Abstract
L’estradizione è uno strumento tipico della cooperazione instaurata tra Stati in materia penale. L’istituto viene qui esaminato mettendo, innanzitutto, in rilievo le fonti normative che lo disciplinano nell’ambito dell’ordinamento italiano. Ampio spazio è poi dedicato a tutta una serie di elementi che ne condizionano l’applicazione a livello pratico; questi elementi sono analizzati muovendo da una prospettiva internazionalistica, essendo l’estradizione regolata essenzialmente da norme di diritto internazionale pattizio.
L’estradizione è uno strumento tipico di cooperazione tra gli Stati in materia penale, attraverso il quale uno Stato consegna un individuo, imputato o condannato, presente sul proprio territorio ad un altro Stato che ne abbia fatto richiesta, affinché quest’ultimo possa svolgere un processo (estradizione processuale) o eseguire la pena detentiva comminata dai propri tribunali (estradizione esecutiva) contro l’individuo richiesto. A seconda che lo Stato chieda l’estradizione di un individuo che si trovi all’estero o riceva da uno Stato straniero una domanda di estradizione di un individuo che si trova sul proprio territorio, si parla, rispettivamente, di estradizione attiva o di estradizione passiva.
In ragione del suo specifico fine l’estradizione si distingue da qualunque altra forma di allontanamento dal territorio dello Stato (es. espulsione, deportazione, esilio, ecc.).
L’estradizione vera e propria va distinta dalla cd. estradizione in transito; quest’ultima si ha quando uno Stato consente il passaggio in custodia di un individuo oggetto di una procedura di estradizione intervenuta tra altri due Stati.
L’estradizione, benché trovi il suo fondamento giuridico in norme penali interne, è essenzialmente regolata da norme di diritto internazionale pattizio. Infatti, non esistono consuetudini internazionali che impongano allo Stato l’obbligo di concedere l’estradizione. Dunque, gli Stati decidono di accordarsi l’estradizione sulla base di procedure stabilite in trattati, bilaterali o multilaterali, di estradizione. Specifiche clausole sull’estradizione sono inoltre contenute in convenzioni multilaterali destinate a reprimere crimini ritenuti particolarmente gravi, quali i crimini internazionali e alcuni crimini a carattere transnazionale. Si deve, tuttavia, sottolineare che non mancano esempi in cui né lo Stato richiesto né lo Stato richiedente, in base alle proprie legislazioni interne, prevedano la necessità dell’esistenza di un trattato di estradizione per la reciproca concessione dell’estradizione (cd. estradizione extraconvenzionale). In questi ultimi casi, tuttavia l’estradizione è soggetta al principio di reciprocità: lo Stato richiesto concede l’estradizione allo Stato richiedente a condizione che quest’ultimo, nelle medesime circostanze, si impegni a tenere il medesimo comportamento.
L’art. 13 c.p. stabilisce che l’estradizione è regolata dalla legge penale italiana, dalle convenzioni e dagli usi internazionali. La norma poi detta le seguenti condizioni, di carattere sostanziale, sulla base delle quali le autorità italiane possono concedere l’estradizione: che il fatto che forma oggetto della domanda di estradizione sia previsto come reato dalla legge italiana e dalla legge straniera; che non si tratti di reato per il quale le convenzioni internazionali non facciano espresso divieto di estradizione; e che l’estradando sia straniero, non prevedendosi l’estradizione del cittadino se non nei casi in cui sia espressamente consentita nelle convenzioni internazionali. La Costituzione ha elevato quest’ultimo principio al rango di norma fondamentale dell’ordinamento e ha introdotto in materia anche una importante novità, in quanto l’estradizione del cittadino non può in alcun caso essere ammessa per reati politici (art. 26, co. 2, Cost.). Il divieto di estradizione in caso di reati politici è esteso, in virtù dell’art. 10, co. 4, Cost., anche agli stranieri. Rimane tuttavia da constatare che l’assenza di una compiuta definizione della nozione di reato politico nelle norme costituzionali citate rende problematica la piena comprensione degli ambiti di operatività del divieto in parola. Benché sia possibile propendere verso l’adozione di un criterio ampio di reato politico, ciò non può significare tuttavia che l’ordinamento italiano garantisca una tutela assoluta a colui che nel proprio paese compia delitti che si concretizzino in una sistematica e massiccia violazione dei diritti fondamentali dell’uomo. In particolare, la l. cost. 21.6.1967, n. 1, ha escluso che gli artt. 26, co. 2, e 10, co. 4, Cost. possano essere invocati da chi abbia commesso un atto di genocidio ai sensi della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio del 1948. Ma lo stesso sembra potersi affermare, in via analogica, per quegli atti considerati criminali dal diritto internazionale generale in quanto contrari ai “principi elementari di umanità” e per quegli atti dallo stesso qualificati come crimina juris gentium, in quanto tali norme internazionali entrano nell’ordinamento italiano attraverso il meccanismo dell’adattamento automatico ex art. 10, co. 1, Cost.
In merito alle norme che regolano le procedure di estradizione, l’art. 696 c.p.p precisa che le estradizioni sono disciplinate dalle norme delle convenzioni internazionali in vigore per lo Stato e dalle norme di diritto internazionale generale e che solo se tali norme mancano o non dispongono diversamente si applicano gli articoli 697-722 c.p.p. (v. anche Estradizione - dir. proc. pen.).
L’estradizione è generalmente soggetta a condizioni. La previsione di tali condizioni, che sono inerenti al tipo di infrazione per la quale si chiede l’estradizione, ha distinto da sempre l’istituto ed è tesa a tutelare la sovranità e gli interessi dello Stato estradante. In principio, ogni legislazione nazionale stabilisce il contenuto e la portata di tali condizioni e molte di esse sono enunciate anche nei trattati di estradizione. Generalmente, la procedura di estradizione è condizionata al rispetto della regola della specialità, della regola della doppia previsione del reato e della regola del ne bis in idem.
La regola della specialità prescrive che lo Stato richiedente possa processare l’estradando esclusivamente per i reati per i quali è stata chiesta l’estradizione e non può sottoporlo a procedimenti penali per reati non indicati nella domanda di estradizione (es., in Italia, art. 699 c.p.p.). Oltre che in molti trattati bilaterali, la regola è presente nei principali trattati di estradizione conclusi a livello regionale (es. art. 14 Convenzione europea di estradizione del 1957). Al principio è riconosciuta anche natura di norma internazionale consuetudinaria.
La regola della doppia previsione del reato prescrive, invece, che l’estradizione possa essere rifiutata qualora la condotta oggetto della richiesta di estradizione non sia considerata reato ai sensi della legge penale dello Stato richiesto (es., in Italia, art. 13, co. 2, c.p.). Generalmente questo non significa che il reato debba essere individuato nei suoi elementi costitutivi in modo identico nelle legislazioni dello Stato richiesto e dello Stato richiedente. Tale aspettativa potrebbe altrimenti essere assicurata solo nei rari casi in cui gli elementi definitori della fattispecie criminale fossero precisati dagli Stati, di comune accordo, a livello convenzionale. Pertanto, nella maggioranza dei casi, la regola della doppia previsione del reato deve trovare una applicazione non formalistica, non legata alla descrizione semantica del reato. Anche in relazione al contenuto della regola della doppia previsione del reato si può pacificamente parlare di norma di diritto internazionale generale.
Infine, la regola del ne bis in idem prescrive che l’estradizione debba essere rifiutata quando la persona richiesta sia stata condannata, assolta o graziata, o abbia scontato una pena inflittagli dallo Stato richiesto per gli stessi atti per i quali l’estradizione è stata domandata. Benché il rispetto del principio sia considerato un diritto fondamentale della persona, in base a diversi trattati in materia di diritti umani (es. art. 14, par. 7, Patto internazionale dei diritti civili e politici; art. 4, par. 1, Protocollo n. 7 alla CEDU), la sua tutela è assicurata al fine di non sottoporre un individuo, per lo stesso reato, ad un procedimento penale nell’ambito dello stesso Stato. Dunque, la regola del ne bis in idem diventa preclusiva ai fini dell’accoglimento di una domanda di estradizione solo se espressamente richiamata dalla legislazione dello Stato richiesto; più raramente essa è prescritta anche nei trattati di estradizione (es. art. 9 Convenzione europea sull’estradizione e art. 4 Secondo protocollo addizionale del 1978 alla Convenzione europea sull’estradizione).
La nazionalità dell’autore presunto del crimine è considerata tradizionalmente motivo legittimo per rifiutare una domanda di estradizione qualora l’individuo sia cittadino dello Stato richiesto. La giustificazione di ciò risiede essenzialmente nella rilevanza che ciascuno Stato riserva all’esercizio del potere coercitivo sui propri cittadini, in quanto espressione della propria sovranità. Alcuni Stati, infatti, hanno attribuito al divieto il rango di norma costituzionale (es. Austria, Brasile, Salvador, Georgia, Moldova, Romania, Federazione russa, Turkmenistan, Ucraina). Anche in Italia il divieto di estrarre propri cittadini è inscritto in Costituzione (art. 26), sebbene si preveda che l’estradizione debba essere concessa «se è espressamente prevista dalle convenzioni internazionali». Tuttavia, si deve osservare che tale divieto subisce un affievolimento nel caso di un alto grado di integrazione giuridica tra gli Stati (es. art. 16, par. 2, lett. b, London Scheme for Extradition within the Commonwealth del 2002).
Un problema che si pone in merito al funzionamento del divieto in esame è legato al fatto di stabilire quale sia la data a partire dalla quale l’individuo oggetto di una domanda di estradizione debba essere considerato cittadino dello Stato richiesto perché quest’ultimo possa legittimamente apporre un rifiuto. I trattati di estradizione, che pur contemplano in determinati casi il divieto in esame, non affrontano la questione.
Sul punto è difficile trovare una prassi univoca, in quanto esistono distinte posizioni tra gli Stati. Una parte della prassi statale ritiene che la nazionalità debba essere in possesso dell’individuo oggetto di un procedimento di estradizione al momento della domanda di estradizione (es. la giurisprudenza di Grecia, Ungheria, Svizzera e Paesi Bassi). Altri Stati considerano, invece, la data della commissione del reato quale momento materiale per la determinazione della nazionalità (es. la giurisprudenza di Francia, Israele e Canada). Infine, nell’ipotesi in cui la qualità di cittadino sia accertata soltanto fra la decisione e la data prevista per la consegna, è generalmente ammesso che lo Stato richiesto possa avvalersi della disposizione sul divieto di estradizione dei propri cittadini (es. art. 6, par. 1, lett. c, Convenzione europea di estradizione). Una prassi tendenzialmente uniforme si registra, invece, nel caso in cui l’individuo non abbia la cittadinanza dello Stato richiesto né al tempo in cui è stato commesso il reato né quando è stata inoltrata la domanda di estradizione, bensì l’acquisti in un momento successivo. In questa ipotesi l’eccezione che si basa sulla nazionalità non viene applicata.
Dunque, la prassi in materia non permette di determinare la prova dell’esistenza di una consuetudine internazionale che indichi la data a partire dalla quale l’individuo oggetto di una richiesta di estradizione debba possedere la cittadinanza dello Stato richiesto perché la domanda possa essere legittimamente rifiutata. Inoltre, va notato come la prassi sia soggetta a significativi mutamenti a seconda che gli Stati siano nella posizione di Stati richiedenti o di Stati richiesti (v., ad es., la giurisprudenza statunitense). Si noti, infine, che la regola che stabilisce il divieto di estradizione dei propri cittadini, nell’ambito di alcuni regimi convenzionali, è estesa anche ai residenti permanenti dello Stato richiesto (es. art. 6, par. 1, lett. b, Convenzione europea sull’estradizione e art. 15, par. 3, lett. a, London Scheme for Extradition within the Commonwealth).
La regola che consente il rifiuto dell’estradizione per i reati politici costituisce uno dei tradizionali limiti all’estradizione ed è consacrata nella maggior parte dei trattati di estradizione (es. art. 3, par. 1, Convenzione europea sull’estradizione), nonché nella legislazione di diversi Stati (per l’Italia, artt. 10, co. 4, e 26, co. 2, Cost. e art. 698 c.p.p.).
La regola troverebbe la sua giustificazione non già nel fatto che i reati politici siano meno gravi dei reati comuni, ma nel fatto che «[l]e crime politique est, dans la plupart des cas, dirigé exclusivement contre la constitution ou le gouvernement d’un peuple et d’un pays déterminés» (Institut de Droit International, De l’extradition des réfugiés politiques - Avis de Bluntschli, in Annuaire de l’Institut de Droit International, I, 1881-1882, 102 ss.); pertanto non essendo esso un pericolo per gli altri Stati, non fa scattare, a livello internazionale, un vincolo solidaristico nella repressione di un dato reato. Dunque, la connotazione di un reato come avente natura politica è lasciata alla discrezione dello Stato richiesto e rispecchia inevitabilmente l’ideologia politica di questo Stato.
Questa realtà emerge con tutta la sua problematicità in relazione alle domande di estradizione che concernono, ad esempio, gli atti di terrorismo. Infatti, tutti i trattati internazionali e regionali contro il terrorismo conclusi anteriormente alla Convenzione sugli attentati terroristici con esplosivo del 1997 subordinano il regime di estradizione ad ogni norma o pratica in uso nello Stato richiesto, ammettendo pertanto l’eccezione del reato politico. Un tentativo di restringere l’ambito di applicazione della regola in esame si è manifestata solo nel momento in cui il reato in questione è stato percepito dalla comunità degli Stati come una grave minaccia alla convivenza pacifica tra le nazioni; così nelle convenzioni più recenti in materia di terrorismo è esclusa ogni giustificazione di ordine politico nell’ambito dell’estradizione (es. art. 6 Convenzione per la repressione dei finanziamenti al terrorismo del 1999; art. 5 Convenzione per la repressione degli attentati terroristici con esplosivo del 1997; art. 6 Convenzione per la repressione degli atti di terrorismo nucleare del 2005).
L’idea che le norme internazionali a tutela dei diritti umani debbano essere prese in considerazione nell’ambito delle procedure di estradizione regolate a livello convenzionale non è in sé nuova. Infatti, i limiti all’estradizione (siano essi contenuti in trattati di estradizione o in leggi nazionali), esaminati nei paragrafi precedenti, pur se generalmente previsti con il fine di tutelare la sovranità dello Stato estradante, sono stati spesso utilizzati per assicurare un certo livello di protezione dei diritti fondamentali dell’estradando. Tuttavia, la questione della tutela dei diritti umani nell’ambito delle procedure di estradizione ha avuto maggiore rilievo a partire da due pronunce di organi di controllo di trattati sui diritti umani. Nel caso Soering c. Regno Unito (sentenza del 7.7.1989), la Corte europea dei diritti umani affermò che il Regno Unito avrebbe violato l’art. 3 CEDU, nella parte in cui vieta i trattamenti o le punizioni inumane o degradanti, se avesse estradato il ricorrente negli Stati Uniti, dove rischiava la pena di morte. Nel caso Ng c. Canada (osservazioni del 7.1.1994), il Comitato dei diritti umani si trovò di fronte ad un caso analogo e vietò l’estradizione in base all’art. 7 del Patto internazionale sui diritti civili e politici.
Il conflitto tra norme di trattati sui diritti umani e norme convenzionali che favoriscono l’estradizione ha suscitato un ampio dibattito in dottrina e, in materia, si è sviluppata anche una rilevante prassi statale, che sembra ammettere che l’obbligo di estradare debba cedere nel caso in cui si sia in presenza di un rischio reale di violazione dei diritti umani dell’estradando. Generalmente dall’esame di questa prassi emerge che l’estradizione non viene concessa quando ad essere coinvolti sono il diritto alla vita (es., in Italia, art. 698, co. 2, c.p.p.), il divieto di tortura e il diritto ad un equo processo. Si noti come gli organi di controllo dei trattati sui diritti umani abbiano sottolineato che analoghe considerazioni non si possono applicare in relazione a tutti i diritti protetti dai trattati in questione: sarebbe, infatti, irrealistico ritenere che uno Stato possa estradare un individuo solo verso quegli Stati che garantiscono in modo pieno ed effettivo il godimento di tutti i diritti garantiti in tali trattati (in tal senso, C. eur. dir. uomo, 22.6.2004, F. c. Regno Unito).
Un problema che si può porre nell’ambito delle procedure di estradizione è legato alla eventualità di dovere estradare un soggetto verso uno Stato in cui rischia di essere perseguitato. La questione è oggetto di attenzione non solo da parte di diverse legislazioni nazionali (es., in Italia, art. 698, co. 1, c.p.p.), ma di diversi trattati di estradizione (es. art. 3, par. 2, Convenzione europea di estradizione) e convenzioni multilaterali in materia penale, in cui specifiche norme, le cd. clausole discriminatorie, stabiliscono che l’estradizione può essere rifiutata nei casi in cui nello Stato richiedente il presunto responsabile del crimine rischi di subire un procedimento penale e una punizione per motivi di razza, di religione, di nazionalità, di origini etniche o di opinioni politiche o la persona sia discriminata sulla base di uno di questi motivi.
La clausola discriminatoria è strettamente connessa al principio di non-refoulement previsto all’art. 33, par. 1, della Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati del 1951; principio quest’ultimo a cui si riconosce carattere consuetudinario. Tuttavia, va sottolineata una differenza tra le due norme. La clausola discriminatoria concede agli Stati solo una facoltà di agire a tutela dell’individuo oggetto di una richiesta di estradizione, mentre il principio di non-refoulement impone loro un obbligo. Inoltre, le due norme hanno un ambito di applicazione ratione personae non necessariamente coincidente; infatti, laddove applicata dallo Stato richiesto la clausola discriminatoria non è confinata alla tutela dei soli rifugiati e dei richiedenti asilo. Pertanto, al di là della portata delle citate clausole discriminatorie, è opportuno valutare quale impatto abbia il principio consuetudinario di non-refoulement sulle procedure di estradizione.
Come è noto, il principio si applica non solo nei confronti di coloro che hanno già ottenuto lo status di rifugiato, ma anche a favore dei richiedenti asilo, nelle more della procedura per il riconoscimento dello status di rifugiato. Inoltre, il principio si applica sia nei confronti dei paesi d’origine, sia nei confronti di ogni paese in cui un individuo ha il «giustificato timore di essere perseguitato». L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati ha ribadito il carattere fondamentale del principio di non-refoulement anche in relazione all’estradizione (v. UNHCR, Executive Committee Conclusion No. 17 XXXI (1980), Problems of Extradition Affecting Refugees, 16.10.1980). La prassi giurisprudenziale degli Stati è sostanzialmente conforme a questa lettura. Tuttavia, l’art. 33, par. 2, della Convenzione di Ginevra ammette una eccezione al principio, affermando che non possa essere invocato «da un rifugiato se per motivi seri egli debba essere considerato un pericolo per la sicurezza del paese in cui risiede oppure costituisca, a causa di una condanna definitiva per un crimine o un delitto particolarmente grave, una minaccia per la collettività di detto paese». Senza voler entrare nel merito delle questioni interpretative sollevate dalla norma, basta qui ricordare che essa è interpretata in modo restrittivo dalla gran parte della dottrina. Una volta determinato il rischio per la sicurezza nazionale o la minaccia per la collettività, e dunque il nesso di causalità, l’estradizione dell’individuo si ritiene possa essere concessa solo nel rispetto dei principi di proporzionalità e di necessità, in base ai quali l’eccezione è applicabile sempre che il danno per lo Stato richiesto o la sua comunità sia di maggiore ampiezza di quanto non sia il rischio per la tutela dei diritti umani della persona da allontanare, e a condizione che tale allontanamento sia l’unico modo per assicurare la sicurezza nazionale o quella della comunità dello Stato richiesto. Si deve, comunque, sottolineare che l’invocazione dell’eccezione dell’art. 33, par. 2, non libera lo Stato di rifugio da eventuali altri obblighi internazionali di non respingimento che discendano dai trattati in materia di diritti umani a cui lo stesso abbia aderito (es. art. 3, par. 1, Convenzione ONU contro la tortura, art. 7 Patto internazionale sui diritti civili e politici, art. 3 Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali).
Dunque, è possibile che si verifichi un conflitto tra obbligo di non-refoulement e la volontà di uno Stato di concedere l’estradizione in ossequio ad un trattato di estradizione. La soluzione di questo conflitto va risolto in ossequio all’applicazione delle tecniche interpretative dei trattati, in particolare, sulla base del fatto che un trattato possa essere interpretato alla luce di «qualsiasi regola pertinente internazionale applicabile nei rapporti tra le parti» (v. art. 31, par. 3, lett. c, Convenzione sul diritto dei trattati del 1969). Ne consegue che i trattati di estradizione vadano interpretati quantomeno alla luce del divieto consuetudinario di non-refoulement.
Si deve tuttavia osservare come, nella prassi, il rispetto del principio di non respingimento è spesso eluso attraverso l’ottenimento di “assicurazioni diplomatiche” da parte dello Stato richiedente. In sostanza queste ultime permetterebbero allo Stato richiedente di veder accolta la propria domanda di estradizione in cambio di garanzie, a volte alquanto generiche, circa la protezione dei diritti umani dell’estradando. Questa prassi è stata criticata da diversi organismi internazionali a tutela dei diritti umani (in Italia, C. cost. 27.6.1996, n. 223 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell’art. 698, co. 2, c.p.p. che prevedeva assicurazioni diplomatiche in caso dell’estradizione verso uno Stato che pratica la pena di morte).
Infine, un discorso a parte va fatto in merito all’estradizione di coloro che sono sospettati di essere responsabili della commissione di crimini internazionali e hanno ottenuto lo status di rifugiato in uno Stato diverso da quello che ne chiede l’estradizione. Sul punto, la Convenzione di Ginevra sembra chiara in merito. L’art. 1 F, lett. a, afferma che le norme della Convenzione non sono applicabili agli individui di cui vi sia serio motivo di sospettare che «hanno commesso un crimine contro la pace, un crimine di guerra o un crimine contro l’umanità, nel senso degli strumenti internazionali contenenti disposizioni relative a siffatti crimini». Ne dovrebbe pertanto discendere che l’individuo, autore presunto del crimine internazionale, una volta scoperto, sia privato del suo status di rifugiato ed estradato.
Nell’ambito dell’intensificazione della cooperazione tra Stati in materia penale, è ragionevole prospettare l’ipotesi in cui più Stati, sebbene sulla base di diversi titoli di giurisdizione, possano presentare contestualmente domande di estradizione allo Stato nel cui territorio si trova l’autore presunto del reato. Si può quindi produrre una situazione di conflitto tra più domande di estradizione a cui lo Stato richiesto deve trovare una soluzione. In particolare, nei trattati regionali di estradizione a base regionale è d’uso inserire clausole che disciplinano il concorso di domande. Dunque, se tutti gli Stati coinvolti nella vicenda sono contraenti dello stesso trattato, sarà quest’ultimo a dettare i criteri di priorità da applicare alle domande concorrenti. Ad esempio, qualora gli Stati coinvolti fossero tutti parti della Convenzione europea di estradizione si applicherà la soluzione offerta dall’art. 17, in base alla quale se l’estradizione è domandata nel contempo da parecchi Stati, sia per lo stesso fatto, sia per fatti differenti, lo Stato richiesto statuirà tenendo conto di tutte le circostanze e soprattutto della gravità relativa e del luogo dei reati, delle date rispettive delle domande, della cittadinanza dell’individuo richiesto e della possibilità di una ulteriore estradizione in un altro Stato. La Convenzione non detta vere e proprie regole di priorità, ma indica in modo tassativo i criteri che lo Stato deve prendere in considerazione per elaborare la sua scelta. Diversamente, la soluzione al problema offerta dalla Convenzione interamericana sull’estradizione del 1981 è più rigida. L’art. 15 della Convenzione, infatti, afferma che: se l’estradizione è domandata da più Stati contestualmente per la stessa infrazione, lo Stato richiesto darà la precedenza alla domanda dello Stato nel cui territorio l’infrazione è stata commessa; se la molteplicità di domande riguarda differenti infrazioni, la preferenza sarà data allo Stato che reclama l’individuo per l’infrazione punita con la pena più severa in base alla legislazione dello Stato richiesto; se la molteplicità di domande riguarda differenti infrazioni considerate dallo Stato richiesto aventi la stessa gravità allora la precedenza sarà accordata in base all’ordine di presentazione delle richieste di estradizione.
In tutte le ipotesi in cui non esistono norme convenzionali pertinenti, lo Stato richiesto risolverà il problema del concorso di domande di estradizione in base ai criteri di priorità dettati dalla propria legislazione (es., in Italia, art. 697, co. 2, c.p.p).
Nell’ambito di sempre più numerose convenzioni multilaterali in materia di cooperazione penale è inclusa una clausola “o estradare o giudicare” (aut dedere aut judicare). La clausola, redatta secondo diversi modelli, è la dimostrazione dell’interesse crescente degli Stati a reprimere determinati crimini, superando alcuni ostacoli che sono frapposti dal principio di sovranità all’esercizio della loro giurisdizione penale. Ciò si è potuto realizzare in quanto il verificarsi di un fatto che intacca un bene giuridico ritenuto meritevole di protezione da parte della comunità degli Stati è tale da provocare un allarme sociale non circoscrivibile nell’ambito di un’unica comunità statuale.
Le convenzioni che prescrivono la clausola aut dedere aut judicare impongono agli Stati contraenti di stabilire titoli di giurisdizione idonei a reprimere i crimini convenzionali. L’Italia, alla luce dell’art. 7, co. 5, c.p. ha un criterio di collegamento che le permette di assumere impegni di tal genere senza adottare, ogni volta che ratifica una tale convenzione, specifici provvedimenti di adeguamento. Sul versante della disciplina dell’estradizione, invece, dette convenzioni dettano norme che ne favoriscono l’applicazione, prospettando tre situazioni tipiche: le convenzioni modificano i trattati di estradizione esistenti tra gli Stati parti, considerando estradabili i crimini convenzionali, e creano uno specifico obbligo di inserire tali crimini nei futuri accordi di estradizione; le convenzioni costituiscono esse stesse una base giuridica valida per l’estradizione in assenza di un trattato di estradizione tra le parti; le convenzioni sono una garanzia dell’impegno all’uso dell’istituto dell’estradizione nei rapporti reciproci nel caso in cui né lo Stato richiesto né lo Stato richiedente, in base alle proprie legislazioni, prevedano la necessità di un trattato come presupposto per lo svolgimento delle procedure di estradizione (v., ad es., art. 8 Convenzione contro la cattura illecita di aeromobili del 1970).
La clausola aut dedere aut judicare è inserita anche in alcune convenzioni bilaterali, ma la sua operatività riguarda solo il caso in cui lo Stato richiesto rifiuti l’estradizione di un individuo sulla base del fatto che questi ha la sua cittadinanza.
Artt. 26, co. 2, e 10, co. 4, Cost.; l. cost. 21.6.1967, n. 1; art. 13 c.p.; artt. 696-722 c.p.p.
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