Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Le radici storiche dei racconti fantastici e surreali si collocano in quella particolare età di passaggio che dall’antico regime conduce alla modernità; ma è soprattutto la cultura letteraria e filosofica del Novecento a rivalutare la straordinaria profondità immaginativa e teorica di questi generi e sottogeneri letterari. Durante il secolo il fantastico prima incontra felicemente la ricercata familiarità con il mondo onirico voluta dai surrealisti e in seguito si rinnova attraverso la scrittura fiabesca e meravigliosa, finendo addirittura per suscitare un nuovo genere di larga diffusione popolare come il fantasy.
Teorie moderne del fantastico
Lewis Carroll
Alice nel paese delle meraviglie, Cap. I
Alice cominciava a sentirsi assai stanca di sedere sul poggetto accanto a sua sorella, senza far niente: aveva una o due volte data un’occhiata al libro che la sorella stava leggendo, ma non v’erano nè dialoghi nè figure, - e a che serve un libro, pensò Alice, - senza dialoghi nè figure?
E si domandava alla meglio, (perchè la canicola l’aveva mezza assonnata e istupidita), se per il piacere di fare una ghirlanda di margherite mettesse conto di levarsi a raccogliere i fiori, quand’ecco un coniglio bianco dagli occhi rosei passarle accanto, quasi sfiorandola.
Non c’era troppo da meravigliarsene, nè Alice pensò che fosse troppo strano sentir parlare il Coniglio, il quale diceva fra se: “Oimè! oimè! ho fatto tardi!” (quando in seguito ella se ne ricordò, s’accorse che avrebbe dovuto meravigliarsene, ma allora le sembrò una cosa naturalissima): ma quando il Coniglio trasse un orologio dal taschino della sottoveste e lo consultò, e si mise a scappare, Alice saltò in piedi pensando di non aver mai visto un coniglio con la sottoveste e il taschino, nè con un orologio da cavar fuori, e, ardente di curiosità, traversò il campo correndogli appresso e arrivò appena in tempo per vederlo entrare in una spaziosa conigliera sotto la siepe.
Un istante dopo, Alice scivolava giù correndogli appresso, senza pensare a come avrebbe fatto poi per uscirne.
La buca della conigliera filava dritta come una galleria, e poi si sprofondava così improvvisamente che Alice non ebbe un solo istante l’idea di fermarsi: si sentì cader giù rotoloni in una specie di precipizio che rassomigliava a un pozzo profondissimo.
Il secolo che produce la migliore letteratura surreale e fantastica è senza dubbio l’Ottocento, l’età di Ernest Theodor Amadeus Hoffmann, Théophile Gautier, Nikolaj Gogol’, Nathaniel Hawthorne, e poi di Robert Louis Stevenson, Edgar Allan Poe, Bram Stoker, Auguste Villiers de l’Isle-Adam, Guy de Maupassant e molti altri. Al Novecento, invece, deve essere riconosciuto il merito di aver cercato di definire con straordinaria curiosità speculativa i limiti teorici e i codici espressivi di questa tradizione letteraria, contribuendo in maniera decisiva alla riscoperta e alla rivalutazione di molte opere e di molti autori dediti al fantastico.
Nel corso del secolo i problemi posti dall’immaginario fantastico attirano, in modo forse inatteso, l’attenzione di pensatori appartenenti ai più diversi campi del sapere, dall’antropologia alla critica letteraria, dalla psicologia del profondo alla sociologia della conoscenza. Un ruolo di primo piano deve essere riconosciuto anzitutto a Sigmund Freud, che, con il suo saggio del 1919 sul Perturbante (Das Unheimliche), dedicato al racconto L’uomo della sabbia (Der Sandmann, 1817) di Hoffmann, dà alla narrativa fantastica la dignità conoscitiva di un modello psicanalitico. Ma anche e soprattutto dopo Freud, interessato in particolare alle strane seduzioni del terrificante e ai meccanismi inconsci di disorientamento e angoscia associati ai temi del doppio, del trauma e della coazione a ripetere, il dibattito fra autori e studiosi prosegue a lungo, arrivando a produrre distinzioni concettuali e definizioni tipologiche tanto sottili e sofisticate da risultare difficilmente riassumibili ma dalle quali provengono le coordinate del nuovo orizzonte di ricezione del fantastico nel Novecento.
Per prima cosa può essere utile per il lettore farsi guidare dall’intuito. Se si pensa ai maestri ottocenteschi oppure ai grandi autori che nel Novecento hanno continuato a tenere viva l’eredità secolare del gusto gotico, della fiaba e del perturbante, narratori come Henry James, Rudyard Kipling, Michail Bulgakov, Jorge Luis Borges, Alberto Savinio, Giovanni Papini, Italo Calvino o, secondo alcuni, Franz Kafka, risulta abbastanza facile, e certo non scorretto, definire intuitivamente il fantastico come il rovescio del realismo, ovvero come un’infrazione delle norme che, almeno secondo il senso comune, dovrebbero regolare l’esperienza degli uomini nel mondo e di conseguenza anche la sua rappresentazione artistica. Se qualcuno ci racconta una storia mettendo sotto i nostri occhi (o sotto gli occhi dei suoi personaggi) qualcosa di talmente strano da risultare incomprensibile – a meno di non postulare la presenza di un influsso irrazionale, di un’entità che trascende le nostre conoscenze acquisite, di una legge che rimette in discussione le nostre ipotesi sulla realtà umana e naturale – allora stiamo probabilmente entrando in uno dei molti spazi che appartengono al fantastico e al surreale. Il sogno, il delirio, l’ipnosi e le visioni estatiche dei mistici religiosi sono invece alcuni degli archetipi concreti, non mediati dall’arte o dalla letteratura, a cui si può far risalire questa dimensione dell’esperienza umana.
Il difetto insanabile di questa classificazione comparativa, però, è la riduzione ingiustificata e implicita del polo opposto, il realismo, a qualcosa di troppo pedestre e statico. Solo l’idea di una narrativa realistica come piatta cronaca di eventi giustificherebbe una definizione del fantastico come realismo rovesciato. Si tratta di un’idea priva di fondamento, almeno se si pensa, per fare un solo esempio, al genio visionario e avventuroso di grandi realisti come Balzac o Dickens. Si comprende così che il problema di ogni descrizione del fantastico inteso come categoria speciale è dato dal fatto che l’immaginazione letteraria, o se si preferisce la fantasia linguistica e narrativa degli scrittori, procede sempre attraverso ordini di trasposizioni metaforiche, accostando cioè elementi in qualche modo oggettivi, neutri e puramente mimetici, ad altri del tutto arbitrari, eccezionali e innovativi. Per questo le migliori teorie del fantastico sono quelle che lo descrivono come un procedimento letterario composito e polivalente.
Per scrittori colti come il francese Guy de Maupassant o Henry James, il maestro americano della ghost story moderna, l’identità culturale del fantastico non dipende da un particolare linguaggio o dal ricorso a specifiche regole formali. Esso deve essere considerato come un elemento pragmatico, un effetto prodotto dal testo sul lettore, e quindi è qualcosa che deve necessariamente mutare di pari passo con il mutare delle credenze condivise, mirando a trovare modi sempre nuovi per creare storie dotate di un’aura sovrannaturale, così da produrre nel pubblico reazioni di turbamento e insicurezza. Negli anni Sessanta le teorie del fantastico si soffermano in particolare sul problema del rapporto fra l’ordinario e l’inesplicabile, sul conflitto seduttivo che si crea quando nel mondo quotidiano accadono fenomeni incomprensibili, mettendo così a frutto le intuizioni di un pioniere degli studi sull’immaginario surreale, Roger Caillois. Uomo di cultura indipendente e atipica, cresciuto alla scuola antropologica di Marcel Mauss, dal quale avvia un percorso fortemente originale, in dialogo da una parte con i surrealisti dall’altra con George Bataille, insieme al quale fonda il celebre Collège de Sociologie. A partire dal 1958 Caillois ribadisce più volte la sua idea, poi ampiamente condivisa dagli studiosi, secondo cui il fantastico è “una rottura dell’ordine riconosciuto, un’irruzione dell’inammissibile all’interno della inalterabile legalità quotidiana, e non la sostituzione totale di un universo esclusivamente prodigioso all’universo reale” (Nel cuore del fantastico, 1984).
Una piccola rivoluzione nella fortuna teorica del fantastico avviene nel 1970 quando il critico bulgaro, ma francese d’adozione, Tzvetan Todorov porta a termine la sua analisi strutturale della letteratura fantastica definendola come un genere letterario ben preciso e dotato di una sua ordinata grammatica compositiva, sia formale sia tematica, un po’ come aveva fatto mezzo secolo prima Vladimir Propp con la sua profetica Morfologia della fiaba (1928), riscoperta in seguito come un modello autonomo di scienza strutturalista. Per Todorov il fantastico non è altro che l’esitazione provata da un essere il quale conosce soltanto le leggi naturali di fronte a un avvenimento apparentemente soprannaturale. Il fantastico, prosegue il critico in La letteratura fantastica (1977), occupa quel lasso di tempo in cui il lettore e i personaggi esitano fra lo spiegare l’evento surreale come un’illusione dei sensi oppure come una parte integrante della realtà, che a questo punto risulterebbe governata da leggi ignote. Il pregio di questa definizione, in sé astratta, è di sottolineare l’ambiguità profonda su cui si basano le opere di questo tipo, che per funzionare devono riuscire a soddisfare tre condizioni: provocare un’incertezza improvvisa nella visione spontanea del lettore; rispecchiare questa stessa incertezza nelle reazioni dei personaggi; e infine imporre al pubblico un patto di lettura che escluda un’interpretazione preliminare del testo come una pura invenzione poetica.
La posizione di Todorov accende un lungo dibattito critico apparendo a molti un modello di comodo, elaborato secondo una logica rigorosa ma a discapito della ricchezza e della varietà dei testi. Per rispondere a questi dubbi, i teorici più recenti hanno ampliato ancora di più il senso del fantastico cominciando a considerarlo “un modo dell’immaginario che poi si specifica in tanti generi particolari” (Rosemary Jackson, Il fantastico, 1984). Come avviene per lo stile comico o per il tragico, elementi del modo fantastico, come la sorpresa, il terrore, l’umorismo, la descrizione di paesaggi di frontiera, la suggestione del buio, la vita dopo la morte, la follia, l’apparizione di oggetti alieni possono essere utilizzati dagli scrittori all’interno di generi del tutto diversi fra loro (Remo Ceserani, Il fantastico, 1996).
Nella letteratura europea del Novecento si possono individuare almeno tre linee principali del modo fantastico: una prima che segue la logica surreale del sogno, una seconda che rielabora i modi del racconto fiabesco e una terza, il fantasy, volta al recupero di un mondo magico le cui radici affondano in una sorta di Medioevo perenne. Secondo il parere di un maestro del genere, lo scrittore argentino Julio Cortázar, queste correnti del fantastico moderno sono unificate da una misteriosa predilezione per il “negativo”, per quello che si trova “sul confine dell’orribile”, immerso in un’atmosfera di sconcerto e paura, e che dunque è imperniato “sul lato notturno dell’uomo e non su quello diurno”. Il surreale e il fantastico diventano così il linguaggio misterioso dell’ombra e della notte.
Il surrealismo e il sogno
Una vera e propria lotta contro il mondo diurno e razionale della modernità borghese viene combattuta a lungo dagli intellettuali surrealisti, convinti sostenitori del valore liberatorio del sogno e delle pratiche irrazionali. Le opere che ancora oggi trasmettono nel modo più immediato lo stretto rapporto artistico che lega il movimento surrealista al sogno sono i quadri di artisti come lo spagnolo Salvador Dalí o il tedesco Max Ernst. I loro dipinti portano letteralmente alla luce delle scene oniriche, degli aggregati deliranti emergenti come visioni da luoghi profondi, oltre i limiti della coscienza. Sono paesaggi sfocati e informi, popolati di oggetti carnosi che si squamano, colano o si innestano gli uni sugli altri in strani alberi metamorfici. A osservarli sono gli occhi di figure anonime, ritratte di schiena, oppure compagnie di esseri solo in parte umani. Secondo logiche recondite, entità astratte come lettere e numeri prendono vita mentre immagini di corpi ansiosi simboleggiano il dolce richiamo dell’eros e della morte. Questi “ancestrali e terrificanti incontri di carni dolci e molli”, come annota Dalí illustrando la sua poetica della paranoia, dovevano essere osservati come “interpretazioni associative”. Secondo la logica deformante delle visioni oniriche, frammenti di realtà diverse possono essere storpiati dal libero lavoro mentale dell’artista, ispirato dalle operazioni compiute dall’inconscio durante il sonno notturno, rivolto all’obiettivo di far subire all’uomo “il potere del sogno anche nello stato di veglia”, come recita un motto teorico coniato dall’avanguardia nei suoi primi mesi di vita ufficiale.
Fra le avanguardie storiche, il surrealismo è il movimento più longevo e quello più capace di influenzare i gusti del pubblico, tanto da imporsi inaspettatamente, durante i cinquant’anni di lavoro seguenti alla sua fondazione – avvenuta ufficialmente a Parigi nel novembre del 1924 con il Manifesto del surrealismo firmato dal poeta francese André Breton – come una vera e propria pratica di massa. I programmi dei surrealisti mirano infatti a una liberazione dalla realtà borghese attraverso l’abolizione di discrimini come quelli fra arte e non arte, alto e basso, razionale e irrazionale, oppure tramite il richiamo al potere allucinogeno delle droghe e dell’erotismo. Artisti come Marcel Duchamp, Jean Miró e Man Ray, poeti come André Breton, Paul Éluard e Louis Aragon, uomini di teatro come Antonin Artaud, divengono delle vere e proprie icone internazionali dell’idea di “rivoluzione artistica”, toccando negli anni del dopoguerra un altissimo indice di popolarità.
Le origini profonde del movimento affondano nel romanticismo (i notturni di Novalis), nella poesia del primo simbolismo francese (l’idea del poeta come veggente formulata da Rimbaud) e nelle linee sommerse del nonsense letterario (la patafisica di Jarry), ma la sua storia concreta comincia nel 1919, quando dalle pagine della rivista “Littérature” (poi sostituita nel 1924 da “La Révolution Surréaliste”) i tre giovani poeti Breton, Philippe Soupault ed Éluard, affascinati dall’esprit nouveau di Guillaume Apollinaire, avviano il loro dialogo con alcune delle più significative esperienze d’avanguardia dell’epoca a partire dalla pittura metafisica di Giorgio de Chirico e dall’idea di una letteratura come performance provocatoria elaborata dal gruppo Dada (ovvero Tristan Tzara, Francis Picabia e Hugo Ball) attivo in Svizzera, al Cabaret Voltaire di Zurigo. I temi metapsicologici e freudiani, l’interesse per Sade e i progetti di ribellione contro la mistificazione culturale sono introdotti con spirito quasi scientifico soprattutto da André Breton, che si comporta a lungo come un vero e proprio capo ispiratore, organizzando in parte il gruppo come una setta spiritico-esoterica (da leggere a questo proposito, la parodia del Bureau de recherches surréalistes scritta da un frequentatore discreto del movimento come Raymond Queneau nel romanzo Odile, 1937). In seguito, come mostra già il Secondo manifesto del surrealismo, datato 1929, il movimento prende una piega più politica, legando buona parte del proprio destino alle ideologie del comunismo internazionale.
Questo breve schizzo del movimento mostra che sarebbe riduttivo attribuire ai surrealisti il semplice ruolo di artisti innovatori nella tradizione del fantastico. Tuttavia alcuni aspetti delle loro ricerche, come il concetto di una libertà radicale, e la loro ferma volontà di utilizzare le porte del sogno per entrare in una realtà totalmente diversa da quella della coscienza quotidiana, hanno fatto della loro esperienza un punto di svolta anche per la cultura del fantastico. Già definendo il termine surrealismo a uso dei lettori di “Littérature”, Breton precisa che con questo termine il gruppo “aveva stabilito di significare un certo automatismo psichico che corrisponde assai bene allo stato di sogno”, ma è soprattutto nel Manifesto che egli indica nel sogno il nuovo codice da seguire, introducendo quella tecnica che diverrà poi l’écriture automatique o scrittura associativa. Secondo i surrealisti, come ribadisce anche una versione poetica del primo manifesto, dovuta a Louis Aragon e significativamente intitolata Vague des rêves, l’onda dei sogni, bisogna scrivere quasi in stato di trance o in dormiveglia (il momento migliore era prima di dormire), registrando velocemente, con consapevole sprezzo dei risultati estetici, una sorta di “pensiero parlato”, proprio al modo di una confessione inconscia. Così tutti i grandi autori surrealisti provano a mescolare nei loro testi visione onirica e percezione della realtà, creando strane misture di stili e immagini come la veloce rassegna di emozioni metropolitane raccolta da Paul Éluard sotto il titolo di Les nécessités de la vie et les conséquences des rêves (1921), le poesie di Claire de terre (1923) di Breton, fino al sogno del paesano che chiude uno dei capolavori di Aragon, Il paesano di Parigi (Le paysan de Paris, 1926), dove si legge addirittura che “il fantastico, l’aldilà, il sogno, la sopravvivenza, il paradiso, l’inferno, la poesia sono altrettanti termini che stanno a significare il concreto”. Fra gli autori francesi di varia estrazione surrealista rimasti attivi oltre il secondo dopoguerra mostrano una netta propensione per la narrazione fantastica il romanziere Julien Gracq , e André Pieyre de Mandiargues , autore raffinato e perverso di raccolte novellistiche come Le Museé noir (1946) e Marbre (1953).
A partire dal centro parigino, la scuola surrealista si diffonde presto nel resto d’Europa. In Italia, per esempio, troviamo addirittura degli anticipatori d’eccezione come l’Alberto Savinio di Hermaphrodito (1918) e poi degli interlocutori originali come il Giovanni Papini delle Strane storie (1954) tanto amate addirittura da Borges. Ma la tradizione più capace di rispondere agli stimoli surrealisti è senza dubbio quella spagnola, con i poeti della cosiddetta Generazione del ’27. Autori come Rafael Alberti, Vicente Aleixandre, il cineasta Luis Buñuel e soprattutto Federico García Lorca danno alla fantasia simbolica dei surrealisti l’agilità di un gioco demoniaco, carico di sentimenti dionisiaci e vissuti autobiografici, proprio come avviene, anche se in chiave più terrificante, nelle poesie del principale precursore del movimento surrealista, Comte de Lautréamont, il poeta che nel settimo dei suoi Canti di Maldoror (1869), ha decretato l’avvento di un sublime del tutto nuovo, minaccioso e surreale, compendiato nell’immagine, poi passata quasi in aforisma, del “fortuito incontro, su di una tavola operatoria, di un ombrello e di una macchina da cucire”.
Il labirinto della fiaba e le radici del fantasy
Se all’immagine di Lautréamont si togliesse il suo fondo angoscioso (la tavola operatoria), l’incontro fra un ombrello e una macchina da cucire potrebbe trovare spazio a buon diritto in una delle molte fiabe reperibili nel fantastico moderno, a cominciare dal breve ma straordinario romanzo dell’inglese Lewis Carroll Alice nel paese delle meraviglie (Alice in Wonderland, 1865) a cui farà seguito Attraverso lo specchio (Through the Looking-Glass, 1871). Anche il viaggio di Alice si svolge nel tempo del sogno, tra oggetti animati e animali parlanti, per approdare, attraverso l’innocenza dell’infanzia, addirittura a una teoria linguistica della pazzia. L’arbitrarietà dei segni linguistici, infatti, nega alla realtà qualsiasi significato definitivo, anzi le preclude qualsiasi significato al di fuori del segno, attribuendo così al linguaggio il ruolo di una copertura fluttuante distesa sulla superficie delle cose, come un’ombra o una maschera opaca. Scritti alla metà dell’Ottocento – quando in Inghilterra si affermava il modello pedagogico della fiaba vittoriana, interpretato al suo massimo livello dal jeu d’esprit geometrico matematico Flatlandia. Racconto fantastico a più dimensioni (Flatland. A Romance of many Dimensions, 1884), del reverendo erudito Edwin Abbot, e ripresa nel Novecento dall’ironia antistalinista del George Orwell della Fattoria degli animali (Animal farm, 1945) – i due romanzi di Carroll trovano il loro vero spazio ricettivo soltanto nel primo Novecento quando vengono riletti in una chiave esplicitamente filosofica, al modo di esperimenti estremi e visionari di logica verbale. Ciononostante nella tradizione anglosassone, la linea favolistica di Carroll rimane per certi versi ineguagliata, e presto soppiantata da una rinascita del gusto gotico, genere di ben altro appeal popolare soprattutto se interpretato da maestri del terrore come i due irlandesi Sheridan Le Fanu, spietato narratore di demoni, spettri e vittime colpevoli, e Bram Stoker, l’inventore di Dracula (1895), il vampiro giunto nella Londra fin de siècle dalle profondità ancestrali della storia e dei massacri europei.
Al di fuori del gotico anglosassone, però, il favoloso si afferma nel Novecento soprattutto come genere spiccatamente allegorico e speculativo, anche se, bisogna precisarlo, non tutti i teorici sono concordi nell’includere la fiaba fra i prodotti del modo fantastico, perché essa deriverebbe da una sua tradizione specifica, legata alle diverse tradizioni folkloriche e orali. Il modo fiabesco, inoltre, contravverrebbe al patto di lettura richiesto dal fantastico, in quanto si presenta esplicitamente come un lavoro simbolico di pura fantasia letteraria. È tuttavia innegabile che allo stile semplice ed enigmatico delle favole sono ispirati alcuni dei capolavori del surreale e del fantastico, dai sinistri e dolorosi Racconti fantastici di Michail Bulgakov, ai paradossali Fatti inquietanti dell’italo-argentino J. Rodolfo Wilcock, ai Piccoli equivoci senza importanza di Antonio Tabucchi.
Esempio sommo del nuovo gusto fiabesco, dove le risorse dell’immaginario cupo e truculento si dispongono nel ritmo regolare di una narrazione che rinverdisce i fasti dell’epos rinascimentale e cortese, temperandoli con simmetrica razionalità cartesiana, sono i tre romanzi brevi scritti da Italo Calvino durante gli anni Cinquanta (Il visconte dimezzato, 1952; Il barone rampante, 1957; Il cavaliere inesistente, 1959) proprio mentre egli si trova a completare come curatore la raccolta delle Fiabe italiane uscite da Einaudi nel 1956. Il meraviglioso di Calvino si configura da una parte come un labirinto ironico, in cui la ragione deve superare la prova dell’illogico, del paradosso e dell’artificio mentale (un’armatura vuota che si batte come un cavaliere, un uomo tagliato in due che diventa il doppio contraddittorio di se stesso), dall’altro però esso appare anche come una discesa nell’immaginario profondo della tradizione culturale italiana, rappresentata attraverso alcuni elementi fondanti della sua storia culturale dai racconti medievali, al romanzo cavalleresco, alla riflessione illuminista, fra l’epoca di Carlo Magno e il Settecento. Il tono comico dei Nostri antenati, secondo il titolo unitario dato nel 1960 all’intera trilogia, non nasconde l’intento di mettere sotto gli occhi del lettore un’allegoria delle virtù e dei difetti italiani, osservati nelle loro origini ormai senza tempo.
Il culto patriottico della poesia dei volghi, anonima creazione di un Volksgeist ancestrale, riscopre i colori di un atemporale Medioevo nell’opera maestosa dell’inglese John Ronald Reul Tolkien , l’autore di romanzi di culto popolare come Lo Hobbit (1937) e Il signore degli anelli (The Lord of the Rings, 1955). Rispetto all’estro combinatorio e illuminato del “mediterraneo”, Calvino, il respiro oscuro di Tolkien e del suo romanzo avventuroso simile a un mito cosmogonico si pongono decisamente su un polo letterario opposto. Il signore degli anelli è la grandiosa rappresentazione dell’età eroica e primitiva vissuta da un gruppo di eroi nella Terra di Mezzo. L’avventura rappresenta, per usare un’espressione dell’autore, “quella teoria del coraggio che costituisce il grande contributo dell’antica letteratura del Nord”. La storia narra di un giovane hobbit che con l’aiuto di elfi, nani, uomini e maghi deve distruggere l’anello del potere prima che le orde del risorto signore del male riportino il dominio delle tenebre. Cattolico antimoderno, Tolkien è un erudito di valore assoluto, filologo insigne e grande specialista di medievistica anglosassone e celtica. Il suo stile, dotato di una semplicità monumentale, in cui spicca l’assenza totale di ironia, affascina i lettori di tutto il mondo. Modello segreto del Signore degli anelli è probabilmente Beowulf, il primo poema della letteratura anglosassone, popolato di bestie mostruose, castelli ed eroi raminghi, che ispira a Tolkien anche il ritmo solenne della sua prosa. Ma il successo del romanzo finisce per gettare le basi di un vero e proprio nuovo genere narrativo, il cosiddetto fantasy, caratterizzato da storie orrorifiche popolate di draghi, gnomi e boschi incantati. Con questa sua ultima trasformazione il fantastico sembra abbandonare le pseudofilosofie e i fenomeni del perturbante per scendere sul campo di un grande gioco popolare, nel mero spazio di un sogno a occhi aperti.