DE VECCHI, Fabio
Nacque a Siena il 22 genn. 1745 in una ricca famiglia del patriziato locale, da Giuseppe e da Maria Maddalena Rucellai.
Compiuti i primi studi nella città natale, entrò il 10 nov. 1758, insieme con il fratello maggiore Cristoforo, nel collegio Nazareno dei padri scolopi di Roma, centro allora di discussioni teologiche e di fermenti antigesuitici. Lasciato il collegio nel febbraio 1764, durante il secondo anno di filosofia, continuò probabilmente gli studi a Roma. Non si hanno poi notizie di lui fino al 1770, anno a cui risale la redazione di uno scritto, rimasto inedito, intitolato Contro la massima che in qualche caso è lecito ribellarsi al Sovrano. Dissertazione del Sig. Conte F. De Vecchi recitata alla solita adunanza tenuta il di 25 marzo 1770, conservato fra le carte di Scipione de' Ricci: scritto che il Codignola (1944) suppone essere stato letto dal D. durante una delle riunioni periodiche tenute da parte degli esponenti romani dell'antigesuitismo presso i padri filippini della Chiesa Nuova. In questo periodo, infatti, il D. venne sempre più legandosi con gli ambienti e le idee dei circoli filogiansenisti romani. Intorno al 1772 intraprese una versione annotata del Nuovo Testamento, e, nel novembre del 1773, istituì a casa sua un'accademia teologica finalizzata allo studio dei Padri della Chiesa, e il cui programma era, secondo quanto scrisse il Tamburini, quello di "ispirare l'amore della veneranda antichità" e, soprattutto, di "difendere la verità... o ne' libri degli empi schernita, e derisa, o de' rilassati teologi contrafatta e corrotta" (A. Vecchi, p. 521). Amico e protettore di Pietro Tamburini e di Giuseppe Zola che, dopo la sospensione dall'insegnamento nel seminario bresciano a causa delle loro simpatie gianseniste, si erano trasferiti a Roma nel 1772, il D. si adoperò per trovare loro una sistemazione e li accolse nella sua accademia, in cui Tamburini, che ne divenne l'anima, lesse tre dissertazioni, più tardi pubblicate a Pavia.
Nell'estate del 1774 il D., che nel frattempo, superati dubbi e scrupoli, aveva deciso di abbracciare lo stato ecclesiastico prendendo gli ordini minori, conobbe a Roma l'appellante francese G. Du Pac de Bellegarde durante il viaggio da questo intrapreso in Italia allo scopo di avviare la riconciliazione fra Roma e la Chiesa giansenista di Utrecht: della causa olandese il D. restò fino alla fine un attivissimo sostenitore, adoperandosi per procurare alla Chiesa utrettina lettere di comunione e anche appoggi politici dei sovrani per premere su Roma a favore di quella. Con l'elezione di Pio VI il 15 febbraio 1775 - il D. durante il conclave fu dapifero del cardinale A. Sersale - e l'avvio di un nuovo indirizzo politico contrario ai riformatori ecclesiastici e favorevole agli ex gesuiti, l'atmosfera romana divenne sempre più pesante e ostile per il D., e per quanti come lui avevano accolto con entusiasmo la soppressione della Compagnia di Gesù, inducendolo a trovare conforto e speranza nella esplosione di pretesi miracoli operati dal defunto Clemente XIV, interpretati come segni divini di favore per la causa dei riformatori antigesuiti. Resasi sempre più difficile la sua posizione a Roma, il D., che nel dicembre del 1775 ricevette l'ordinazione a suddiacono, dopo una breve permanenza a Napoli nella primavera del 1776, abbandonò Roma per fare ritorno a Siena alla fine dello stesso anno: l'arcivescovo della città, Tiberio Borghesi, gli aveva infatti offerto l'ufficio di vicario generale, carica che effettivamente ottenne solo due anni dopo. Nel frattempo venne nominato dal granduca Pietro Leopoldo professore di teologia dogmatica all'università di Siena; all'inizio di ottobre del 1777 ricevette l'ordinazione sacerdotale e il canonicato, e, infine, nell'estate del 1778 assunse il vicariato.
Ebbe inizio allora il periodo più significativo della sua vita: divenuto il capo indiscusso del "partito" filogiansenista a Siena, riuscì a ottenere dai colleghi della facoltà di teologia, dallo stesso provveditore degli studi dell'università, Guido Savini, e dagli amici G. Pannilini, vescovo di Chiusi e Pienza, e mons. Z. Banchieri la sottoscrizione di una lettera di comunione per la Chiesa olandese, mentre una serie di iniziative di stampo rigoristico e volte al ripristino dell'antica disciplina ecclesiastica - come l'invio al granduca nel 1779 di una memoria diretta a sollecitare un provvedimento contro l'abuso dei giuramenti con effetti civili nella pratica forense - gli suscitarono contro, ben presto, nonostante l'appoggio del sovrano, malcontenti da parte del suo stesso arcivescovo e ostilità da parte dei consiglieri laici del granduca. Comunque, dal 1778 alla fine del 1780, quando cioè fu costretto a rinunciare alla carica di vicario e intanto cominciava ad affermarsi la personalità del de' Ricci, il D. ebbe un ruolo notevole nella politica ecclesiastica toscana e fu tra i più autorevoli consiglieri del sovrano in questo campo (Rosa, p. 180).
Cosi è probabile che egli abbia avuto una certa influenza sulle nomine vescovili fatte da Pietro Leopoldo (Pieroni Francini, p. 72). Inoltre, all'inizio del 1780, il D., insieme con l'amico Scipione de' Ricci, allora vicario generale dell'arcivescovo di Firenze, venne incaricato dal sovrano della redazione di un progetto per la istituzione di tre accademie ecclesiastiche volte alla migliore formazione del clero, a Firenze, Siena e Pisa. Egli, che a tale scopo si rivolse pure ai consigli degli amici delle comunità gianseniste francesi ed olandesi, incontrò forti opposizioni da parte dell'arcivescovo Borghesi che, divenuto ormai suo aperto oppositore, dichiarava di non volere né "appellanti, né un Porto Reale nella sua diocesi" (Codignola, Il giansenismo, II, p. 65). Tuttavia, nell'agosto del 1783, il granduca approvò il progetto del D. per Siena e lo nominò presidente della nuova accademia, nella quale il D. fece affidare la cattedra di teologia all'amico P. M. Del Mare.
Nel frattempo il D. aveva iniziato una lunga vertenza disciplinare con la Curia romana in relazione a due prelature familiari che, in seguito all'abbandono della carriera ecclesiastica e al matrimonio del fratello Cristoforo, erano ricadute su di lui: sostenuto dal granduca, egli chiedeva al papa l'esenzione dall'esercizio delle prelature che implicavano l'obbligo della residenza a Roma, senza dovervi rinunziare, allo scopo di poter restare in Toscana; mentre, d'altra parte, la Curia papale gliela rifiutava proprio nell'intento di richiamare sotto il suo controllo un personaggio ormai sospetto. Dopo vari soggiorni a Roma, fra il 1783 e il 1785, volti a risolvere la vertenza. il D. ottenne finalmente di restare per altri tre anni in Toscana (febbraio 1785).
Contemporaneamente, nonostante il suo appoggio di fondo alla politica leopoldina e ricciana in materia di riformismo ecclesiastico, la posizione del D. veniva differenziandosi da quella del de' Ricci nel senso di una maggiore moderazione e, soprattutto, di una prevalente insistenza sulle preoccupazioni ecclesiastico-religiose rispetto alle esigenze statalistico-politiche.
Fin dal 1782 egli criticava come "militari" i metodi usati da Giuseppe II nelle riforme ecclesiastiche (Codignola, Il giansenismo, II, p. 55) e si dimostrava non completamente d'accordo col de' Ricci sulla riforma della Via Crucis da questo imposta nella propria diocesi sulla base di uno scritto di G. M. Puiati, provocando l'irritazione dell'amico. Disapprovava, inoltre, l'animosità antiromana, che giudicava eccessiva (in quanto non distingueva chiaramente fra la corte romana e Roma centro del Cristianesimo) e politicamente controproducente, degli Annali ecclesiastici, organo ufficiale del giansenismo toscano (ibid., II, p. 107).
Il dissenso col de' Ricci si rivelò più evidente in occasione della redazione dei Cinquantasette punti ecclesiastici, ossia del documento-questionario elaborato dal granduca fra il 1784 e il 1786 con l'aiuto dei suoi consiglieri ecclesiastici (de' Ricci, Pannilini, A. Baldovinetti e il D. stesso), e trasmesso il 26 genn. 1786 all'episcopato toscano per sondarne la disponibilità nei confronti del programma riformatore in materia ecclesiastica. Infatti il D. si oppose fermamente alla proposta ricciana di alienazione graduale della proprietà ecclesiastica e di permuta della rendita dei benefici in una congrua parrocchiale, fissata dal sovrano, che avrebbe condotto alla creazione di un clero parrocchiale stipendiato dallo Stato. Accusato duramente dal de' Ricci di sostenere le posizioni romane circa il possesso di beni temporali da parte della Chiesa, il D. si difese asserendo che le sue convinzioni erano condivise anche dagli "amici di Francia" da lui consultati (Codignola, Il giansenismo, II, p. 116). Il contrasto venne risolto dal granduca che, nella redazione finale del punto quindici in questione, mediò fra le tesi radicali ricciane e quelle moderato-conservatrici del De Vecchi.
Dopo aver partecipato in qualità di teologo deputato ai lavori del sinodo di Pistoia, convocato dal 18 al 28 sett. 1786 dal de' Ricci, e dopo aver premuto, insieme con l'amico, sul sovrano affinché vietasse la convocazione del sinodo di Fiesole che si andava configurando come un "antisinodo" pistoiese (Rosa, p. 197), il D., come del resto la maggioranza dei filoricciani, si mostrò decisamente contrario al progetto di convocazione di un concilio nazionale toscano che, alla fine del 1786, andava sempre più prendendo piede nell'animo del granduca, incoraggiato a questo passo dai suoi consigheri laici, interessati ad una sconfitta ricciana che permettesse di sottrarre la politica della Chiesa all'influsso dei consiglieri ecclesiastici.
Il D. si adoperò per convincere tanto il sovrano quanto il de' Ricci a rinviare il concilio, avvertendo l'amico, nel novembre-dicembre 1786, che "attese le presenti circostanze [esso] non potrebbe avere che un sinistro esito, e specialmente per voi" (Codignola, Il giansenismo, II, p. 136). Poco dopo, scrivendo da Roma, ove aveva dovuto recarsi in seguito alla ripresa della vertenza sulle sue prelature e delle controversie giudiziarie e finanziarie col fratello Cristoforo, appoggiato dalla Curia, segnalava allarmato l'esiguità delle forze su cui poteva contare il de' Ricci in un sinodo nazionale e l'interesse che Roma mostrava affinché esso fosse convocato e pervenisse alla liquidazione del movimento ricciano: "Roma è la prima e la più impegnata a convocarlo, e questo suo desiderio vuol dire avere in pugno la vittoria" (a Z. Banchieri, Roma, 10 febbr. 1787, ibid., p. 151).
Nel frattempo, proprio mentre andava sempre più acuendosi l'attrito fra la Toscana e la corte romana, il D. vestì a Roma, nei primi giorni del marzo 1787, la mantelletta prelatizia, ma dovette trattenersi nella città poiché il papa non gli concedeva la licenza di partire, mentre il de' Ricci tempestava di lettere l'amico per indurlo a tornare egualmente in patria, con un atto di aperta rottura con Roma a cui il D. voleva invece sottrarsi.
L'insistenza del de' Ricci, che tacciava il D. di "semplicità" nei suoi rapporti con Roma, unita al fatto che, durante l'assenza del senese, il vescovo di Pistoia non solo aveva intralciato la venuta a Siena del giansenista ligure V. Palmieri, chiamato dal D. a sostituirlo nella presidenza dell'accademia ecclesiastica, nel canonicato e nella cattedra universitaria, ma aveva anche convinto il Palmieri ad accettare una simile sistemazione fra Pisa e Pistoia, provocò l'amara e sdegnata reazione del D.: "mi dispiace l'indiscreto uso, e il sacrifizio ch'egli [de' Ricci] fa degli amici, facendoli unicamente servire alle sue mire, e attraversando tutti i loro disegni, subito che non si combinano coi suoi. Questo è un lamento di più persone sue amiche" scriveva al Banchieri il 24 febbr. 1787 (Codignola, Il giansenismo, II, p. 156).
Comunque, allo scopo di far tornare il D. in Toscana, dietro suggerimento del de' Ricci, il granduca nominò il neoprelato fra i teologi da lui deputati per assistere all'assemblea degli arcivescovi e vescovi toscani che Pietro Leopoldo - e su questa decisione il D. si mostrò d'accordo - aveva intimato, il 17 marzo 1787, come assemblea preparatoria del futuro concilio nazionale che, per il momento, forse proprio per l'influsso delle riserve espresse dal D. (Rosa, p. 201), veniva rimandato. Tuttavia, poiché il segretario di Stato, card. I. Boncompagni, rifiutava ancora il consenso alla partenza del senese, adducendo che "chi veste la mantelletta, diviene suddito, e servitore del Papa" (Codignola, Il giansenismo, II, p. 160), solo un ulteriore e duro intervento del sovrano stesso presso la corte papale poté far ottenere al D. il permesso di lasciare Roma.
Questi partì il 4 aprile alla volta di Firenze, ove il 23 seguente iniziarono i lavori dell'assemblea.
Fin dalle prime sedute egli intervenne a favore della minoranza ricciana, sostenendo nella prima e seconda sessione che le decisioni assembleari dovessero essere prese all'unanimità e che i voti dei parroci nei sinodi diocesani dovessero avere valore deliberativo e non puramente consultivo (le Memorie da lui presentate in proposito in Atti dell'Assemblea, II, pp. 73-80 e 84-91). Entrambe le proposte vennero respinte, dopo una accesa discussione, dalla maggioranza, dando l'avvio alla sconfitta del gruppo ricciano. Egli intervenne ancora nella discussione sull'ordinamento degli studi ecclesiastici, insistendo sulla necessità di dare priorità assoluta alla dottrina agostiniana (quinta sessione); parlò contro gli abusi delle elemosine delle messe, per la limitazione dei patronati privati (settima sessione), per l'abolizione di oratori e cappelle privati (ottava sessione); difese il Pannilini nella vertenza sorta fra questo e il papa a proposito di una istruzione pastorale del vescovo di Chiusi condannata da Roma, e si pronunciò contro la copertura delle immagini più venerate, definendo quello delle immagini coperte un "culto materiale, e vizioso" (decima sessione); parlò a favore della riduzione dei suffragi ai defunti e degli obblighi di messe, entrando in polemica su questo punto col proprio arcivescovo (undicesima sessione), e a favore del riconoscimento della giurisdizione ecclesiastica dei parroci come "essenzialmente annessa al loro ministero", benché inferiore a quella dei vescovi (dodicesima sessione); presentò una Memoria sull'eccessivo numero degli obblighi di messe nella diocesi senese (tredicesima sessione, riprodotta in Atti dell'Assemblea, III, pp. 176 ss.); intervenne a favore dell'abolizione dell'uso della questua da parte degli Ordini mendicanti (sedicesima sessione). Infine, nella diciottesima e penultima sessione, presentò, insieme con il Palmieri e con A. Longinelli, anch'essi teologi granducali presso l'assemblea, una relazione scritta contro la proposta di inclusione nel piano di studi per gli ecclesiastici delle opere dell'agostiniano Gian Lorenzo Berti, definite pericolose in quanto sostenitrici della "sediziosa opinione della potestà papale sul temporale de' principe" (Tanzini, Istoria, p. 315; la relazione in Atti dell'Assemblea, III, pp. 443-451).
Conclusasi l'assemblea (5 giugno 1787) con la sconfitta delle prospettive riformatrici ricciano-leopoldine e caduto ormai il progetto di convocazione del concilio nazionale, il D. collaborò col gruppo fedele al de' Ricci ai lavori di preparazione degli Atti dell'Assemblea e alla redazione di scritti di confutazione degli avversari. Tuttavia, il declino del riformismo ecclesiastico ricciano, dominato da preoccupazioni ecclesiastico-religiose, era ormai definitivo e permetteva il prevalere della politica ecclesiastica a carattere laico-statalistico dei ministri laici leopoldini: così la discussione sui patrimoni ecclesiastici la cui amministrazione venne sottratta ai vescovi e attribuita al diretto controllo del governo, fu seguita amaramente dal D. nel 1788 come il segnale di una svolta politica ma anche come il risultato delle alleanze e delle compromissioni politiche operate dal movimento giansenista.
Con la partenza di Pietro Leopoldo dalla Toscana e l'avvio di una fase di reazione nella politica generale, ebbe inizio per il D., come per tutti i riformatori filogiansenisti toscani, un lungo periodo di persecuzioni e di amarezze. Mentre il de' Ricci si piegava alla rinuncia al vescovato, non approvata dal D., questi, alla fine del 1791, si vide proibire dal nuovo governo la stampa di una dissertazione di un suo allievo della facoltà teologica sulle opere degli infedeli negativi, tutta fondata sulla dottrina agostiniana, che egli allora fece pubblicare a Pavia. Poco dopo il D., che nel frattempo aveva avuto notizia che gli era stato comminato il bando dallo Stato della Chiesa, sfidò nuovamente gli ammonimenti ricevuti dalle autorità facendo stampare, sulla base di un permesso ottenuto nel 1789 da Pietro Leopoldo, una Esposizione della dottrina della Chiesa o sieno Istruzioni famigliari e necessarie ad ogni sorta di persone intorno alla Grazia di Gesù Cristo per servire di fondamento alla morale cristiana, e di preservativo contro i falsi principi della mondana filosofia, 3 voll., Siena s. d. (ma 1792), adattamento di un catechismo francese commissionato a un canonico Narducci di Massa dallo stesso D., che ne curò anche la distribuzione a tutti i parroci di Siena. La pubblicazione venne in seguito posta all'Indice con decreto dell'11 genn. 1796. La reazione del governo fu durissima: l'opera fu sequestrata in quanto "ripiena... di proposizioni apertamente condannate dalla Chiesa... non meno, che tendenti ad eccitare disobbedienza, sedizione, e tumulto" (Codignola, Il giansenismo, I, p. 103), mentre al D. venne imposto l'arresto domiciliare, trattandosi "di un soggetto... incorreggibile attesa la sua naturale imprudenza, e notorio fanatismo". Nonostante una replica difensiva del D., il granduca Ferdinando III, nell'agosto del 1792, lo destituì dalla cattedra dell'università di Siena per "pertinacia, e adesione a massime che perturbano la pubblica tranquillità"; contemporaneamente gli venne tolta la licenza di confessare e prospettata la minaccia dell'esilio dallo Stato in caso di recidiva. Dopo la revoca dell'arresto, il D. si ritirò nella sua tenuta di Piana, vicino a Siena, applicandosi alle cure della campagna e cercando conforto e speranza in concezioni escatologico-millenaristiche: infatti, fin dal 1791 aveva conosciuto Eustachio Degola, durante un viaggio di questo in Toscana, instaurando con lui uno stretto legame che ebbe non poca influenza sull'evoluzione in senso millenaristico delle sue convinzioni.
Nel 1794 riprendeva anche la vertenza col fratello Cristoforo e con la Curia romana a proposito delle prelature familiari, i cui proventi il D. era accusato di aver indebitamente percepito per tredici anni: con la minaccia di dichiararlo decaduto dalle prelature, Roma pretendeva che il D. rinnegasse il sinodo di Pistoia, richiedesse l'assoluzione dalle censure e accettasse formalmente la bolla Auctorem fidei di condanna dello stesso sinodo; d'altra parte, il bando dallo Stato ecclesiastico gli impediva di recarsi a Roma per esercitarvi la prelatura e così porre fine alla diatriba. Tuttavia, in questo caso, il D. ricevette l'appoggio del governo toscano che, infine, nel 1797, gli ottenne da Roma la cassazione dell'esilio e la facoltà di recarsi nella città.
Dopo una breve sosta, nel maggio 1797, a Roma, ove, nella difficile situazione politica e militare in cui versava lo Stato della Chiesa, trovò un'atmosfera più tollerante nei suoi confronti, il D. vi fece ritorno, sempre allo scopo di sistemare i suoi interessi, ancora nel marzo del 1798, in piena Repubblica Romana giacobina.
Egli aveva fin dall'inizio giudicato la Rivoluzione francese in termini esclusivamente religiosi, come il castigo comminato da Dio alla Francia e all'Europa a causa della generale apostasia dei cristiani e della persecuzione della vera dottrina religiosa, ma, nello stesso tempo, in conformità con l'atmosfera profetico-millenaristica assai fiorente in quegli anni soprattutto fra i gruppi religiosi innovatori emarginati e sconfitti, vedeva anche negli straordinari avvenimenti contemporanei il preludio di grandi, positivi cambiamenti per la Chiesa e per la religione e di "un rinnovamento universale" (Codignola, Il giansenismo, II, p. 347).
Fu favorevole alla Chiesa costituzionale francese e, probabilmente tramite il Degola, entrò in relazione con Henri Grégoire che di essa era la guida; accolse con grande speranza la caduta del potere temporale, ma non si schierò mai apertamente, come fecero altri giansenisti, a favore dei nuovi governi repubblicani. Criticò anzi l'amico Degola e il coinvolgimento di questo nelle vicende del periodo rivoluzionario, mostrando diffidenza sia nei confronti del radicalismo degli Annali politico-ecclesiastici di Genova (diretti dall'amico) che giudicava di stile "triviale", sia verso l'altra iniziativa degoliana, l'istituzione di missioni repubblicane rivolte al popolo: sosteneva, infatti, che la Sacra Scrittura "fa amare e rispettare qualsivoglia governo; non veggo nulla nella medesima, che sia applicabile esclusivamente alla democrazia" (Codignola, Il giansenismo, II, pp. 337 s.).
Poco si conosce dell'ultimo periodo della sua vita, che il D. trascorse a Roma, ove dovette stabilirsi definitivamente intorno al 1800. In questi anni, le delusioni provocate fra gli esponenti del movimento di riforma religiosa dal fallimento delle loro attese ecclesiali e politiche, a cui si aggiunse, nel 1805, la notizia dolorosa della ritrattazione e della accettazione della bolla Auctorem fidei da parte dello stesso de' Ricci, indussero anche il D., come molti altri giansenisti, a rifugiarsi sempre più nella fede millenaristico-apocalittica e nella convinzione, probabilmente trasmessagli dal Degola, che fosse ormai prossima la realizzazione della profezia paolina sulla conversione degli ebrei al cristianesimo, mezzo e preludio alla "rigenerazione della Chiesa" e al trionfo dei suoi eletti.
Il D. morì a Roma, emarginato ma non perseguitato, nel 1820 (secondo una lettera di Degola, in Codignola, Carteggi, III, p. 512) o nei primi mesi del 1821 (Codignola, Il giansenismo, I, p. 116).
Fonti e Bibl.: Gran parte del carteggio del D. è stato pubblicato da E. Codignola, Il giansenismo toscano nel carteggio di F. D., I-II, Firenze 1944, che raccoglie le lettere dirette a Z. Banchieri (Arch. privato Poggi-Banchieri di Santo Nuovo, Pistoia), a S. de' Ricci (Arch. di Stato di Firenze), a G. Du Pac de Bellegarde (Arch. della Chiesa di Utrecht), a E. Degola (Arch. segreto Vaticano). Alcune fra queste ultime erano già state utilizzate dal Savio che pubblicò pure qualche altro documento riferentesi al D., sempre proveniente dall'Arch. segreto Vaticano. Per la biografia del D., oltre al già citato, fondamentale, testo del Codignola, sono stati utilizzati anche: Atti dell'Assemblea degli arcivescovi e vescovi della Toscana tenuta in Firenze nell'anno 1787, Firenze 1787, I, pp. 10, 16, 22, 50, 53, 65, 73, 79, 81, 93, 112, 114 s., 119, 127 s., 131, 146 s., 152 s., 160, 162 s., 208, 223, 225, 232; II, pp. 73-80, 84-91, 96-112 (Memorie presentate dal D.); III, pp. 176 ss., 443-451 (Memorie del D.); [R. Tanzini], Istoria dell'Assemblea degli arcivescovi e vescovi della Toscana tenuta in Firenze l'anno 1787, Firenze 1788, pp. 8, 20 ss., 24, 28 s., 31 s., 37, 42-45, 51, 83, 85, 92, 107 s., 118, 122, 128 ss., 142 s., 173, 175 s., 181 s., 190, 194, 198, 220 s., 227 s., 267, 294 s., 311, 315, 319, 333, 336 s., 357; Memorie di Scipione de' Ricci vescovo di Prato e Pistoia scritte da lui medesimo e pubblicate con documenti da A. Gelli, Firenze 1865, I, pp. 25, 43 s., 140 s., 491, 493; P. Savio, Devozione di mons. A. Turchi alla S. Sede. Testo e DCLXXVII documenti sul giansenismo ital. ed estero, Roma 1938, ad Indicem; B. Matteucci, Scipione de' Ricci. Saggio storico-teologico sul giansenismo italiano, Brescia 1941, pp. 184, 191; C. Cannarozzi, L'adesione dei giansenisti italiani alla Chiesa scismatica di Utrecht, in Arch. stor. ital., C (1942), 3-4, p. 31; Carteggi di giansenisti liguri, a cura di E. Codignola, I, Firenze 1941, pp. 109 s.; II, ibid. 1941, pp. 349 s.; III, ibid. 1942, p. 512; E. Dammig, Il movimento giansenista a Roma nellaseconda metà del sec. XVIII, Città del Vaticano 1945, ad Indicem; E. Codignola, Illuministi, giansenisti e giacobini nell'Italia del Settecento, Firenze 1947, ad Indicem; E. Passerin d'Entrèves, La politica dei giansenisti in Italia nell'ultimo Settecento, in Quaderni di cultura e storia sociale, I (1952), p. 234; II (1953), pp. 363 s.; III (1954), pp. 280, 283 s.; Id., Corrispondenze francesi relative al sinodo di Pistoia del 1786, in Riv. di storia della Chiesain Italia, VII (1953), pp. 381, 383 s., 386; P. Savio, Giansenizzanti e giurisdizionalisti, Roma 1957, p. 46 estr. da Italia francescana, XXX [1955] - XXXII [1957]; E. Appolis, Entre jansénistes etzelanti. Le "tiers parti" catholique au XVIIIe siècle, Paris 1960, ad Indicem; A. Vecchi, Correntireligiose nel Sei-Settecento veneto, Venezia-Roma 1962, ad Indicem; C. Caristia, Riflessi politici delgiansenismo ital., Napoli 1965, pp. 87, 93, 113, 120 s., 124, 129, 140 s., 146, 189 s., C. Cannarozzi, I collaboratori giansenisti di Pietro Leopoldogranduca di Toscana, in Rass. stor. toscana, XII (1966), pp. 7-4, 20, 27-31, 33-42, 49, 55; A. Wandruszka, Pietro Leopoldo. Un grande riformatore, Firenze 1968, ad Indicem; G. Turi, "Viva Maria". La reazione alle riforme leopoldine (1790-1799), Firenze 1969, ad Indicem; M. Rosa, Riformatori e ribelli nel '700religioso italiano, Bari 1969, ad Indicem; Il giansenismo in Italia. Collezione di documenti, a cura di P. Stella, I, Piemonte, II, Zürich 1970, p. 384 e ad Indicem; M. Pieroni Francini, Un vescovo toscano tra riformismo e rivoluzione. Mons. G. Alessandri (1776-1802), Roma 1977, ad Indicem; Cattolicesimo e lumi nel Settecento italiano, Roma 1981, a cura di M. Rosa, adIndicem; V. Spreti, Enciclopedia storico-nobiliareitaliana, VI, p. 837.