DIVINI (De Divinis, Indovini, Devino), Eustachio
Nacque il 4 ott. 1610 da Tardozzo e Virginia in San Severino Marche (od. prov. di Macerata). La sua famiglia discendeva, secondo A. Ricci (Memorie storiche delle arti e degli artisti della Marca di Ancona, Macerata 1834, I, p. 235), da Domenico di Antonio Indivini, che verso la fine del sec. XV aveva aperto una scuola di tarsia e di cui restano intarsi nel coro dell'antica cattedrale di San Severino e in quello superiore della chiesa di S. Francesco in Assisi. Domenico Indivini fu anche pittore e morì nel 1502.
In un elenco mortuale citato dal Gentile sono menzionati alcuni dei membri della famiglia del D.: il 6 sett. 1558 è registrata la morte di Polito Indivino; il 20 ag. 1565 quella del figliuolo di Coriolano Devino; il 1° sett. 1571 quella della donna di Coriolano Divini; il 6 giugno 1591 la morte della donna di Andrea Maria Indivini; il 6 maggio 1605 la morte di don Francesco di ser Tardozzo Indovino, il 24 maggio 164 la morte di madonna Virginia di ser Tardozzo Divini (madre del D.); e infine, il 13 nov. 1621, quella di ser Tardozzo. padre del Divini.
Il D. rimase dunque in tenera età orfano di entrambi i genitori e fu costretto ad interrompere gli studi e a darsi alla milizia. Non aveva infatti ancora compiuto i diciotto anni allorché lo troviamo nelle file dell'esercito dell'imperatore. Dalle Memorie manoscritte di Bernardo Gentili Rovellone (cfr. Gentili) si apprende che ricevette in Cento stima e benevolenza da parte del nobile alfiere Giulio Gentili di Rovellone. Dopo avere variamente vagato per l'Italia come militare, non senza avere talora corso serio rischio di perdere la vita, tornò in patria, non sappiamo quando, ma forse ancora giovane. Con la guida e l'aiuto dei fratelli Vincenzo e Cipriano riprese gli studi. Non risulta quanto sia durato questo soggiorno in patria, ma sembra certo che la sua più seria preparazione culturale il D. l'abbia ricevuta a Roma, dove sembra che i due fratelli si trovassero e svolgessero la loro attività.
Vincenzo era cultore di poesia, storia e medicina. A sua una raccolta di Sonetti per le nozze di Giovanni Ottoni e Vittoria Caccialupi, pubblicata a Macerata nel 1623 per i tipi del Carboni; e pure suoi sono quei Fasti degli eroi celesti settempedani ricordati da P. De Mandrisio nella Vita del b. Pacifico Divini. Cipriano era pittore e cultore di topografia (realizzò una pianta topografica della sua città che fece stampare a Roma nel 1640, dedicandola al cardinale Giovanni Battista Pallotta).
Fu a Roma che il D. frequentò, sembra, le lezioni di Benedetto Castelli, allora professore all'università, che lo avviò allo studio della geometria euclidea e della astronomia. Tali studi costituirono per il D. una solida base teorica per quella attività tecnica cui ben presto si volse e che gli procurò notevole reputazione fra gli scienziati del tempo. Stando alle indicazioni che si ricavano da alcuni suoi scritti, egli avrebbe cominciato a costruire strumenti ottici, soprattutto telescopi, ma anche microscopi, attorno al 1645, ma non abbiamo notizie sugli anni del suo apprendistato in quest'arte. Fatto sta che nel 1649 fu già in grado di comporre una mappa che il Gentili menziona con il titolo Il disco lunare.
In essa il D. presentava i risultati delle osservazioni astronomiche che egli aveva personalmente effettuato sperimentando l'uso di nuove tecniche e strumenti di osservazione arrivando a tracciare una selenografia che fece poi incidere in una mappa dedicata nel 1649 al granduca Ferdinando II di Toscana e che per l'esiguità delle copie tirate divenne ben presto rarissima. Al di sotto della mappa si legge un'iscrizione latina dell'autore nella quale dichiara di avere osservato il plenilunio nel marzo del 1649 con un telescopio di 24 palmi e spiega il procedimento da lui seguito per ottenere, ponendo sulla lente di vetro di un altro telescopio di 16 palmi dei fili sottilissimi disposti a mo' di graticola, l'immagine, la più esatta possibile, delle macchie lunari. Dal Libro consiliare del 1649, citato dal Gentili, risulta che egli venne pubblicamente onorato per tale invenzione dalla sua città a cui l'aveva offerta.
Fin da questa sua prima fatica è possibile scorgere la direzione dei suoi interessi e delle sue ricerche che lo portavano inesorabilmente a scontrarsi con un grande scienziato, l'olandese C. Huygens, con il quale egli ebbe l'ardire di entrare in diretta polemica. È appunto quanto avvenne con quella che sembra essere la sua seconda opera, posteriore di ben undici anni alla Mappa delle macchie lunari, dal titolo Brevis annotatio in systema saturnium Christiani Eugenii, Romae, ex typographia Iacobi Dragondelli, 1660, dedicata al fratello del granduca di Toscana, Leopoldo.
Composta dal D., poco pratico del latino, in volgare e poi fatta tradurre in latino dall'amico gesuita Onorato Fabri, nell'opera si avanzano audacemente tre ordini di critiche al sistema astronomico del celebre scienziato olandese. Un primo ordine, di carattere squisitamente astronomico-scientifico, con il quale il D., qui certamente guidato dal Fabri, contesta l'interpretazione huygensiana degli anelli di Saturno, ribadendo la possibilità di un'altra spiegazione, compatibile anch'essa con i dati dell'osservazione ma basata sull'ipotesi della centralità della terra. Un secondo ordine di critiche, e qui va forse ravvisato il contributo più autentico del D., riguarda il mancato chiarimento da parte dello scienziato olandese in merito alla strumentazione ottica da lui utilizzata come base delle sue osservazioni e delle sue interpretazioni. Il D. ha buon agio nel rivendicare con orgoglio la bontà dei telescopi da lui costruiti e disseminati in tutta Europa, e attribuisce all'insufficienza dello strumento utilizzato dallo Huygens e alla superiorità del suo le divergenze sui dati osservativi raccolti, contrapponendo come più plausibili con il vero le spiegazioni dell'amico Fabri, basate appunto su strumenti migliori di sua costruzione; infine, contro le priorità avanzate dall'olandese nella scoperta di vari fenomeni riguardanti il pianeta (fasi, anelli, moti, ecc.) egli ricorda le precedenti ed esatte osservazioni del Galilei.
L'opera del D. ebbe altre edizioni, di cui una all'Aia nel 1660. L'Huygens raccolse subito la sfida e fece uscire prontamente la sua replica a Firenze nello stesso anno con il titolo Brevis assertio Systematis Saturnii sui, nella quale prendeva atto di avere a Roma non uno, ma due avversari (il D. e il Fabri), e ribadiva la bontà dei suoi strumenti ottici e la giustezza della sua ipotesi esplicativa. Immediata fu anche la controreplica del D. che scrisse Pro sua annotatione in systema saturnium Christiani Hugenii adversus eiusdem assertionem, Romae, typis Dragondellianis, 1661, nella quale, rivolto questa volta direttamente all'illustre scienziato, in tono sottilmente ironico, dice di stupirsi che il "principe degli astronomi" e il "corifeo degli ottici" si sia potuto abbassare a rispondere a quello che più volte aveva definito "vilem vitrarium artificem". Il D. rivendicava qui con orgoglio l'eccellenza della sua arte che gli aveva procurato in sedici anni di attività un nome rispettato fra gli scienziati di tutta Europa, nonché un "lucrus satis ingens". Contestava inoltre a Huygens di aver visto per primo nel 1657 i satelliti di Saturno, ricordando che già molti anni prima nel 1644 e 1645 Francesco Fontana aveva descritto questo stesso fenomeno nel suo libro sulle osservazioni celesti. Inoltre, all'accusa rivolta a lui e al Fabri dall'olandese di non avere utilizzato le sue tavole per calcolare il moto delle stelle il D. rispondeva significativamente che lasciava questo incarico agli astronomi e che a lui interessava di vedere la stella più che di calcolarne i moti. In sostanza il D. mostrava di rendersi conto che il bersaglio delle molte critiche di Huygens era in realtà il sistema astronomico del Fabri, un sistema che però egli difendeva, come si è accennato, in primo luogo perché basato sulla tesi della immobilità della Terra accettata dalla Chiesa, e inoltre perché gli sembrava sufficientemente suffragato dalle osservazioni astronomiche condotte con suoi telescopi. La controreplica del D. si concludeva con una esposizione della tesi, in realtà di Fabri, secondo la quale, come le stelle medicee di Giove, anche quelle di Saturrio non dovevano considerarsi ruotanti attorno al pianeta, ma situate al di sopra di esso, sempre sottolineando come ragione primaria dell'assenso a tale ipotesi la congruenza delle spiegazioni stesse con le osservazioni effettuate con i suoi buoni strumenti. Una discussione delle tesi dei due contendenti fu effettuata dagli accademici del Cimento che, dopo vari esperimenti, decisero in favore dell'olandese.
La perizia tecnologica del D., i semplici e chiari principî della sua metodologia, lo spirito di ricerca che animava la sua attività si ricavano molto bene dalla Lettera ... in cui si ragguaglia di un nuovo lavoro e componimento di lenti, che servono a occhialoni, o semplici o composti, stampata a Roma, per Giacomo Dragondelli, nel 1663, e rivolta al conte Carl'Antonio Manzini.
In essa l'autore invita innanzi tutto il lettore a non aspettarsi "né parole esquisite, né l'ordine aggiustato", ma una semplice descrizione "senza alcun artificio" di ciò che ha osservato. In sostanza egli narra qui la storia dell'"occhialone" di 52 palmi con quattro vetri che il D. stava costruendo per il cardinale Chigi, uno strumento che egli confessa di essersi accinto a costruire solo sulla base di nozioni teoriche, anche se ben consapevole che "molte volte quelle cose, che paiono in speculativa fattibili, in pratica non riescono". Una storia, quella narrata dal D., piena di tentativi andati a vuoto, di fallimenti e di piccoli successi, ma soprattutto di continue verifiche della teoria attraverso la pratica, e che mostrava altresì il grande armamentario di conoscenze tecniche relative alla preparazione dei vetri e dei cristalli che il D. aveva acquisito e che si accingeva ad utilizzare per l'ambizioso disegno di produrre uno strumento atto non più soltanto alle osservazioni celesti, ma anche terrestri: cosa che gli imponeva la soluzione di difficili problemi, come ad esempio quello di costruire vetri che fossero senza venature. Anche qui il D. sottolinea il carattere tutto empirico della sua arte ottica e vetraria, l'originalità dei suoi esperimenti e scoperte e il suo radicale rifiuto di "speculare" sui dati delle sue osservazioni alla ricerca di ipotesi e spiegazioni teoriche.
Nonostante il D. non fosse né si sentisse un astronomo, la passione per questa disciplina e il desiderio di difendere la dignità scientifica dei suoi strumenti non mancarono di trascinarlo in altre polemiche. Così, prendendo spunto dalla pubblicazione nel 1665 di tre lettere astronomiche di Giovan Domenico Cassini all'abate Ottavio Falconieri, egli scrisse un'altra Lettera ... intorno alle macchie nuovamente scoperte nel mese di luglio 1665 nel pianeta di Giove con i suoi cannocchiali, anch'essa diretta al conte Antonio Manzini, in Roma, per Giacomo Dragondelli, 1666, dove con abbondanza di argomenti e testimonianze affermava il valore delle scoperte astronomiche effettuate da vari studiosi presenti a Roma con i suoi cannocchiali.
In particolare il D. ricostruisce, dal suo punto di vista, la storia della scoperta delle macchie di Giove, che sarebbe iniziata con le osservazioni di Salvatore Serra (fatte con suoi telescopi), il quale cercò di convincere il dapprima incredulo Cassini, che ne parlò poi nelle sue Effemeridi. Nella Lettere emerge la stima che per il D. nutrivano personalità di spicco del mondo politico e della cultura, e soprattutto il granduca di Toscana che gli commissionava vetri e che tenne presso di sé per un'intera estate un suo telescopio di 50 palmi, come si rileva da una lettera di Lorenzo Magalotti del 26 luglio 1665. Il granduca gli aveva fatto anche pervenire in dono due medaglie, col motto "Pax obvia" e "Ultio quaesita", e una collana. Anche Egidio De Gottignies, professore di matematica al Collegio Romano, era un suo estimatore. Soprattutto, con dovizia di particolari, il D. riferisce sui numerosi paragoni eseguiti, passando da un'altura all'altra di Roma, da numerosi dotti romani fra i suoi telescopi e quelli di Giuseppe Campani, valente ed apprezzato ottico, molto stimato dal Cassini, con cui fu in perpetua rivalità, come dimostrano i documenti pubblicati da Righini Bonelli e A. van Helden.
Il D. non fu solo costruttore di telescopi; anche i suoi microscopi, che egli costruì sfruttando le precedenti scoperte di Keplero, Galilei, Torricelli e Fontana e combinando insieme lenti concave e convesse, furono elogiati da H. Oldenburg e da E. Maignan. Dopo i fervidi anni romani di cui testimoniano le opere, nulla più sappiamo del Divini. Il suo maggiore biografo, il Gentili, non si sa su quale base, afferma che negli ultimi anni di vita tornò a San Severino, dove morì nel 1685 e dove le sue spoglie riposano nella chiesa di S. Domenico. Un monumento gli fu eretto nell'antico tempio di S. Severino vescovo il 2 ag. 1837.
Fonti e Bibl.: E. Maignan, Perspectiva horaria…, Romae 1648, I, 4, prop. 69; C. A. Manzini, L'occhiale all'occhio. Dioptrica pratica, Bologna 1660, pp. 118, 174; H. Fabri, Synopsis optica…, prop. XI-VI, Lugduni 1667, p. 131; Giornale de' letterati (Roma), I (1668), Giornata IV, pp. 52 s.; H. Oldenburg, Acta philosophica Societatis Regiae in Anglia, Lipsiae 1675, p. 706; G. Gimma, Idea della storia dell'Italia letterata, Napoli 1723, II, p. 610; A. Fabroni, Lettere inedite di uomini illustri, Firenze 1773, pp. 69, 72, 82 ss., 87, 119 s. e n., 257 ss.; G. Targioni Tozzetti, Notizie degli aggrandimenti delle scienze fisiche accaduti in Toscana..., Firenze 1780, I, 1, p. 246; II, 2, p. 748; F. Vecchietti-T. Moro, Biblioteca picena o sia Notizie istoriche delle opere e degli scrittori piceni, Osimo 1795, IV, pp. 14-17; J.-E. Montucla, Histoire des mathématiques..., Paris 1799-1802, II, pp. 508, 643; G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, Milano 1833, IV, p. 439; G. C. Gentili, Memorie stor. di E. D., in Elogio di Bartolomeo Eustachio, Macerata 1837, pp. 59-86; A. Heller, Geschichte der Physik von Aristoteles bisauf die neueste Zeit, Stuttgart 1882, II, pp. 187, 242, 244, 334, 336; R. Caverni, Storia del metodo sperimentale in Italia, Firenze 1891, I, pp. 397 ss., 414; M. Bianchedi, E. D., ottico matematico del sec. XVII, in Boll. d. Assoc. ottica ital., s. stor., I (1946), 2, pp. 1-8; A. van Helden, The Accademia del Cimento and Saturns ring, in Physis, XV (1973), pp. 237-259; M. L. Righini Bonelli-A. v. Helden, D. and Campani: a forgotten chapter in the history of the Accademia del Cimento, in Annali d. Ist. e Museo di storia d. scienze di Firenze, VI (1981), pp. 3-175; J.-M. Gardair, Le "Giornale de' letterati" de Rome, Firenze 1984, pp. 172 s., 201.