ETICA
. Il termine di ἐϑικά (neutro plurale dell'aggettivo ἐϑικός, moralis, da ἔϑος, mos, "costume, norma di vita") entrò neíl'uso propriamente con Aristotele, che con esso intitolò le sue trattazioni di filosofia della pratica; e poco più tardi lo stoicismo designò con lo stesso aggettivo la terza e suprema parte della filosofia, che, dopo la logica, dottrina della conoscenza, e la fisica, dottrina della realtà, stabiliva come l'uomo si dovesse praticamente comportare rispetto a questa realtà. D'allora in poi il termine è rimasto acquisito alla filosofia, che (talora lievemente distinguendolo, e più spesso identificandolo senz'altro con quello di "morale") l'ha consacrato come termine tecnico per la designazione di ogni dottrina che si venga speculativamente elaborando intorno al problema del comportamento pratico dell'uomo. Storia dell'etica è quindi, propriamente parlando, storia di tali dottrine filosofiche, anche se, talvolta, non elaborate da filosofi che si professassero tali: e dalla quale convien perciò distinguere (per utilità didascalica, e specialmente in un rapido sguardo storico come il presente) quella che più esattamente può dirsi "storia del costume": e cioè la storia delle immediate convinzioni pratiche che di volta in volta hanno dominato in ambienti umani, senza che questi le facessero oggetto di discussione e giustificazione teorica.
L'età classica. - Così (per cominciar senz'altro, in questa trattazione generale dello sviluppo delle dottrine etiche, da quella tradizione occidentale che sola può meritar propriamente il nome di storia e sola può fornire un significato e un criterio di valutabilità, a quelle stesse dottrine orientali che ad essa rimasero estranee) non tanto alla storia dell'etica quanto alla storia del costume, filosoficamente inteso o, se meglio si vuole, alla preistoria dell'etica stessa appartengono le varie norme di vita che i Greci dell'età presofistica considerarono di volta in volta valide per regolare su di esse il loro operare. Fede in un fato che determinasse, almeno in certi suoi aspetti, l'accadere, superiore in ciò al volere di Zeus, e senso di una responsabilità, che facesse l'uomo autore della sua fortuna; coscienza dolorosa della vanità del tutto e dell'inutilità del vivere (secondo la parola attribuita a Sileno e poi tante volte ripetuta dai poeti, che per l'uomo il meglio fosse non essere nato, ma, se nato, varcare quanto più presto le porte dell'Ade), e gioiosa, irriflessa, esperienza del giuoco, della festa, dell'eros, dell'arte, palese in tanti ambienti e in tante istituzioni; timore dell'invidia divina, esortante a restringere il più possibile le proprie audacie e fortune, e non emular, mortale, l'immortale, e idea della stretta parentela del divino e dell'umano, onde uomini potevano ascendere nell'Olimpo e numi amare donne mortali: tutto ciò è specchio del vario animo col quale gli antichi Greci sentirono sé nel mondo, e del vario modo nel quale cercarono di esprimere e di predicare tale loro immediato sentimento. Anche nelle massime morali attribuite ai Sette Savî, e in quelle dei filosofi presofistici (come p. es. Eraclito, Democrito, i Pitagorici) o dei poeti (p. es. Esiodo, Pindaro, gli gnomici, i tragici) o degli storiografi (p. es. Erodoto), non c'è, in genere, nulla più che questo immediato porre una norma, la quale si presenta o come religiosamente imposta, o come raccomandata da lunga esperienza umana, e quindi sempre come affermata in forza di un'autorità, che per ciò stesso esclude una riflessa giustificazione speculativa.
L'etica propriamente detta sorge appunto quando cade la fede nell'esistenza di tali norme obiettive, e l'uomo è portato a darsi da sé una legge mediante un'autonoma riflessione sui motivi del suo stesso operare. Di qui il carattere negativo che presenta la prima vera e propria dottrina etica dei Greci, quale viene in luce nell'illuminismo della sofistica: ché in essa diviene norma appunto la negazione di ogni antica norma. Fino al sec. V per i Greci la legge, il diritto, era stata essenzialmente ϑέμις, ϑεσμός, "posizione di norma", che rimandava a un fondatore, divino o quasi divino. Ma la critica religiosa, che già si era affermata nel sec. VI, in Seriofane, come lotta contro le figurazioni antropomorfiche del divino, diviene per i sofisti del sec. V, nella sostanza se pur non sempre nella prudente apparenza, negazione intrinseca della stessa religione: se Protagora si limita, con prudenza ironica, a dichiarare di non saper nulla circa gli dei, Crizia li considera senz'altro invenzione di un antico civilizzatore, che volle, incutendo negli uomini il timor divino, ridurre sotto freno di leggi i loro costumi. All'antica idea della norma morale come ϑεσμός divino si sostituisce così quella della legge come ϑέσις umana, imposizione di dominatore o convenzione di consenzienti, e perciò, come posta da uomo, così da uomo risolubile: al carattere artificioso della ϑέσις, della "convenzione", contrapponendosi il carattere reale della ϕύσις, della "natura", secondo la tipica antitesi della sofistica (particolarmente teorizzata da Antifonte) la quale, pur dispregiando e abbandonando i sistemi fisici e metafisici degli antichi fisiologi, ne conserva tuttavia, quasi senz'accorgersene, lo spirito naturalistico, nella sopravvalutazione romantica della ϕύσις, della libera forza delle cose. Non c'è, quindi, norma dell'azione, che non sia imposta o accettata per il vantaggio dell'azione stessa: di qui l'etica e la politica dei Callicle e dei Trasimaco, che compaiono a difenderla, e a dar tema di contrasto, nei dialoghi platonici, sostenendo che il δίκαιον, il diritto, non è che il vantaggio del più forte, e che il debole l'accetta solo in quanto non è capace di soverchiarlo, imponendo il diritto suo. Insegnamento che ben s'inquadra nella generale concezione gnoseologica e pedagogica della sofistica, onde non tanto importa la conoscenza della realtà (essa stessa del resto relativa all'uomo, già secondo la dottrina del fondatore teorico della sofistica, Protagora) e la comunicazione di tale conoscenza agli altri, quanto la persuasione degli altri al proprio punto di vista, necessaria per la vittoria nelle cause e per il successo politico.
A fondamento di questa morale era quindi, più o meno espresso, il concetto che bene fosse ciò che piaceva ad ognuno, e bene il tentar di conseguirlo, non preoccupandosi del male che potesse venirne ad altri ma solo di quello che potesse venirne a sé. Relativismo soggettivistico, e quindi di astratto e angusto edonismo, quale era pure di stretta conseguenza dopo la crisi in cui era venuta cadendo la filosofia oggettiva della natura: e che non poteva perciò essere superato e inverato se non quando, nello stesso ambito soggettivo dell'individuo, si fosse scoperto un nuovo principio di oggettività universale, che avesse potuto comunque regolare quell'edonistico arbitrio. Chi scoperse tale principio fu il grande nemico e ironizzatore del relativismo sofistico, Socrate: il quale può così a buon diritto essere considerato il fondatore della scienza etica, ad onta di tutte le incertezze che possano rimanere circa la precisa fisionomia storica della sua persona. È noto come queste incertezze dipendano dalla varietà di temperamento e di dottrina degl'informatori, Senofonte Platone Aristotele, che per noi tengono il luogo dei libri che Socrate non scrisse mai: ma al disotto di tali varietà fermo resta il motivo, a cui Socrate obbedì in tutto il suo filosofare, in quanto, riflettendo sui principî valutativi delle azioni, cercò come essi potessero giustificarsi non solo dal punto di vista dell'arbitrio individuale ma da quello di un universale consenso. L'universale, scoperto da Socrate, è così essenzialmente l'universale etico: soggetti del suo τί ἐστιν, della sua implacabile domanda circa quel che fossero le cose, erano, in primo luogo, i concetti coi quali principalmente si regolavano e giudicavano le azioni. Che cosa era il buono? che il bello? che l'utile? s'identificava il buono con l'utile, o se ne differenziava? A tali domande non si può dire che Socrate abbia mai risposto con precisione, almeno per quel che risulta dalla tradizione che ce ne informa; e quasi certamente tale incertezza dipese dal metodo stesso di Socrate, impegnato senza tregua a demolire e ironizzare i preconcetti dell'immediata opinione, secondo quella sua professione del "sapere di non sapere", che lo fece più tardi apparire quasi come il padre dello scetticismo. Ma la vera scoperta positiva di Socrate è quella della necessaria risoluzione del bene dell'individuo nel bene in universale, o della coincidenza del vero vantaggio col vero bene: che non è da intendere nel senso di una piatta riduzione utilitaristica dell'etico all'economico, bensì in quello, inverso, del riconoscimento che nel supremo valore etico doveva a fortiori realizzarsi anche il supremo valore utilitario. Il cosiddetto intellettualismo etico di Socrate non è in reala un intellettualismo, quando per ciò s'intenda comunque, una sopravvalutazione dei moventi conoscitivi rispetto a quelli pratici nel processo dell'azione: ché la conoscenza che per Socrate determina irresistibilmente l'azione (onde il concetto che chi conosce il bene lo fa, mentre chi non lo fa agisce in tal modo non per libera scelta ma per ignoranza del bene vero) è una conoscenza già totalmente impregnata di praticità, e anzi addirittura la valutazione pratica che fa corpo col volere. Di qui il carattere profondamente pedagogico della ricerca e dell'insegnamento socratico, che, mirando a sostituire agl'immediati ed empirici concetti del bene il concetto di quel che universalmente dovesse valere come tale, tendeva a spostare l'interesse da programmi individuali e quindi angustamente utilitarî a ideali di assoluta validità.
Determinismo del volere rispetto al bene supremo, che superava a priori, nel fatto, le più tarde antinomie di responsabilità e arbitrium indifferentiae, di edonismo e rigorismo: pur non superandole, s'intende, nel diritto, e cioè non risolvendone particolarmente i problemi. Che, d'altronde, la stessa formulazione socratica avesse in sé qualcosa di ambiguo, o almeno potesse dar adito a interpretazioni unilaterali o addirittura a fraintendimenti, è chiaro a chi consideri i sensi antitetici in cui essa venne sviluppata (come si vedrà) dalle due più importanti fra le minori scuole socratiche, la cirenaica e la cinica, poi continuate dall'epicurea e dalla stoica. Chi meglio capì, dei socratici, l'insegnamento del maestro nel suo moralismo rigoroso e insieme nel suo concreto senso eudemonistico della vita, fu naturalmente lo scolaro migliore, Platone: per il quale il problema morale restò al centro di tutta la filosofia, anche quando questa, portata dalla sua logica, fu condotta a penetrare così profondamente nel campo della gnoseologia e della metafisica. Se il concetto socratico trapassò, oggettivandosi in un iperuranio e divenendo forma non più soltanto del mondo umano ma anche di quello naturale, nell'idea platonica, ad essa lo spirito continuò a guardare con la stessa intensità d'interesse pratico con cui mirava, nella concezione di Socrate, all'ideale contenuto del suo stesso volere. Ma la nativa unità del teoretico e del pratico si ruppe, e ne nacque l'interna tragedia dell'etica platonica. Da una parte, il concetto dell'idea come fine dell'azione serbò tanto influsso, da presentare tutto il sistema ideale come piramide di specificazioni progressive dell'idea suprema del bene e da orientare verso di esso teleologicamente il mondo e passionalmente l'uomo, tratto dal miglior eros a una sempre maggior fruizione contemplativa delle idee. Ma, dall'altra, questa contemplazione delle idee si presentò anche nell'aspetto dell'unico sapere vero, che l'anima poteva raggiungere solo quando si staccasse dal regno della fallace opinione, cioè del senso e del corpo; e respingesse quindi da sé tutto quel mondo affettivo, che legandola alle cose le distraeva lo sguardo dalla visione della perfetta verità. E il contrasto si acuiva, assumendo forma sistematica, nella concezione psicologica che contrapponeva, nell'anima, la parte razionale, sede della conoscenza, a quella irrazionale, sede degli affetti, a sua volta divisa nella sfera degl'impeti (ϑυμοειδές) e in quella delle brame (ἐπιϑυμητικον): concezione confermata da quella politica della tripartizione dello stato, che su di essa si conformava, e consacrata nella dottrina delle quattro virtù principali, sapienza coraggio temperanza giustizia, le prime tre delle quali presiedevano, nell'ordine, alle tre parti dell'anima (e rispettivamente dello stato), mentre l'ultima presiedeva a tutte, facendo sì che ciascuna compisse il suo ufficio senza uscir dal proprio limite e invadere il campo delle altre. Né il contrasto era veramente composto dal fatto che alla parte razionale e conoscitiva dell'anima veniva comunque attribuito il compito di dirigere la parte pratica, come ai filosofi quello di governare lo stato: ché anzi si chiariva qui nettissima la differenza fra la concreta unità teoretico-pratica dell'agire qual'era concepito da Socrate, che era in ogni caso conoscenza del bene creduto massimo e azione ad esso conseguente, e la giustapposizione platonica, per cui il razionale doveva sì diriger l'affettivo, ma questo poteva pur volere e agire, consapevole del suo fine, senza ascoltarne il consiglio, così come guerrieri e operai potevano, nello stato, ribellarsi ai filosofi, la cui conoscenza del bene era piuttosto contemplazione propria, teoricamente acquisita e poi tradotta in comandi estrinseci, che non consapevolezza immanente nell'azione stessa delle classi inferiori. Prova di ciò, del resto, era anche la possibilità inversa, di una vita razionale che si fosse affrancata totalmente da quella sensibile: un ideale, che di fatto Platone fu portato irresistibilmente a vagheggiare, e che era del resto completamente implicito nella sua gran contrapposizione metafisica dell'ideale al reale, in cui il secondo poteva valere in via provvisoria come punto di partenza e di avvicinamento rispetto al primo, ma doveva restare, alla fine, destituito d'ogni valore. Di qui il gran ripiegamento platonico sull'antica escatologia orfico pitagorica, negatrice della vita presente per una vita oltremondana e preoccupata di assicurare la felicità di quest'ultima mediante la catarsi dell'anima comunque immortale; escatologia così lontana dallo schietto spirito di Socrate, per cui la morte era o inizio di un beato sonno senza sogni o trasferimento ad altra sede, dove si sarebbe potuto continuare a impiantar questioni filosofiche, e con persone più interessanti di quelle incontrate nell'aldiquà: né egli si curava di approfondire il problema e di risolversi per uno dei due corni del dilemma. Per Platone, la vita divenne μελέτη ϑανάτου, studium mortis, distacco progressivo dal corpo dell'esule anima immortale, che nell'iperuranio aveva già contemplato le idee e ora, ricordandosene, aspirava a ritornarvi. Spezzata la sintesi socratica, il momento teoretico della contemplazione finiva con l'assorbire in sé l'altro, negandogli indipendenza e valore.
A tale estremo non giunse Aristotele, che, non accettando la dimostrazione platonica dell'immortalità dell'anima e considerando anzi quest'ultima come forma della materia corporea, ad essa indissolubilmente legata nella realtà sostanziale del vivente, mantenne la sua etica nei limiti di questo mondo. Ma il dualismo del teoretico e del pratico si ripeté egualmente in lui, e anzi ebbe un riconoscimento esplicito nella distinzione delle virtù etiche dalle dianoetiche, le prime destinate a sovraintendere alla vita degli affetti e delle passioni, le altre a quella, più altamente umana, della ragione. In quelle, che dovevano dappertutto instaurare l'ideale della μεσότης, del giusto mezzo, equidistante dagli opposti eccessi delle tendenze (così il coraggio, ἀνδρεία, mediava tra la viltà, δειλία, e la temerità, ϑρασύτης) si continuava la tradizione platonica della virtù moderatrice delle passioni: e ad essa s'intonava anche la gran valutazione del concetto della giustizia, da Aristotele fatto oggetto di distinzioni e determinazioni minute. Le virtù dianoetiche concernevano invece l'uso della ragione, e cioè di quel che nell'uomo era più alto e degno, e meglio poteva condurlo verso quella piena realizzazione della propria attività in cui consisteva per ogni essere, secondo l'eudemonismo aristotelico, il supremo fine della felicità. Ma l'esercizio della ragione poteva riferirsi tanto alle realtà necessarie ed eterne quanto alle transeunti: nel primo caso, sapienza in assoluto, nel secondo caso, conoscenza tecnica regolatrice del πράττειν e del ποιεῖν, dell'agire e del produrre, che quindi veniva a costituire una sorta di ponte di passaggio fra la virtù dianoetica del puro conoscere e le inferiori virtù etiche. Anche nel sistema etico del maggiore interprete del pensiero greco era quindi consacrata (e con chiarezza persino maggiore che in quello platonico, in cui più vivo era il contrasto ma meno sistemata la gerarchia) quella superiorità del teoretico rispetto al pratico, del conoscere rispetto al fare, in cui si rispecchiava un aspetto fondamentale, e tante volte sentito ed espresso dai filosofi, dell'anima ellenica. In basso, una scala di virtù, che dal regno della mera passione salivano a quello dell'operare e produrre tecnico; al sommo, la virtù del puro conoscere, culmine dell'umana felicità in quanto attuazione del più alto potere dell'uomo. Là il volere si dissolveva nel contemplare, e l'uomo realizzava la sua divina natura noetica: né lo stesso dio era altro che immota contemplazione del suo pensiero medesimo, νόησις νοήσεως, ché, se avesse aggiunto a tale identica autocoscienza il desiderio anche solo di variare il suo pensiero, avrebbe, decadendo da termine supremo del desiderio cosmico a partecipe di questo stesso desiderio, distrutto la sua perfezione e cessato di essere dio.
In questa serie di contrasti, di cui erano costituiti i due maggiori sistemi dell'etica classica, erano posti, in fondo, i termini di tutta la problematica morale che affaticò il Medioevo. Qualcosa di medievale essi avevano già, infatti, nelle loro conclusioni contemplativo-teologiche; mentre ne rimanevano affatto scevre le altre due grandi etiche dell'età classica, quella dell'edonismo e quella del rigorismo, che sotto questo rispetto potrebbero quindi considerarsi ancora più schiettamente espressive dell'antico spirito greco, da esse così lungamente e profondamente dominato. L'edonismo propriamente detto nacque con Aristippo di Cirene, scolaro di Socrate e fondatore della scuola che fu detta dei Cirenaici (v.). Socrate, s'è visto, aveva considerato il bene come tale che attraesse a sé infallibilmente il volere: e chi tendeva a beni particolari e fallaci, lo faceva solo perché ignorava quale fosse il bene vero. L'esuberante e semplicista scolaro Aristippo si fermò a questa qualificazione socratica del bene come assolutamente desiderabile, e la scambiò per un'identificazione sic et simpliciter del bene col desiderabile, onde tutto ciò che piacesse fosse buono: di qui la sua etica prettamente edonistica, mirante al raggiungimento della maggior quantità possibile di piacere in atto. Ma facile era la crisi di questo edonismo dell'immediata soddisfazione, che non aveva armi per affrontare il dolore quando questo fosse stato presente: come si vide, più tardi, in quella sua inversione in pessimismo, che si compì con Egesia "persuasore di morte". Più prudente e solido, invece, l'edonismo riflesso instaurato da Epicuro, che così lunga risonanza ebbe nella cultura ellenistica, fino a quel Diogene che, sul cadere dell'età classica, ne faceva incidere le massime sulle mura della sua Enoanda. Epicuro pensò anzitutto a liberar l'uomo dal timore di superiori fini, o volonta, che dominassero il mondo: attribuì agli dei, in nome della loro perfezione, una beata inerzia e disinteresse, e concepì la natura, per poterne escludere ogni elemento teleologico, sullo schema dell'atomismo democriteo, cercando di evitare, con la teoria della casuale deviazione degli atomi, la ferrea necessità meccanica in cui quello veniva a cadere. Anche dal terrore della morte cercò di affrancare l'uomo, insegnandogli che non avrebbe mai potuto averne percezione reale, perché, quand'essa ci fosse stata, non ci sarebbe stato più lui a sentirla. L'uomo restava così pienamente libero, slegato dalle cose: e poteva chiudersi beatamente in sé stesso, nel godimento del suo piacere, che peraltro, per essere stabile, doveva venire non tanto da singole, attive soddisfazioni di desiderio, quanto da una tranquilla e contenta calma dell'animo, pago di sé e non tratto a uscir di sé per occuparsi del mondo.
Questo ascetismo edonistico degli epicurei finiva così col coincidere, nel suo ideale di "atarassia", con l'ideale di "apatia" e di "indifferenza" proprio di quell'ascetismo rigoristico, che nelle sue premesse teoriche e storiche gli era invece nettamente antitetico. Anche questo rigorismo nacque da un'interpretazione unilaterale della dottrina socratica: come i Cirenaici l'avevano inteso badando soprattutto al suo aspetto eudemonistico e forzandone l'accostamento del bene al desiderabile, così i cinici (v.), a cominciare da Diogene e da Antistene, vi lessero in primo luogo quell'incitamento al dominio delle passioni, alla superiorità al bisogno, all'indifferente tolleranza del dolore, che della personalità di Socrate appariva certo come una delle più spiccate caratteristiche. E dall'idea del dominio sulle passioni, sui bisogni, sul dolore, a quella di uno stato spirituale che, perfettamente pago di sé, restasse del tutto indifferente alle cose, e quindi si affrancasse dal loro legame, breve era il passo. Nacque così, dall'ideale socratico dell'αὐταρχία, autogoverno, l'ideale cinico dell'αὐτάρκεια, autosufficienza, e, da esso dipendente, quello dell'ἀδιαϕορία, indifferenza, che, togliendo agli oggetti dell'esperienza ogni colore affettivo, impedisse loro di mai scuotere l'animo dal suo immoto equilibrio. Il cinismo assicurava così all'uomo la più completa libertà che mai esso avesse potuto desiderare: ma insieme, affrancandolo da ogni motivo d'azione, gliela rendeva totalmente inutile, allo stesso modo onde inutile era la libertà del dio perfetto e con ciò immune di ogni desiderio e azione. A questa teologizzazione cinica dell'io reagì lo stoicismo, in quanto panteisticamente vide nel mondo stesso il divino e nell'accadere il realizzarsi di un fato razionale, che nulla poteva alterare e di fronte a cui non restava se non la virtù dell'accettazione: venendo quindi in pieno (se anche per lo più inconsapevole) contrasto col cinismo, la cui svalutazione delle cose come indifferenti di fronte allo spirito era agli antipodi dell'assoluta valutazione teologica dell'accadere fatale. Lo stoicismo continuava d'altronde il cinismo nell'ideale dell'autarchia e dell'indifferenza, che il saggio, fiducioso nell'universale razionalità delle cose, doveva serbare di fronte agli eventi; e di fatto il distacco dell'uomo dal mondo era pari nel risultato, nonostante la diversità delle cause, non intervenisse egli nel corso delle cose per rifiuto d'interesse o per fede nella razionalità del loro accadere e nell'inutilità, comunque, del suo intervento: l'assoluta libertà cinica giungendo a quella stessa negazione del volere e dell'azione, a cui portava per sua natura l'estremo opposto del fatalismo stoico. Ma restava il contrasto delle due visioni del mondo, l'una negante le cose di fronte all'uomo, l'altra dissolvente l'uomo nelle cose: contrasto che divenne tragedia interna nell'ultimo stoicismo (specialmente in Epitteto e in Marco Aurelio), portato da un nuovo spirito di rigorismo etico a tornare alle origini ciniche, e quindi a fondere insieme dedizione religiosa al mondo e impassibile disinteresse per le cose di quello stesso mondo.
Così moriva l'etica classica, in un'età in cui già aveva cominciato validamente a diffondersi la nuova parola che doveva rinnovarne dalle fondamenta i problemi. Non che i seguaci dell'antica cultura non continuassero ancora, e per secoli, a ripetere l'insegnamento etico dei vecchi maestri: ma non l'innovarono, e se l'innovarono non posero veramente nuovi problemi, ma si limitarono a variare le soluzioni di quelli già posti. Ciò è da dire anche della più importante fra le correnti filosofiche del declinante pensiero antico, il neoplatonismo, la cui etica era in sostanza trascrizione di quella platonica, salvo un'accentuazione del suo carattere contemplativo e religioso, onde fine supremo dell'uomo restava quello della visione della verità, ma la verità somma era dio, identico all'Uno, e l'adeguazione ad esso un'ascesa mistica ed estatica. Di fatto, quel che di nuovo era in quest'ultimo periodo della cultura e dell'etica antica era il sempre più forte intervento del motivo religioso, che staccava gli animi dal mondo presente orientandoli verso la speranza di un mondo venturo. Nell'età classica, l'idea dell'aldilà aveva per lo più continuato a presentarsi nell'antica luce omerica, onde esso era soltanto una scialba copia dell'aldiquà, degna del lamento di Achille desideroso piuttosto d'essere schiavo in terra che principe dei morti nell'Ade; e solo l'escatologia orfico-pitagorica, col suo dogma della metempsicosi, e la grandiosa trascrizione intellettualistica che ne diede Platone, vagheggiarono una vita oltremondana di cui quella terrena non era che pallido esempio. La declinante civiltà ellenistica, stanca del mondo presente, tornò a quel pensiero: di qui la gran rinascita, che la contraddistinse, di quelle antiche fedi, nei movimenti neopitagorico e neoplatonico. Tornò in primo piano il problema della catarsi, pratica o intellettuale, dell'anima, che evitasse reincarnazioni inferiori o avviasse all'estasi beatifica in cui si contemplava la suprema verità. In un piano idealmente più basso, ma storicamente non meno importante per la gran mutazione che determinò nell'orientamento spirituale di larghe folle, corrispose a questa rinascita filosofica delle credenze mistiche ed escatologiche la gran fioritura delle religioni dei misteri. A queste non era estraneo il mondo antico, che già da secoli conosceva i misteri eleusini e orfico-dionisiaci, e da questi ultimi aveva anzi tratto motivo per la sua più superba creazione artistica: ma mentre nell'età classica esse erano rimaste confinate in una ristretta cerchia d'iniziati, e avevano quasi esercitato la funzione di cellule segrete, che, fornendo allo spirito greco un oscuro fermento dionisiaco, gli dessero con ciò la materia da gettare, alla luce del presente, nelle sue forme apollinee, nell'età della decadenza esse soverchiarono ogni altra fede e interesse e dilagarono in un mondo che, ormai unificato dall'ellenismo e dalla romanità, chiedeva al conquistato Oriente la parola che appagasse la sua torbida sete di felicità mistica e oltremondana. Misteri orfico-dionisiaci, di Cibele, di Iside, e soprattutto misteri mitriaci invasero il mondo antico, facendo, attraverso i più bizzarri ed esaltati rituali (in cui permaneva elemento essenziale, come sempre in simili contingenze, l'idea del congiungimento sessuale dell'uomo col dio), sognare a folle d'iniziati il morboso sogno dell'identificazione col divino.
Cristianesimo e Medioevo. - Come una di tali religioni orientali, salvo la maggior tranquillità e tenacia dei suoi adepti e la loro pericolosa irriducibilità alla religione dello stato, dovette apparire, al mondo ellenistico-romano, lo stesso cristianesimo. Ma se, anche senza tener conto della superiorità, affatto incomparabile, del suo nobile e austero rituale rispetto a quello bizzarro o osceno dei misteri, il cristianesimo non fosse stato che una religione di un mondo venturo, un'escatologia del Regno o dell'aldilà, esso non avrebbe avuto quell'inaudita forza di adesione, che gli fece trovare in breve tempo così larga folla di confessori e di martiri, da soverchiare col loro eroismo il gigantesco edificio dell'antica civiltà: per la semplice sostituzione di un'eudemonia illimitata del futuro all'eudemonia, o all'infelicità, del presente, né confessori né martiri avrebbero speso parole e sangue. Oltre che una religione, il cristianesimo era una grande morale: la più grande morale che mai fosse apparsa, anzi a rigore la prima che potesse veramente chiamarsi non soltanto dottrina della pratica ma anche dottrina della morale. L'etica del mondo antico era stata, nella sostanza, un grande egoismo, che aveva sempre concepito il problema pratico nella forma di un rapporto tra l'uomo e le cose, e altresì tra l'uomo e gli altri uomini, ma considerando questi ultimi alla stregua delle cose, come elementi di cui si doveva tener conto in quanto avrebbe potuto nascerne male o bene. Le virtù massime dei Greci furono tutte virtù del dominio delle proprie passioni, al fine del proprio e individuale equilibrio ed euforia; e anche quando Platone e Aristotele parlarono con tanta reverenza e attenzione della virtù suprema della giustizia, e lo stesso Aristotele ed Epicuro dissero le lodi dell'amicizia, non le considerarono come forme della pratica che avessero un carattere particolarmente doveroso e attraverso le quali si aprisse davvero all'uomo il mondo della società morale, ma solo, anch'esse, come mezzi di migliore organizzazione pratica della vita, ai fini dell'eudemonia. La giustizia platonico-aristotelica era sistema obiettivo di rapporti, onde a ciascuno dovesse spettare il suo allo stesso modo che ogni cosa e ogni facoltà aveva il suo posto nel mondo: sistema che era quindi conveniente rispettare per il comune vantaggio, ma senza che perciò avesse senso l'amare il prossimo più di quanto non si potesse amare una qualsiasi cosa bella e piacevole, e in ogni caso più di quanto lo esigesse la particolare e contingente intonazione del proprio animo. E l'amicizia epicurea era piuttosto organizzazione di mutuo soccorso contro l'ostilità del reale, che interesse al bene altrui e volonta di alleviarne il dolore; amicizia cenobitica, i cui partecipi si amavano non per sé ma per altro, che in questo caso non era neanche l'eudemonia teologica ma soltanto l'atarassia egoistica. Mancò ai Greci, che pur appassionatamente amarono nel tumulto dionisiaco del loro temperamento, non tanto (come è stato, pur acutamente, detto) l'amore dell'amore, quanto il senso del valore dell'amore: conobbero l'amore della cosa, non quello della persona, e non poterono quindi comprendere il valore di quest'ultimo. Innamorati più che amanti, sentirono l'amore come soggiogamento, schiavitù, inferiorità di colui che ha bisogno rispetto alla cosa di cui ha bisogno: e dissero che Eros era non dio ma demone, natura intermedia tra l'umano e il divino in quanto tendeva dall'imperfezione alla perfezione, mentre la divinità era perfezione attuata, assoluta contentezza, scevra quindi d'azione, di volontà, d'amore. L'immagine di questo dio immobile, di nulla amante, fu in effetto, da Platone ad Aristotele e dai cinici agli epicurei, ipostatizzata in realtà trascendente o tradotta nella forma dello spirito adiaforo e atarassico, il massimo ideale etico dei Greci: ideale a cui cercarono in ogni maniera di farsi eguali, dopo averlo creato a loro immagine e somiglianza.
A questo impassibile dio il vangelo di Gesù oppose un'immagine del divino, che al gusto degli antichi dové dare il sapore dell'assurdo. Quel che per il dio greco era negazione e contraddizione, in lui divenne primo principio: sul concetto dell'amore del perfetto per l'imperfetto, di dio per il mondo, si sviluppò tutta l'etica e la teologia della redenzione. All'antica apoteosi, onde l'uomo saliva al grado di dio, il cristianesimo oppose l'incarnazione, onde Dio si abbassava ad uomo, per salvare, amandolo, il genere umano. Questa teologia presupponeva quindi una mutazione e anzi inversione radicale del concetto dell'amore, non più veduto come atto di una imperfezione tendente alla perfezione, bensì come atto supremo della perfezione stessa: inversione che si compì, appunto, con quell'affermazione evangelica dell'amore del prossimo, che contrappose al greco amore della cosa il cristiano amore della persona. Assurdo, per un greco, il precetto evangelico che si dovesse amare il prossimo come sé stesso, che non si dovesse fargli tutto ciò che non si voleva fosse fatto a sé: ché egli non avrebbe mai potuto mettere sullo stesso piano l'interesse del principio desiderante e quello di tutte le realtà che, intorno ad esso, apparivano come mezzi per la sua soddisfazione; e, anche quando amava Iddio, l'amava non per ricambiare di gratitudine una sua paterna bontà, bensì vedendo in esso il supremo strumento della sua possibile individuale perfezione. Il cristiano vide per primo il sé nell'altro, fosse uomo o fosse Dio: e il chiuso cerchio dell'amor delle cose, che aveva la sua perfezione in un limite eliminante l'amore stesso, gli si aperse in un'immensa sfera, in cui la volontà di bene dell'individuo si moltiplicava infinitamente nelle volontà di bene di tutti gli altri, che egli intorno a sé riconosceva, e di fronte a cui poteva quindi abnegare il suo stesso interesse, perché abnegandolo egli lo rendeva in realtà universale e adeguava il suo amore mortale all'amore di Dio.
Tale contrasto dell'etica del cristianesimo con l'etica classica si manifestò tipicamente nello sviluppo dell'etica medievale, che, variamente portando l'antico a contatto col nuovo, approfondì le divergenti esigenze dell'uno e dell'altro. Di qui la ricchezza della sua problematica. Anzitutto raggiunse in essa le sue più nette formulazioni, il grande contrasto che sussisteva, tra l'idea di un mondo pensato come sistema oggettivo di leggi e di avvenimenti, allo stesso modo fatali e superiori al potere dell'uomo o che fossero retti dalla ragione o dal meccanismo o dal caso e di fronte a cui non restava all'uomo che la virtù dell'immoto contemplare, e l'idea di un mondo il cui valore fondamentale era la volontà amante, di Dio e dell'uomo: tra l'idea greca della necessità e l'idea cristiana della libertà. Quest'ultima era implicita nel più schietto motivo etico del cristianesimo: ma l'altra era pure strettamente connessa con la sua teologia, onde il mondo poteva apparire come creatura e strumento di Dio, e quindi come determinato dalla sua onnipotenza. Di qui contrasto fra l'idea della grazia, della provvidenza, della predestinazione, e quella della libertà dell'uomo, che potesse da sé foggiare il proprio destino. Tolta la libertà, non avrebbe avuto più senso parlar di peccato e di virtù, di pena e di premio, di redenzione e di giudizio oltremondano; ammessa la libertà, poteva parer negata la prescienza e l'onnipotenza di Dio. Pelagianismo e agostinismo si affrontarono così in un'antitesi ideale, su cui si aguzzò per secoli il pensiero del Medioevo.
Tale sforzo di conciliare quegli opposti motivi fu d'altra parte fecondo per i concetti e per le antitesi che chiarì, e in cui elaborò gli strumenti della moderna problematica morale. Veduto nel mondo un sistema necessario, e la libertà nella sua negazione immediata, essa libertà doveva apparire come la pura eccezione e infrazione, che, in un mondo tutto schiavo di leggi, non obbediva a nessuna legge. Ma se l'epicureismo, che mirava soltanto a un'obiettiva via d'uscita dal chiuso cerchio del meccanismo cosmico, aveva potuto contentarsi di tale libertà identica al caso, il pensiero medievale, che tale libertas indifferentiae, da esso perfettamente definita, doveva porre alla base dell'umano volere, vide anche come essa fosse un'astratta ed inutile libertà, che non si muoveva all'azione perché nessuna ragione aveva di muoversi. E ripiegò, allora, sull'intellettualismo pratico, pensando che quell'indifferente libertà si scuotesse solo per il richiamo conoscitivo dei suoi possibili oggetti, dipendendo nella sua scelta dall'intensità di tale richiamo: che se poi due richiami opposti si fossero equivalsi in intensità, essa sarebbe rimasta indecisa e immota, come quell'asino di cui probabilmeme Buridano non parlò mai, ma che simboleggiò comunque drasticamente lo spirito della sua dottrina. Così il pensiero medievale compiva, e attraverso le forme più determinate e istruttive, la grande esperienza teorica dell'impossibilità di concepire una libertà, che, definita in funzione negativa di una necessità, non ricadesse a sua volta nel cerchio di una determinazione necessaria: fornendo così una somma di esperienze preziose per il futuro lavoro della filosofia moderna.
Parallelamente, un'altra grande esperienza fu compiuta da quella teologia, che sognò il magnanimo sogno di ricostruire dalla base l'idea di Dio partendo dalla più profonda parola cristiana, della libertà e del volere. Il dio greco non voleva né amava, perché solo conosceva e contemplava: ma se avesse voluto e amato, avrebbe voluto e amato il Bene, che non avrebbe potuto non coesistergli, egualmente supremo ed eterno. Ora, il Dio cristiano, che amava, trovandola buona, la sua creatura, e attuando in essa un piano provvidenziale riconosceva, e perciò seguiva, la suprema razionalità di tale piano, era in fondo ancora un Dio antico, in cui l'onnipotenza del volere era limitata, e cioè distrutta, dall'immota perfezione del sapere. La teologia del grande Duns Scoto si accorse di questo, e capovolse il rapporto, dicendo che non già Dio voleva il bene perché il bene era tale, ma che il bene era tale perché Dio lo voleva: non già il volere divino era determinato dalla divina ragione, ma anzi questa aveva valore solo in quanto era posta da quello. Sulla linea di questa teologia della volontà onnipotente, era facile vedere come si giungesse diritti all'assoluta dissoluzione del concetto di Dio come obiettiva ed esistente realtà, perché, qualsiasi cosa esso fosse stato veramente, e cioè fosse stato in eterno, limitata e quindi distrutta ne sarebbe risultata la sua onnipotenza.
L'età moderna. - Da questa folla di problemi e di contrasti il mondo moderno uscì mediante una rude scossa, che parve attenuazione del senso dei problemi morali ed era in realtà approfondimento dei loro più umani presupposti. L'etica medievale aveva, nel suo complesso, guardato sempre all'aldilà, e aveva orientato ogni sua valutazione nel senso di quell'ideale, considerando la vita presente come semplice preparazione alla vita futura: e in essa erano così venuti in primo piano tutti quei problemi del peccato, della redenzione, della salvezza, della grazia, della provvidenza, che rappresentavano le particolari formulazioni teoriche del problema pratico di quell'ulteriore esistenza. L'Umanesimo e il Rinascimento, rivolgendo di nuovo l'uomo verso il mondo e verso sé stesso, gli fecero a poco a poco dimenticare quell'ideale ultraterreno, a cui egli aveva, nel Medioevo, sacrificato offerte di sofferenze e dolori, nella disciplina esercitata dallo spirito sulla carne: e lasciarono a termine della sua azione quello stesso interesse mondano, che prima era apparso come negatività etica, come il male medesimo nel suo intrinseco principio, in quanto distraeva lo spirito dal perseguimento del suo vero fine. Di qui l'aspetto di edonismo amoralistico, che l'etica dell'Umanesimo e del Rinascimento venne assumendo in confronto a quella del Medioevo, un po' per contrasto reale e un po' per contrasto apparente. Reale era il contrasto, in quanto l'uomo di questa età pregiava ed amava quegli stessi valori terreni, che l'uomo medievale aveva disprezzato e aborrito: ma il colore di amoralismo, che questa nuova coscienza dei valori portava spesso con sé, era piuttosto un riflesso che nell'animo dei suoi stessi assertori derivava dall'antica educazione religiosa, e per cui essi avvertivano che qualcosa era morto, senza ben sapere, talvolta, che cosa essi stessi veramente vi sostituissero. Da ciò lo scetticismo e il pessimismo che così di frequente si mescola all'edonismo di questa età di critica e di rivolta. Triste, pur nella sua gioiosità tecnica, è la politica del Machiavelli, che si esaurisce in un ideale individualistico di dominio; e per il Guicciardini questo individualismo non è più un ideale, bensì una realtà che è forza riconoscere. Ma né Machiavelli né Guicciardini dubitano più, ormai, che solo da quel particolare interesse dell'individuo nasca e proceda tutta la storia.
Tale individualismo edonistico può dirsi che compenetri di sé tutta quanta l'etica moderna, nel periodo che va dai suoi inizî fino alla grande sistemazione kantiana. L'etica antica era partita dal mondo, e aveva cercato di adeguarvi l'uomo, l'etica cristiana era partita dall'uomo, ma, riassorbita, nel Medioevo, dal pensiero antico, era rimasta presa nell'insolubile contrasto dell'uomo e del mondo, della libertà e della necessità, e vanamente aveva tentato di sfuggirgli spezzando il mondo in due parti e vagheggiandone l'una in una lontananza ideale. Né tale contrasto fu superato dall'etica della Riforma protestante, che se ebbe il merito di richiamare il problema religioso a una più profonda intimità spirituale, non superò, nel suo agostinismo, il livello del Medioevo. Sciogliendo quel contrasto, l'etica moderna si attenne al principio più vivo, quello dell'umanità e della libertà: ma il mondo le si dissolse dinnanzi, e la libera volontà, che essa poneva sugli altari, era volontà che non trovava altro fine all'infuori di quello della sua individuale soddisfazione, almeno fino a che, in seno a tale sfera soggettiva, non si fosse scoperto un nuovo e più profondo principio di oggettività morale. Così, individualistica ed edonistica è tutta la tradizione etica dell'empirismo inglese, che dallo sperimentalismo di Bacone procede fino allo scetticismo di Hume. Il moralista più rappresentativo, tra questi, è lo Hobbes: il quale riconosce francamente all'uomo soltanto la pratica volontà di ottemperare al suo desiderio, senza alcun riguardo al desiderio degli altri: che se poi, a un certo punto, cessa il bellum omnium contra omnes, e le illimitate libertà individuali si accordano e, contemperandosi, divengono pacificamente compossibili, ciò non accade perché una norma morale sorga a infrenare quelle volontà edonistiche, ma solo per la stanchezza di quella guerra e per il desiderio di un più sicuro se anche più limitato bene. Concezione che rende, nel suo grado più tipico e rude, il tono fondamentale di tutto l'empirismo etico prekantiano. Il quale assunse, nel particolare, i più varî aspetti e si colorò delle più diverse intonazioni, dal Locke, che attenuò nella sua calma osservatrice la drammaticità hobbesiana, al Hume, che armò contro le presunzioni moralistiche l'amarezza del suo scetticismo, e dal giusnaturalismo, che intese di fornire al concetto del diritto una dignità universale se pur fondata soltanto sull'universale natura umana, al contrattualismo, che di nuovo lo ricondusse alla libera convenzione degli uomini; ma presuppose sempre, nella sostanza, questo concetto: che il vero valore pratico era quello della libertà e volontà individua, perseguente i suoi fini, e che al disopra di essa non stavano leggi, a cui essa dovesse obbedire per loro validità intrinseca e non perché essa stessa le avesse poste, in funzione di suoi bisogni e vantaggi. Non per nulla la conclusione ideale di tutta questa tradizione era l'utilitarismo etico, tipicamente rappresentato dal fondatore dell'economia moderna, Adamo Smith.
A tale dissoluzione di ogni autonomia della morale di fronte al comando dell'immediato interesse sembrava d'altronde che si potesse trovare un rimedio nella considerazione della stessa morale come interesse indipendente, che a sua volta attraesse lo spirito per sua virtù peculiare. Tale fu la via battuta dalla cosiddetta "etica del sentimento", a cui è legato sopra tutti il nome dello Shaftesbury, e che nell'attitudine morale volle vedere un particolare sentimento di benevolenza verso gli uomini e di reverenza alla legge, naturalmente proprio dell'animo e quindi non derivato dal calcolo edonistico. Ma si trattava in realtà non tanto di un rimedio quanto di un palliativo: ché un simile sentimento morale, per indipendente e peculiare che fosse, era in realtà immediato senso e desiderio allo stesso modo che ogni altro affetto edonistico, e non poteva quindi aspirare, nella folla dei sentimenti, ad una particolare e superiore dignità. E allo schietto individualismo edonistico tornò, in genere, l'illuminismo francese, lo colorasse di egoìsmo con l'Helvetius o di materialismo col d'Holbach, l'idealeggiasse in una politica dello stato di natura e in una pedagogia della spontaneità col Rousseau o lo corroborasse di scettica ironia moraleggiante col Voltaire. Riscossa teorica dell'individuo e del suo valore pratico, che apriva la strada alla sua riscossa politica. E quasi sperduti nel flutto di questa secolare tradizione europea apparivano i due grandiosi sistemi, dello Spinoza e del Leibniz, che nel campo della morale avevano tenuto fede all'antico motivo dell'adeguazione dell'individuo all'ordine obiettivo delle cose: l'uno insistendo sul concetto della ferrea necessità razionale del tutto, che rendeva vane e superficiali le valutazioni affettive degli uomini, l'altro su quello dell'armonia prestabilita, che, determinando le esperienze delle monadi, le volgeva alla realizzazione del più perfetto dei mondi possibili e giustificava così un ottimismo cosmico.
Chi superò questa grande esperienza individualistica, accogliendone la rivendicazione dell'immanenza ma facendo insieme valere in essa un nuovo principio di oggettività morale, fu il fondatore dell'etica moderna, Emanuele Kant. Questi vide, anzitutto, come l'empirismo morale, che scendeva in campo in difesa dell'individuo e della sua libertà contro l'imposizione di una norma o di un destino trascendente, cadesse di fatto, a sua volta, in una nuova negazione della libertà: giacché l'immediato interesse, che traeva la volontà dell'uomo verso il conseguimento del suo fine pratico, assoluto o relativo alla sua conciliazione con quello delle altre volontà, agiva su essa con la stessa virtù di determinazione causale che si manifestava nelle leggi di natura. Si tendeva al proprio vantaggio con la stessa necessità con cui cadeva la pioggia: e l'indifferenza di valore non mutava quando, secondo l'etica del sentimento, si fosse stati soggetti alla passione della morale. L'universo, invece, poteva proprio distinguersi in due grandi sfere, quando si osservasse come il mondo della natura, oggetto della conoscenza che ne poneva le leggi, escludesse da sé quella libertà, che pur doveva postularsi alla base del mondo morale, oggetto dello spirito pratico, affinché questo possedesse senso e valore. Altra la legge della necessità naturale, a cui non era dato disobbedire, perché i fenomeni la seguivano senza neppure averne coscienza, altra la legge della libertà morale, che agiva solo in quanto lo spirito, riconoscendone il valore, decideva liberamente di obbedirle. Realtà morale poteva quindi esserci solo quando la volontà non fosse, nella sua azione, determinata da un desiderio, da un interesse, da un'aspettativa di vantaggio: quando, come Kant disse, l'imperativo implicito nella sua massima, cioè nella sua regola d'azione, non fosse ipotetico, cioè condizionato dalla speranza di determinare, con l'azione, qualcosa di ulteriore e diverso dall'azione stessa ma categorico, e cioè voluto assolutamente e di per sé, senza alcun riguardo a secondi fini. Vera morale non era la morale eteronoma, che giustificava il suo comando con qualche cosa di estraneo al comando stesso, promettendo soddisfazioni o premî e minacciando dolori o castighi, mondani o oltremondani, ma la morale autonoma, onde si seguiva la legge per la legge, il bene per il bene, prescindendo da ogni immediata inclinazione dell'animo.
Questa autonomia e assolutezza della legge morale era insieme, per Kant, il segno di quella universalità, che egli mirava in essa a determinare, compiendo nel campo della filosofia della pratica quel che già aveva operato nel campo della gnoseologia con la sua scoperta dei principî a priori, condizioni trascendentali della conoscenza. Il carattere ipotetico ed eteronomo delle morali correnti era infatti concomitante e connaturato al carattere empirico che esse recavano in sé: ché determinare e sopravvalutare singoli fini o tipi di azione, empiricamente osservati e generalizzati, era insieme subordinare alla posizione di quei fini la validità del comando morale. Apriorismo e rigorismo erano così, nell'etica kantiana, coessenziali, fornendole nel loro nesso la sua più tipica caratteristica, ma nello stesso tempo anche il tema delle sue più gravi difficoltà. Evidenti apparvero subito quelle del rigorismo: ché se, da una parte, incontrovertibile era la riduzione kantiana dell'impulso, dell'inclinazione, della tendenza alla necessità naturale, essa veniva d'altra parte a porre l'uomo contro sé stesso e a spezzare in due parti la sua volontà, vagheggiando l'ideale etico dell'uomo in perenne combattimento contro le proprie passioni. Nulla che venisse fatto volentieri, spontaneamente, aveva, a rigore, valore morale: ché solo dall'urto dell'imperativo categorico del dovere con l'imperativo ipotetico del piacere poteva nascere quel valore. Tale difficoltà fu del resto avvertita dallo stesso Kant, che cercò in ultimo di conciliare il dissidio di quei due mondi ponendone, come postulato della ragion pratica, un terzo, nel quale, mercé l'esistenza di Dio e l'immortalità dell'anima, il bene e il male della moralità venissero a coincidere col bene e col male del piacere e del dolore. Ma postulato della ragion pratica era per Kant quel mondo allo stesso modo che l'esistenza reale della libertà, in quanto né l'uno né l'altra potevano mai esser direttamente affermati dalla conoscenza intellettuale: con singolare parificazione, perché mentre il postulato della libertà era affatto coessenziale a tutta la sua etica, che sarebbe crollata senza di esso, il postulato di una vita ultraterrena in cui Dio restituisse la felicità al bene era piuttosto eversione del suo principio fondamentale dell'autonomia. D'altra parte, non meno gravi erano le difficoltà che all'etica kantiana derivavano dal suo assunto di aprioristica universalità: ché per quanto essa si proponesse di determinare soltanto la pura forma della volontà morale, a prescindere da ogni suo contenuto, quella volontà doveva pur essere determinata con una qualificazione che la distinguesse da una volontà non morale, e a tale qualificazione non era sufficiente il concetto della libertà e della categoricità e dell'autonomia, che di quella volontà erano soltanto i necessarî presupposti. Ben note sono le angustie e le contraddizioni in cui Kant si avvolse, quando volle dedurre applicazioni e verificazioni da quelle delle sue tre famose formule (la prima e la terza), in cui la moralità dell'imperativo era derivata dalla sua pura universalità (in quanto esso poteva essere elevato a norma universale) o dalla sua pura autonomia (in quanto lo spirito vi obbediva a una legislazione da lui stesso posta); mentre la più concreta e alta fra tutte, la seconda, la quale comandava all'uomo di agire considerando l'umanità, in sé e negli altri, sempre come fine e mai come mezzo (dando con ciò la consapevole sistemazione filosofica del precetto fondamentale dell'etica evangelica), traeva in realtà la sua ricchezza da altro motivo che da quello della pura universalità del volere, in quanto vi inseriva il nuovo problema dell'alterità dei voleri molteplici e della valutazione assoluta dell'altrui persona.
La filosofia postkantiana chiarì e discusse questi problemi, in parte accentuandone le soluzioni, in parte (e più) cercando di integrarle con un più concreto riconoscimento degl'immediati valori pratici dello spirito umano. L'attivismo soggettivistico del Fichte approfondì, con acute analisi, il concetto kantiano della libertà, e ne portò all'estremo la tendenza all'universale, ponendo come unica norma etica l'obbedienza alla convinzione razionale del tutto scevra d'affetti, della propria coscienza. Ma nell'aria era la rivolta passionale del romanticismo: ideale etico del Goethe era quello della concreta esperienza di vita, del sich ausleben, e lo Schiller, che argutamente ironizzava sul rigorismo kantiano, pensava a una morale e a un'educazione che avessero la stessa attrattiva, dilettosamente catartica, dell'arte. Così, nel più maturo e complesso dei pensatori dell'età romantica, il Hegel, il valore dell'interesse, dell'inclinazione, della tendenza era rivendicato accanto a quello della libera determinazione morale, nell'aspetto della partecipazione concreta che legava il soggetto a quella stessa determinazione. Quando, poi, la convinzione idealistica entrò in crisi, nell'animo di pensatori che avevano pur tratto la loro educazione dalla scuola kantiana, il motivo passionale ed eudemonistico del romanticismo diventò prepotente: per il pessimismo dello Schopenhauer, che vedeva la radice del mondo in un'universale Volontà, schiavitù dolorosa da cui non era dato affrancarsi se non nella contemplazione estetica o nella negazione buddhistica del volere, la morale non appariva che nell'aspetto della virtù della "compassione", onde l'uomo, esperto del dolore, comprendeva e alleviava l'altrui sofferenza. Né a tale crisi dell'idealismo potevano ovviare coloro che si proponevano di rafforzarlo con l'apporto di elementi teologici o teosofici, sia che (come il Krause) cercassero di tradurre l'etica in una teoria del sentimento mistico, sia che (come il Baader, e in certa misura lo stesso Schelling) tentassero la sintesi fra la concezione idealistica dello sviluppo dialettico del cosmo o quella cristiana della sua redenzione, sia che (come lo Schleiermacher) coronassero di afflato religioso la tentata conciliazione dei principî della natura e dello spirito nel mondo morale dell'uomo.
Tornò così a prevalere, nella seconda metà dell'Ottocento, quell'empirismo etico, che già aveva dominato nella tradizione filosofica inglese e che ora provocò in essa, col Bentham e con lo Stuart Mill, una rinascita della dottrina utilitaristica. Ma il grande rigoglio dell'indagine sperimentale della natura, che contraddistinse questa età, diffondendo sempre più largamente il concetto che la causalità naturalistica avesse impero universale e che quindi non restasse più posto, accanto al necessario mondo delle cose, per un libero mondo dello spirito, doveva far discendere anche questo utilitarismo a positivismo e materialismo. Attraverso la biologia, la fisiologia, la psicologia sperimentale, la patologia, l'individuo umano apparve esclusivamente nell'aspetto onde esso poteva essere studiato alla stessa stregua di ogni altro fenomeno della natura, e quindi come risultato di causalità, prodotto di condizioni, tra cui non aveva ragion d'essere una libertà determinante: vane quindi dovevano essere giudicate tutte quelle etiche, che, riconoscendo nell'uomo una libertà essenzialmente diversa dalla causalità naturale, gli assegnavano fini superiori a quelli di ogni altro organismo vivente, spinto dalla sua costituzione biologica a tendere alla sua miglior conservazione. Positivismo e materialismo, che ebbero naturalmente infinite gradazioni di tono, perché non tutti i loro teorici furono egualmente brutali nella risoluzione dello spirituale nel fisico: ma che portava comunque senza rimedio al medesimo annullamento del mondo dei valori di fronte al mondo dei fatti. Esempio tipico di tale annullamento era la dottrina del diritto penale, che logicamente ne derivava e che, propugnata in Italia dal Lombroso e dal Ferri, prese appunto il nome di "positiva": secondo essa, dedotta rigorosamente ogni azione delittuosa dalla predeterminata natura dell'autore e dall'ambiente in cui s'era prodotta, non sussisteva più alcuna reale distinzione tra malattia e colpevolezza, follia e delinquenza, e la società non aveva più diritto di punire ma soltanto di difendersi, allontanando da sé gl'individui pericolosi. Dottrina che fu del resto assai utile in quanto avviò a una migliore comprensione della psicologia del reo e quindi delle esigenze del suo trattamento, contro alle astrattezze rigoristiche del diritto penale classico, che per guardare alla colpa perdeva di vista il colpevole; ma che, trasformando i tribunali in cliniche e le carceri in manicomî, soffocava nel più tetro pessimismo la fiducia umana nella libertà. Analoga, per quanto superiore di livello, era infine (per citare un'altra tra le più tipiche formulazioni concrete di questa morale) la concezione storiografica del cosiddetto "materialismo storico", la quale offriva una singolare trascrizione in termini positivistici di una dottrina che traeva le sue origini dal più schietto idealismo, e cioè dalla teoria hegeliana della positività della storia, in cui il razionale s'identificava col reale. Attraverso l'economia del Marx, questa dottrina si trasformò in quella dell'indifferenza morale della storia, in quanto totalmente guidata dalle forze economiche, determinanti, in ultima analisi, ogni altra attività dell'uomo: dove tornava la negazione di ogni ideale della volontà, che non fosse miraggio di pratica soddisfazione.
Contro questo generale abbassamento della dottrina morale non mancarono voci di protesta, e teorici (Lotze, Eucken, Windelband, ecc.) che, in vario modo riprendendo teorie idealistiche o cercando di conciliarle col trionfante naturalismo, si adoperarono a rinnovare nella cultura il senso dei valori: ma non si può dire che, per tutta la seconda metà del secolo scorso, essi riuscissero a volgere nel loro senso la direzione ideale del pensiero. Ciò è accaduto, bensì, nella rinascita idealistica che ha contraddistinto il primo quarto del nostro secolo, e che particolarmente feconda è stata in Italia, dove la tradizione dell'idealismo non si era del resto mai spenta, e aveva, durante tutto il secolo decimonono, alimentato il pensiero di uomini come Rosmini, Gioberti, De Sanctis, Spaventa (per non citare che i maggiori). Al rinnovatore della cultura e della filosofia italiana, il Croce, si deve anche una nuova sistemazione dei problemi della morale, che per la larghezza delle sue vedute e del suo umano interesse offre un campo di discussione e di elaborazione estremamente fecondo. Punto di partenza, per il Croce, la stessa esperienza etica del positivismo, che egli non ha superata prima d'averla intensamente vissuta, nella sua esperienza delle difficoltà di concepire una morale che rigoristicamente prescindesse dal mondo affettivo dell'uomo e nei suoi particolari studî sul marxismo e sul materialismo storico, che al comune denominatore dell'interesse economico riduceva tutta la storia. Da tali esperienze, e dalla connessa coscienza dei valori umani e in particolare della libertà e della responsabilità morale dell'azione, è nata la soluzione etica del Croce, che si propone di render ragione a entrambi gli opposti motivi, senza sacrificare l'economia alla morale né dissolvere l'etica nell'economia. L'azione è sempre sorretta da un soggettivo interesse, sentita come tale che il compierla risponde all'esigenza pratica vissuta in quell'atto dallo spirito: è quindi, sempre, azione "economica", realizzante il più profondo impulso e appagante il più profondo desiderio. Ma se ogni azione è economica, non tutte sono soltanto economiche: se la volontà che regge l'azione risponde sempre al più profondo interesse dell'individuo, il fine a cui questa azione si volge può anche essere non soltanto individuale, bensì contenere in sé un valore universale. All'individuale volizione economica si accompagna così l'universale volizione etica: ma non come classe parallela, che quindi debba escludere (rigoristicamente) la prima considerandola come mera negazione e disvalore rispetto a sé stessa, o nella prima debba (utilitaristicamente) risolversi non essendone che una forma indiretta, bensì come specificazione suprema, in cui si afferma un nuovo e autonomo valore dello spirito. La virtù non è contro le passioni, né la passione assorbe in sé la virtù: ma la virtù è la più alta tra le passioni, irriducibile tuttavia restando la differenza d'altezza. Indeciso, certo, rimane in questa dottrina il punto critico della distinzione dell'etica dall'economia, troppo vago essendo il riferimento alle antiche categorie dell'individuo e dell'universale: ma il problema del contrasto, e della parallela necessità, dei due opposti principî dell'economicità e dell'eticità dell'azione è in essa così chiaramente prospettato, e così ricca la messe di osservazioni ed esemplificazioni concrete che gli forniscono determinazione specifica, da assicurare ancora per molto tempo a tale dottrina quella funzione di punto di partenza e di riferimento per discussioni ulteriori, in cui è del resto la sua migliore ambizione.
Parallelamente, motivi di grande importanza anche per la soluzione del problema etico sono contenuti nella filosofia del Gentile. Nella quale non si trova in particolare un'etica, non già perché non le sia presente il problema morale, ma perché, in forza della dimostrata identità del teoretico col pratico, l'etica è già tutta implicita nella logica, e cioè nella teoria generale dello spirito come puro conoscere. Se si può distinguere nel processo spirituale un momento estetico, come momento della soggettività, e un momento religioso, come momento dell'oggettività, non si può distinguere un momento dell'azione da un momento della conoscenza, un'etica da una logica o gnoseologia, perché la concreta sintesi dello spirito è nello stesso atto conoscenza e volontà. È eterno sviluppo, realtà non mai identica a sé stessa, divenire puro: è superiorità immanente al suo contenuto, e cioè alla cosa, al mondo, volta per volta definito nel suo limite, ed è quindi assoluta condizione, libertà. Nell'universalità dell'esperienza, quale si realizza in ogni atto dello spirito (e che poi è, di fatto, l'unico universale vero), è in tal modo, insieme, la sua infinita libertà morale. Né questa assoluta eticità dell'atto trova limite in un'economia, perché quella che si giudica azione economica, o anche azione immorale, non è che azione contemplata, oggetto di quell'azione che è la sua stessa consapevolezza giudicante, e che giudicare non potrebbe se non ponesse sé stessa come assoluto valore. Moralismo assoluto, che in forza del suo stesso carattere totalitario può anche assumere l'aspetto di un assoluto economismo: e che certo pone aspri problemi, non lasciando più intendere il giudizio etico nel senso discriminante che gli è sempre rimasto tradizionale, onde da una parte godano gli eletti e dall'altra gemano i reprobi, e sostituendogli l'ideale di una comprensione perfetta, che elimini l'astratta alterità del giudicare. Ma questo ideale è poi quello stesso che, nelle sue più profonde intenzioni e ad onta di tutte le apparenti divergenze, persegue l'intera storiografia moderna, intravedendo l'universale positività della storia e il valore puramente programmatico e pedagogico dei singoli giudizî morali, che non colpiscono gl'individui ma solo gli astratti tipi delle loro azioni, proiettati in un possibile futuro. E, comunque, il punto di partenza della dottrina che a questa concezione giunge è di tale saldezza, che non è dato schivarne le conseguenze, per timore delle difficoltà e dei problemi.
Bibl.: Per la bibliografia concernente gli autori, le correnti e i periodi ricordati si vedano le singole voci che ne trattano. Indichiamo qui soltanto le più importanti trattazioni generali di storia dell'etica: N. H. Gundling, Historia philosophiae moralis, Halle 1706; Chr. Garve, Uebersicht der vornehmsten Prinzipien der Sittenlehre, Breslavia 1798; Ch. Meiners, Geschichte der älteren u. neueren Ethik oder Lebensweisheit, Gottinga 1800-01; J. F. Fries, Ideen zur Geschichte der Ethik, Heidelberg 1819; K. F. Stäudlin, Geschichte d. Moralphilosophie, Hannover 1823; L. v. Henning, Die Prinzipien d. Ethik in historischer Entwicklung, 1825; J. Mackintosh, Dissertation on the progress of ethical philosophy, Londra 1835 (nuova ed. a cura di W. Whewell, Londra 1862); P. Janet, Histoire de la philosophie morale et politique, Parigi 1858; E. Feuerlein, Die philosophische Sittenlehre in ihren geschichtl. Hauptformen, Tubinga 1857 segg.; K. Werner, Grundriss einer Geschichte der Moralphilosophie, Vienna 1859; W. Whewell, Lectures on the history of moral philosophy, Londra 18 2; 3ª ed., 1862; R. Blakey, History of moral science, Londra 1833; 2ª ed., 1863; A. Neander, Vorlesungen über die Geschichte d. christlichen Ethik, ed. D. Erdmann, Berlino 1864; W. Gass, Geschichte d. christlichen Ethik, Berlino 1881 segg.; Th. Ziegler, Geschichte d. Ethik, Bonn 1881 segg.; Fr. Jodl, Geschichte d. Ethik, Stoccarda 1882-89; 2ª ed., 1906 segg.; H. Sidgwick, Outlines of the History of Ethics, Londra 1886 (trad. it., Torino 1922); K. R. Köstlin, Geschichte der Ethik, I, Tubinga 1887; Chr. E. Luthardt, Die antike Ethik in ihrer geschichtlichen Entwicklung, Lipsia 1887; id., Geschichte der christlichen Ethik, Lipsia 1888 segg.; R. Eucken, Die Lebensanschauungen d. grossen Denker, Lipsia 1890; 10ª edizione, ivi 1912; 18ª ed., Berlino 1922; trad. it., 2ª ed., Torino 1921; E. Westermarck, Origin and development of the moral ideas, Londra 1906 segg.; M. Wundt, Geschichte d. griechischen Ethik, Lipsia 1908 segg.; O. Dittrich, Geschichte d. Ethik, I-III, Lipsia 1926 (è l'opera più vasta e moderna di storia dell'etica: giunge coi primi tre volumi, finora usciti, all'età della Riforma); M. Wentscher, Geschichte d. Ethik, Berlino 1931 (breve compendio). Per ulteriori indicazioni v. anche F. Ueberweg, Grundriss der Geschichte der Philosophie, I, 12ª ed., Berlino 1926, pp. 5*-6*.