ENRICO
Fu l'ultimo dei tre arcivescovi di provenienza germanica (Widgero, Unfrido ed E. in ordine di successione), che ressero la sede arcivescovile di Ravenna dopo la morte di Gebeardo di Eichstátt nel 1044.
La scomparsa di Gebeardo cadde in un momento alquanto travagliato per la storia italiana e fu seguita, pochi anni dopo, nel 1052, da quella del marchese Bonifacio di Canossa. Cosi, nell'arco di neppure un decennio, nell'Italia centrosettentrionale erano venute a mancare le due più importanti basi su cui poggiava l'autorità imperiale. L'immediata conseguenza fu il rapido deterioramento dei rapporti fra l'Impero e il mondo locale emiliano-roniagnolo, dove, in un clima di crescente anarchia, presero il sopravvento assai presto le forze, non più contenute, del particolarismo con tutte le loro rivalità. Questa situazione risultò dannosa soprattutto per le Chiese vescovili, che videro ben presto l'intrusione di chierici sprovvisti dei requisiti canonici, l'alienazione dei benefici, l'usurpazione dei diritti ecclesiastici e una larga diffusione delle pratiche simoniache' e nicolaite. La perdita del controllo politico da parte dell'imperatore acui, nel mondo ecclesiastico, le tensioni fra le sue diverse componenti: fra chierici forestieri (in gran parte di provenienza germanica) e quelli indigeni, fra vescovi e canonici, fra clero urbano e clero rurale, fra secolari e regolari. E se da una parte prevalsero le istanze corporative, dall'altra si assistette ad una massiccia dilapidazione dei patrimoni delle chiese a tutto vantaggio delle principali famiglie locali.
Fu in questo clima politico generale assai travagliato e confuso che, nel breve giro di due anni, il sovrano Enrico III, che non era ancora stato incoronato imperatore, dovette scegliere per la sede arcivescovile di Ravenna prima Widgero (1044) e, quindi, a seguito di un intervento del clero locale, Unfrido, che era canonico di Strasburgo e cancelliere dell'Impero (1045). Sette anni dopo, alla morte di quest'ultimo, forse avvelenato perché ritenuto troppo remissivo, venne elevato alla dignità arcivescovile ravennate E. che ottenne il pallio da papa Leone IX soltanto l'anno dopo, con bolla datata 8 apr. 1053. Già all'inizio il suo governo fu travagliato da violenti disordini. Le cronache ricordano infatti che, durante la quaresima del 1052, il vescovo di Frisinga, Nizone, inviato a Ravenna dallo stesso Enrico III per insediarvi il nuovo arcivescovo, venne ucciso in circostanze misteriose e che il suo cadavere fu vilipeso dai Ravennati in rivolta.
Prima di questo episodio non si hanno altre notizie relative ad Enrico. Forse è da identificare (ipotesi avanzata dalla storiografia locale) con l'omonimo vicecancelliere che sottoscrisse tutti gli atti italiani di Enrico III tra il 25 nov. 1046 e l'11 maggio 1047. Nel sec. XI fu infatti prassi seguita spesso dagli imperatori eleggere come arcivescovi di Ravenna propri funzionari: cancelliere imperiale era stato infatti Unfrido, cosi come lo sarà poi Wiberto, prima di succedere allo stesso Enrico.
Appena eletto, E. ottenne varie donazioni dall'imperatore Enrico III, che inoltre gli confermò tutti i beni posseduti dalla Chiesa ravennate. Ampliò poi i possedimenti dei monasteri ravennati di S.Giovanni Evangelista e di S.Andrea: al primo donò la chiesa di S. Biagio sull'Argentario, al secondo i beni già appartenuti al monastero di S. Lorenzo coll'obbligo di recitare, il 14 marzo di ogni anno (giorno della sua consacrazione), il salterio e, dopo la sua morte, di fargli celebrare esequie in perpetuo. Tuttavia, E., durante fl suo ventennale pontificato, usurpò i beni della Chiesa romana, come avevano fatto i suoi predecessori, e, nonostante i buoni rapporti che sembra abbia avuto con Pier Damiani, eminente fautore della riforma promossa in quegli anni dai papi Leone IX, Niccolò II e Alessandro II, non si dimostrò certo un protagonista nel tentativo di ridare ordine e coerenza morale alla vita del clero ravennate.
Lo stesso Pier Damiani, infatti, pur dedicandogli il suo Liber gratissimus, scritto nel 1051 per difendere le ordinazioni "gratis datae simoniacis" e riaffermare ancora una volta la sua piena fedeltà alle decisioni sinodali del pontefice, in alcuni passi criticò l'atteggiamento dell'arcivescovo di Ravenna, dal quale, in merito alla questione, non poté ottenere, come scrisse, alcuna "scintillani salutationis". Nell'inverno del 1058, in occasione dell'elezione del nuovo papa, Pier Damiani, che nel frattempo era stato eletto cardinale vescovo di Ostia, fece un ulteriore tentativo per ricondurre E. dalla parte della riforma: cosi infatti sembra che si debba interpretare la lettera indirizzata allora all'arcivescovo di Ravenna, in cui Pier Damiani dipinge come un uomo di robusta educazione, di insospettabile carattere e generoso con i poveri il vescovo di Firenze, poi eletto papa con il nome di Niccolò II durante il concilio del 1059. E., da parte sua, non solo disertò questo concilio, ma riconobbe anche, due anni dopo, nel 1061 - quando a Roma, per l'acutizzarsi della lotta per le investiture, si verificò una doppia elezione pontificia - l'antipapa imperiale Onorio II (Cadalo vescovo di Parma), fornendogli il suo aiuto. Tale atteggiamento meritò ad E. varie ammonizioni da parte del suo antagonista, il papa riformatore Alessandro II, che nel 1065 non solo lo scomunicò (privandolo "omni sacerdotali et pontificali officio"), ma gli tolse anche la prerogativa del primato con una bolla che dichiarava l'arcivescovo di Aquileia principe della Chiesa e primo tra i metropoliti d'Occidente.
La scomunica di E., probabilmente, fu una diretta conseguenza della posizione tenuta in quegli anni dalla corte imperiale nei riguardi dello stesso Cadalo. Questi, infatti, dopo il concilio di Mantova (1064), venne definifivamente abbandonato da Enrico IV, che non condivideva più la sua intransigente posizione politica: un estremismo che, invece, fu ancora difeso da E., che non aveva partecipato al concilio mantovano; per questo motivo, all'arcivescovo ravennate, dopo il 1064, venne a mancare anche l'appoggio aperto del sovrano.
Tuttavia, le colpe per cui E. venne scomunicato dovevano essere assai gravi se lo stesso papa Alessandro Il giunse a scrivere al clero e al popolo ravennati, informandoli che il loro arcivescovo aveva molto offeso la Chiesa romana macchiandosi di crimini che nessuno, prima di lui, aveva commesso: aveva infatti osato far imprigionare un cardinale. Non è noto né chi fosse questo prelato, né in quale circostanza tale fatto sia avvenuto; tuttavia, vari elementi lasciano supporre che il cardinale imprigionato fosse Mainardo, vescovo di Silvacandida e abate del monastero di Pomposa (nel Ferrarese), il quale si era schierato dalla parte papale, e che tale avvenimento sia coinciso con il momento in cui fu più aspra la lotta tra le due fazioni.
D'altronde, che tra E. e Mainardo esistessero pessimi rapporti risulta anche comprovato da un documento databile al principio del 1071, in cui viene sancita la restituzione delle terre della fossa di Goro all'abbazia di Pomposa. Alla presenza, tra gli altri testimoni, del vescovo Lamberto di Bologna, il rappresentante imperiale confermava che le terre di Goro erano sempre state di pertinenza dell'abbazia pomposiana e che, quindi, dovevano essere restituite ai monaci. E. rispondeva che ciò era vero, ma aggiungeva che egli non aveva ancora restituito le terre ai monaci - cosa, del resto, che gli era già stata ordinata da Enrico IV nel marzo 1066 - proprio a causa di Mainardo, che lo aveva sempre òdiato e considerato nemico.
La restituzione del 1071 dimostra che E., nonostante il diminuito favore del re tedesco nei suoi confronti e la conseguente scomunica del 1065, poté continuare a reggere l'arcidiocesi di Ravenna. Ad intercedere per lui, soprattutto dopo la scomunica, era stato Pier Damiani con una lettera inviata ad Alessandro II (che L. Gatto ritiene sia stata scritta tra la fine del 1070 e l'inizio del 1071), in cui chiedeva pietà e perdono per l'arcivescovo ravennate. L'atteggiamento di Pier Damiani, desideroso che i fedeli di Ravenna non avessero a soffrire in conseguenza di colpe altrui, appare conciliante e deve avere indubbiamente contribuito a mitigare i contrasti esistenti tra Alessandro II, Mainardo di Silvacandida e lo stesso E., che, consapevole di non essere più sostenuto dalla corte tedesca, ormai non più apertamente legata a Cadalo, deve aver scorto in questa possibilità l'unico mezzo per riottenere la dignità arcivescovile perduta con la scomunica. Tuttavia la posizione antiromana di E., seppur attenuata dopo l'intervento pacificatore di Pier Damiani, non mutò molto: egli, infatti, fino alla morte, avvenuta nell'anno 1072, rimase legato a Cadalo. Il 20 febbraio 1073 appare per la prima volta come arcivescovo di Ravenna, eletto ma non ancora consacrato, Wiberto, il futuro antipapa Clemente III.
L'episcopato di E., insieme con quello dei suoi predecessori Widgero e Unfrido, secondo il giudizio della recente storiografia, ebbe l'effetto di deteriorare le relazioni di Ravenna sia coll'Impero sia col Papato. I tre arcivescovi contribuirono al rapido declino della città non solo come sede preminente del regnum, ma anche come centro della metropoli ecclesiastica, sia nei riguardi della sede ambrosiana, sia nei riguardi delle altre sedi vescovili della regione; inoltre essi vanificarono l'azione che, a favore della sede di Ravenna, era stata svolta dal 1027 al 1044 dall'arcivescovo Gebeardo. Quest'ultimo, specie negli ultimi anni del suo episcopato, pur restando fedele al sovrano, aveva saputo assecondare l'azione riformatrice del clero, favorendone la vita in comune presso la cattedrale e avviando stretti rapporti di protezione e di collaborazione coi monasteri riformati, in particolare coll'abbazia di Pomposa.
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