dell'eroina. Nelle quattro Giuditte, riferite o riferibili al suo nome, la G. mise a punto gli insegnamenti del padre costumista, nonché una sbrigliata fantasia personale di creatrice di stoffe e gioie: la sintomatica serialità di impostazione accentua gli scarti nell'abito, nei gioielli e nell'acconciatura; ogni singola immagine "prova" un diverso modello di sartoria. Al 1601 risale la Giuditta della Galleria Borghese di Roma, seconda e ultima versione sicuramente autografa del tema; firma e data, apposte sul bacile, emersero da una pulitura di fine Ottocento (Della Pergola, 1959).
Contemporaneo o di poco precedente è il ritratto - destinato a essere incastonato in una scatola d'ebano e ormai perduto - del medico Ludovico Settala, inciso nel 1601 da Raphael Sadeler (Berra, 1992, pp. 40 s.). Si tratta del "ritratto in piccolo" citato dal Santagostini (1671, p. 92), in passato erroneamente identificato con il Ritratto di uomo con teschio della collezione Gregori, anch'esso di mano della G. (Bona Castellotti, 1990, p. 350). Con questa commissione prendeva avvio, o trovava consolidamento, il principale fra i rapporti sociali dell'artista. I Settala accolsero nella loro quadreria, in tempi diversi, numerosi dipinti eseguiti dalla G.: dei ritratti della pittrice, genere cui pare accordassero netta preferenza, entrarono in loro possesso, tra gli altri, un Ritratto di Nunzio Galizia, un Autoritratto e un Ritratto di Isabella Calusca, nuora di Ludovico (Berra, 1990, p. 58).
Nel primo decennio del secolo l'attività della G. continuò a riscuotere ampio successo, come è attestato dalle rime dedicatele rispettivamente nel 1605 e nel 1609 da Mutio Manfredi e da Cesare Rinaldi, intese a magnificare il sapiente naturalismo pittorico e la "virginella man, dotta" dell'artista (Bottari, 1965, pp. 25 s.). Da un documento del 1610 (Besta, 1933) risulta che la G. non si era sposata e viveva con la sorella Margherita e la cugina Anna sotto il tetto paterno. A questa data la collaborazione con il padre, con il quale la G. divideva la bottega, doveva essere ancora intensa; è anzi probabile che ella aiutasse il genitore nella creazione di modelli per feste e occasioni ufficiali. Giusto nel 1611 G. Soranzo ricorda nel suo Armidoro l'abilità della G. ad "animare" i lini (Berra, 1990, p. 58). A questa produzione di abiti fa presumibilmente riferimento il disegno, non databile, di Donna con conocchia del codice Bonola del Museo nazionale di Varsavia, che raffigura un'agile figuretta abbigliata e acconciata di tutto punto. Non è escluso che la G. conoscesse e idealmente si ispirasse alle creazioni dell'Arcimboldi per le feste della corte praghese (Mrozinska, 1959, p. 50). Firmato e datato 1611 è il S. Carlo in estasi davanti alla reliquia del Santo Chiodo della chiesa di S. Carlo alle Mortelle a Napoli, recuperato alla G. dopo un lungo periodo di permanenza nel catalogo di Antonio De Bellis (Ruotolo, 1968).
Il quadro fu presumibilmente commissionato, per 300 ducati, da un Pietro Cortone di Bergamo, che nel 1614 lo donò alla chiesa napoletana. È un esemplare paradigmatico della cultura controriformata milanese di inizio secolo, notevole per la caratterizzazione del volto affilato del Borromeo, la cui iconografia veniva messa a punto in quegli anni da G.B. Crespi. Nonostante l'indubbia volontà di approfondimento psicologico - secondo le direttive impartite dal Lomazzo nel Trattato dell'arte della pittura (1584) - la G. dà il suo meglio nella tovaglia d'altare finemente ricamata e nello splendido piviale del santo. Dall'assoluta preminenza delle stoffe (qui come altrove) è lecito supporre che la pittrice sfruttasse la valenza decorativa del tessuto per impreziosire le immagini nell'austero clima postridentino.
Curatissima nell'acconciatura e nelle vesti appare la Maddalena del Noli me tangere conservato in S. Stefano a Milano, il brano pittorico più articolato concepito dalla G., originariamente sull'altare maggiore della chiesa della Maddalena al Cerchio (1616). Nel quadro l'attenzione al dato naturalistico, cifra linguistica dell'artista, è smorzata da esigenze di idealizzazione, evidenti soprattutto nella posa manierata del Cristo. Dopo il 1616 la G. lavorò per la chiesa di S. Antonio Abate dei teatini, realizzando il S. Antonio eremita e il S. Paolo ai lati del finestrone del coro, oggi in cattivo stato di conservazione. Sempre per i teatini licenziò, alla fine del secondo decennio, il S. Carlo Borromeo in processione con il Santo Chiodo, opera più castigata, di minor effetto e qualità rispetto alle altre, spesso espunta dal suo catalogo (Caroli, 1990, pp. 90 s.; Bona Castellotti, 1990, p. 350). Al 1620 circa andrebbe collocata (Caroli, 1990, p. 82), una versione della Giuditta in collezione privata milanese. Ancora su commissione dei teatini, con i quali andava avviando nel frattempo un serrato dialogo spirituale, la G. dipinse il ritratto post mortem del benefattore Pietro Martire Mascheroni (scomparso nel 1622), ricevendone pagamento nel maggio 1623. Nel ritratto tornano le caratteristiche salienti della sua arte: il naturalismo quasi caricaturale dei tratti somatici nonché l'attenzione al vestiario, qui riassunto in una gorgiera perfettamente geometrica. L'ultima opera della G. grosso modo databile è un Ritratto dell'anziano Ludovico Settala, concepito come memoria ufficiale del medico, morto nel 1633. Il dipinto, riferibile al passaggio tra terzo e quarto decennio del secolo, è conservato nella Pinacoteca Ambrosiana (Berra, 1992, p. 44).
Il 21 giugno 1630, durante la peste, la G. redasse il proprio testamento, scegliendo per eredi la cugina Anna, il nipote Carlo Enrico e i padri teatini di S. Antonio, ai quali destinava sei dipinti e, alla morte dei parenti, l'intera quadreria personale. I quadri menzionati nel testamento erano tre copie dal Correggio, una dal Luini, un Cristo portacroce e un'Incredulità di s. Tommaso, identificata (Bona Castellotti, 1990, p. 350) con quella, assai malridotta, conservata presso la canonica della chiesa milanese di S. Eustorgio. Ancora a questa data la G. aveva un credito di 506 scudi con la corte dei Savoia, che girava a favore del nipote. La G. morì a Milano, probabilmente di peste, nel 1630.
L'artista non appartenne ad alcuna scuola, ma nella sua cultura autodidatta confluirono tutti gli spunti offerti dalla tradizione lombarda e dal panorama artistico contemporaneo: il tardo manierismo emiliano (evidente nelle Giuditte), la ritrattistica borghese di L. Lotto e di G.B. Morone, la pittura sacra di G.B. Crespi e G.C. Procaccini. A tali referenti va aggiunta la meditazione personale sui testi di Leonardo e Correggio, dai quali la G. approntò diverse copie. Nella collezione dei Settala erano presenti una Zingara da Leonardo e la Zingarella dal Correggio (questa, all'Ambrosiana: Bona Castellotti, 1978, p. 32); nella Pinacoteca arcivescovile di Milano e nella Pinacoteca civica sono conservate due riproduzioni del Cristo nell'orto del Correggio.
Quest'attività di copia, che la rese cara ai collezionisti, è una delle molte specialità di mestiere della G. oscurate dalla sua fama di pittrice di nature morte più recentemente acquistata presso i critici. L'interesse della G. per la natura morta, benché assai precoce, non fu più rilevante di quello per i generi tradizionali. Si ha testimonianza inventariale di una dozzina di nature morte realizzate dall'artista, nella maggior parte delle quali, accanto ai frutti, figuravano animali vivi o morti, per lo più uccelli. È stato ipotizzato (Berra, 1990, pp. 56 s.) che a condurre l'artista a tali pionieristiche sperimentazioni fosse in primo luogo l'esempio dell'Arcimboldi, che nel 1590 aveva esposto a Milano il Vertumno destinato a Rodolfo II. Nessuna delle nature morte citate negli inventari è iconograficamente rapportabile a quelle attribuite alla G.: unica eccezione, la tavola Mele, cesto con castagne e coniglio del Museo civico di Cremona, identificabile in via ipotetica con un quadro della collezione Pierre Bonnard di Parigi (inventario del 1647: Caroli, 1990, p. 83; Berra, 1990, p. 59). Testo base della produzione di nature morte della G. è l'Alzata con prugne, pere e una rosa già nella collezione Anholt di Amsterdam, sul retro della quale sono stati letti il nome dell'artista e la data 1602 (Benedict, 1938). Il quadro - una delle prime nature morte italiane - è oggi irreperibile. Una copia di proporzioni leggermente maggiori, sprovvista di indicazioni di sorta, è conservata in collezione privata a Bassano (Morandotti [1989] ha ritenuto che si potesse trattare dell'originale ex Anholt, privo dell'iscrizione a causa di una parchettatura). Altro esemplare canonico è l'Alzata con pesche e gelsomini della collezione Campagnano di Firenze, riferita alla G. da un cartiglio incollato sul retro in epoca indeterminata. Alcuni tratti comuni ai due dipinti - l'essenzialità del taglio compositivo, il particolare trattamento degli elementi naturali e, non ultima, la ricorrenza di un'alzata metallica della medesima foggia - sono assurti a parametri per l'identificazione dell'intero catalogo (Bottari, 1963; 1965), nonché per il suo successivo assestamento, dovuto principalmente agli interventi di Veca, Salerno, Morandotti, Caroli. Le nature morte attribuite alla G. hanno un'impostazione seriale: un piano d'appoggio inquadrato da presso, quasi sempre frontale, su sfondo cupo; frutti e fiori - pesche, pere e gelsomini, per lo più - trattati con un gusto geometrico della forma; un forte senso di rarefazione atmosferica e sospensione temporale. Elemento guida alla compilazione del catalogo galiziano è stato, e rimane a tutt'oggi, indebitamente trasformato in criterio stilistico, il suggestivo giudizio del Longhi (1950), secondo il quale la G. crea nature morte "attente, ma come contristate". L'inconsistenza dei dati di partenza (un quadro scomparso; uno, attribuito con modalità non verificabili), di cui gli stessi sostenitori di una G. principalmente "naturamortista" sono in parte coscienti (Morandotti, 1989; Caroli, 1990, p. 10); la contiguità sorprendente delle nature morte riferite alla G. con quelle ascritte a Panfilo Nuvolone - con travasi continui da un catalogo all'altro e querelles attributive ancora non risolte - hanno condotto agli opportuni aggiustamenti di tiro di Berra (1990; 1992) e Bona Castellotti (1990), che propongono di ridisegnare la figura della pittrice sulla scorta delle testimonianze documentarie, riconducendone la produzione di nature morte nell'alveo di un'attività artistica assai più variegata e duttile.
Fonti e Bibl.: A. Santagostini, L'immortalità e gloria del pennello… (1671), a cura di M. Bona Castellotti, Milano 1980, pp. 21, 24, 31, 39, 71, 91 s.; G. Fogolari, Artisti trentini a Milano: Nunzio e F. Galizia, in Tridentum, I (1898), pp. 293-318; B. Besta, Alcune notizie per una storia degli artisti milanesi del Seicento, in Arch. stor. lombardo, LX (1933), p. 460; C. Benedict, Osias Beert, in L'Amour de l'art, XIX (1938), p. 309; R. Longhi, Un momento importante nella storia della "natura morta", in Paragone, I (1950), 1, p. 35; P. Della Pergola, Galleria Borghese. I dipinti, II, Roma 1959, pp. 27 s.; M. Mrozinska, I disegni del Codice Bonola del Museo di Varsavia (catal.), Venezia 1959, pp. 49 s.; S. Bottari, F. G., in Arte antica e moderna, VI (1963), 24, pp. 309-318; Id., F. G. pittrice, Trento 1965; R. Ruotolo, Un dipinto ignoto di F. G., in Paragone, XIX (1968), 215, pp. 65 s.; M. Bona Castellotti, Due aggiunte al catalogo di F. G., in Arte lombarda, XLIX (1978), pp. 30-32; A. Sutherland Harris - L. Nochlin, Le grandi pittrici. 1550-1950 (catal., Los Angeles 1976), Milano 1979, pp. 113-115; A. Veca, Parádeisos. Dall'universo del fiore (catal.), Bergamo 1982, pp. 302-305; Id., Simposio. Cerimonie e apparati (catal.), Bergamo 1983, pp. 344 s.; L. Salerno, La natura morta italiana. 1560-1805, Roma 1984, pp. 58-61; Id., Tre secoli di natura morta italiana. La raccolta di Silvano Lodi (catal.), Firenze 1984, pp. 48-53; P. Lorenzelli - A. Veca, Forma vera. Contributi a una storia della natura morta italiana (catal.), Bergamo 1985, pp. 131-162; N. Ward Neilson, in La pittura in Italia. Il Seicento, Milano 1988, II, p. 751; J. Lorenzelli - A. Veca, Lombardia 1620 circa. Natura morta delle origini (catal.), Bergamo 1989, passim; A. Morandotti - M. Natale, La natura morta in Lombardia, in La natura morta in Italia, I, Milano 1989, ad ind.; A. Morandotti, F. G., ibid., p. 222; G. Berra, Alcune puntualizzazioni sulla pittrice F. G. attraverso le testimonianze del letterato Gherardo Borgogni, in Paragone, n.s., XL (1989), 469, pp. 14-29; F. Caroli, F. G., Torino 1990 (con bibl.); G. Berra, La natura morta nella bottega di F. G., in Osservatorio delle arti, V (1990), pp. 55-62; M. Bona Castellotti, Uno studio recente su F. G., in Arte cristiana, LXXVIII (1990), pp. 347-350; F. Caroli, Aggiunte a Sofonisba Anguissola e F. G., in Notizie da Palazzo Albani, XX (1991), pp. 143-148; G. Berra, Appunti per F. G., in Arte cristiana, LXXX (1992), pp. 37-44; A. Sutherland Harris, G. F., in The Dictionary of art, XII, London-New York 1996, p. 11; F. Caroli - D. Spadaro, G. F., in Dictionary of women artists, London-Chicago 1997, pp. 564-566; U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XIII, pp. 99 s. (anche per Nunzio).