DELLA FRATTA, Enrico
Nato da nobile ed antica famiglia bolognese, divenne vescovo della sua città nel novembre del 1213. Proveniva da funzioni di curia: era stato canonico della cattedrale - la prima menzione è del 13 marzo 1197 -, poi arcidiacono, sicuramente dal 1203, ma sembra già nel 1200, fino al 6 nov. 1213. Certamente in questi anni aveva dato prova di energica abilità amministrativa, sorretto forse da un'età abbastanza giovane.
Il suo lungo ed importante episcopato - dal 26 nov. 1213, in cui appare già eletto, fino al febbraio (12 o 22) 1240 - cadde in un periodo assai denso di problemi ed avvenimenti rilevantissimi per la città e tutta l'area padana: l'espansione e la fase finale della conquista del contado da parte del Comune cittadino a danno proprio delle terre e della giurisdizione della Chiesa diocesana, la rivoluzione sociale e politica del 1228 che aprì le porte al Comune di popolo; lo sviluppo dello Studio, danneggiato dall'esodo di maestri e scolari a Padova nel 1222 e dalla fondazione a Napoli di un nuovo centro di studi universitari per iniziativa imperiale nel 1224, l'avvento e l'impianto degli Ordini mendicanti (domenicani e francescani) ed infine la seconda lega lombarda e la città in guerra contro Federico II. Il D. non rimase travolto dagli eventi, anzi riuscì a dominarli, alternando momenti di fermezza e di dura intransigenza a momenti di trattativa aperta, ottenendo in tale modo, attraverso una costante e dinamica attività diplomatica, apprezzabili risultati.
Il problema forse più grave del suo episcopaio, che dovette affrontare fin dagli inizi e che condizionò negativamente per circa un ventennio le relazioni con l'istituzione comunale, era rappresentato dalla questione della giurisdizione civile e criminale su alcune terre e castra (San Giovanni in Persiceto, Anzola, Castel del Vescovo, Massumatico, Poggio di Massumatico, Dugliolo, Fiesso, Ozzano, Montecavalloro, Castel d'Argile), che erano stati ed ancora continuavano ad essere rivendicati come proprietà vescovile. La soluzione definitiva della lite, che per il condizionamento di situazioni e fatti interni ed esterni non ebbe a ndamento lineare, ridimensionò il vescovo di Bologna nei suoi poteri temporali su quelle terre del contado, ma, di contrappeso, consolidò nella città la sua posizione di prestigio anche civile e politico, dimostrando in più occasioni di essere e di svolgere una funzione imprescindibile - e non solo Mediatrice - per la politica soprattutto "estera" del Comune.
Il conflitto ebbe origine dalla volontà del Comune di assoggettare gli abitanti dei possessi vescovili, non più soltanto ai normali oneri reali e personali, ma alla propria giurisdizione civile e criminale; e parimenti dalla volontà di insediare in quelle terre podestà e funzionari propri. Il momento e l'occasione fanno pensare a un colpo di mano. Infatti nel novembre del 1215 - quando il podestà di Bologna si appellò ripetutamente al papa (2 e 22 novembre) di fronte alle minacce di scomunica e d'interdetto proferite dal vicario episcopale Oddone, per aver fatto arrestare ed inquisire un clericus accusato di omicidio in San Giovanni in Persiceto - il D. era assente dalla città avendo accompagnato l'arcivescovo di Ravenna Ubaldo al IV concilio lateranense. La disponibilità del podestà si limitava ad un confronto e ad una ricognizione dei diritti contrapposti, di proprietà e di giurisdizione, su quelle terre: niente di più. Ma per la fermezza del D. e per i reciproci veti sulla nomina dei giudici che avrebbero dovuto risolvere la questione, la controversia si trascinò fino a tutto il 1217 senza effetti risolutori, anche se ci furono tentativi concordi su alcuni aspetti particolari e limitati.
Nei due anni successivi intervenne un nuovo motivo di tensione: i Bolognesi avevano rioccupato gli ex possessi matildici di Medicina e Argelato, confermati da Onorio III a Salinguerra Torelli, signore di Ferrara, nell'aprile del 1217. Nonostante la scomunica papale alla città e ai Bolognesi, notificata e dichiarata dal D. a metà del 1218, soltanto nel 1219 il cardinale legato Ugolino d'Ostia riuscì ad ottenerne la restituzione.
Nel 1220 un caso di omicidio avvenuto nella località Baulini e inquisito dagli ufficiali comunali riproponeva l'antico dissidio. Questa volta, tuttavia, il D. poteva contare sull'appoggio di Federico Il che, in viaggio verso Roma per essere incoronato imperatore, gli confermò, con diploma del 25 nov. 1220 la piena giurisdizione sulle terre contese.
I buoni rapporti instaurati dal D. con Federico II in questo periodo costituiscono un aspetto importante della politica del vescovo bolognese. Sempre nel 1220 il D. aveva sostenuto le iniziative di pace in Emilia-Romagna del legato imperiale e aveva contribuito a che Bologna restituisse il comitato e il castello di Imola in cambio dell'abrogazione del bando imperiale. Per questo motivo Federico II gli rivolse il 25 nov. 1220 parole di grande riconoscenza e stima (cfr. Huillard Bréholles, II, 1, p. 27). Il D. era allora un devoto dell'Impero, amico di Mainardino, il fedelissimo vescovo di Imola. E per ben due mesi (30 settembre-io dic. 1220) era rimasto al seguito di Federico II, da Spilamberto a Monterosi presso Sutri, comparendo come teste nei diplomi imperiali, e certamente presenziò alla solenne incoronazione in S. Pietro a Roma il 22 novembre. Nel gennaio successivo lo ritroviamo a Ravenna presso il legato Corrado von Scharfeneck vescovo di Metz.
L'attività diplomatica svolta dal D. a favore di Federico II produsse i suoi frutti non solo nel menzionato diploma del 25 nov. 1220, ma anche nella concessione con cui, il 23 genn. 1221, il legato imperiale Corrado di Metz, attribuiva al D. e ai suoi successori l'esercizio della giurisdizione volontaria sui possedimenti del vescovato. Peraltro, i buoni rapporti con l'imperatore rafforzarono anche la posizione del D. nei riguardi del Comune. Ed in effetti, di fronte ai privilegi ottenuti dal D., il Comune si mostrò più arrendevole e riallacciò con il proprio vescovo rapporti assai più distesi, anzi di reciproca collaborazione. Lo testimonia, ad esempio, il fatto che il D. fu chiamato a farsi garante della pace concordata fra nobili e popolo il 28 luglio 1221.
Tuttavia, nonostante la fedeltà più volte dichiarata all'imperatore e le ottime relazioni che manteneva con lui (il D. fu al seguito di Federico II nel marzo 1226 presso Rimini), il D. non si schierò dalla parte di questo quando, proprio nel 1226, iniziò la guerra con i Comuni, ma piuttosto seguì i programmi di politica papale filtrati dalle iniziative dei legati. La posizione da lui assunta nel conflitto favorì il consolidamento dei buoni rapporti con il Comune: sempre nel 1226 il D. mise a disposizione dei rettori della lega il palazzo episcopale, nell'intento di mediare una pace; nel dicembre dello stesso anno concesse al podestà di far celebrare la messa nel palazzo pubblico; il 18 nov. 1229 trattò e fu garante della pace giurata fra Bolognesi e Modenesi; e successivamente, rinunziando ai diritti giurisdizionali su Castel Leone, consegnò al podestà la pietra benedetta della futura pieve di S. Giacomo, della quale il Comune sarebbe stato patrono.
I rapporti con il Comune si incrinarono improvvisamente verso la fine del 1230. Non sembra ci fossero "casi" nuovi, oltre gli omicidi avvenuti in Persiceto e a Dugliolo, ma il pieno appoggio di Gregorio IX - espresso nella lettera al legato di Lombardia e nella lettera di nomina del giudice papale della lite, entrambe del gennaio 1231 - alzò i toni della contesa a forme assai più aspre delle due volte precedenti. Per tutta risposta il Comune di Bologna nominò nelle terre in questione dei propri ufficiali, sottopose a giuramento i funzionari ecclesiastici con uso di violenze e multe, emanò degli statuti secondo i quali nessun laico poteva accettare cariche dal clero, ed impedì la riscossione delle decime. Il vescovo colpì di scomunica e d'interdetto gli abitanti e la città agli inizi di settembre e se ne andò in esilio volontario a Reggio, dove restò per circa dieci mesi. Solo dopo l'intervento papale, che ordinava agli scolari dello Studio di trasferirsi in massa per quattro mesi (2 giugno-29 sett. 1232), si accelerarono i tempi della riconciliazione, la cui definizione venne affidata il 19 apr. 1233 al personaggio più prestigioso del momento, il domenicano Giovanni da Vicenza, animatore del movimento dell'Alleluia ed artefice della famosa pace di Paquara dell'agosto successivo.
Una prima sentenza letta il 31 maggio nella piazza del Mercato - forse alquanto favorevole al vescovo - risultò interlocutoria e venne cassata dal patto definitivo del 20 giugno. Il lodo arbitrale del domenicano, ricordato dagli Statuti (Statuti, a cura di R. Frati, 11, p. 164) e trascritto nel Registro grosso e nel Registro nuovo (Arch. di Stato di Bologna, I, ff. 1, 514; 353v, 354v), sembra proporre un compromesso articolato e dettagliato, ma del tutto vantaggioso per il Comune. Non si conoscono le ragioni che indussero il D. ad accettarlo e ad osservarlo. La proprietà delle terre della Chiesa bolognese non era messa in discussione: la giurisdizione penale e criminale - eccetto casi lievi - passava al Comune; venivano fissati i criteri di giurisdizione congiunta e separata secondo una casistica dettagliata di crimini; il vescovo conservava la giurisdizione civile in San Giovanni Persiceto, Anzola, Castel del Vescovo, Poggetto, Massumatico e Dugliolo; queste Comunità Potevano continuare ad eleggersi i propri ufficiali nel modo consueto, purché giurassero obbedienza al Comune e sottostassero a tutti gli oneri e doveri dei comitatini; nelle altre terre anche la giurisdizione civile passava al Comune, che si rendeva garante e tutore della pace. Con tale patto si chiusero le polemiche. L'arrendevolezza del D. va forse ricercata nelle mutate condizioni politiche interne, nell'ascesa del Comune di popolo, nell'ormai da tempo inesistente appoggio dell'imperatore, nel programma di Gregorio IX di portare al governo delle città padane un partito favorevole alla Chiesa sulla scia del grande consenso popolare riscosso dalle campagne di predicazione dei francescani e domenicani.
Non meno importanti sembrano le linee di politica ecclesiastica del D. e le iniziative pastorali e culturali da lui prese in favore del clero e dei fedeli. Intanto fu investito dai papi, soprattutto da Onorio III, di numerosissimi incarichi diplomatici, deleghe, poteri arbitrali, sia a fianco del card. legato Ugolino d'Ostia, sia in completa autonomia. L'intensa attività del D. per conto della S. Sede, che testimonia la fiducia riposta in lui dai pontefici e il riconoscimento delle sue capacità, e che non può essere qui ricordata in dettaglio, non semplificò e ridusse i momenti di tensione che con essa ebbe, in merito soprattutto all'elezione e alle mansioni dell'arcidiacono. La nomina del magister Grazia, cappellano papale, imposta da Onorio III incontrò molte resistenze, anche nello stesso D., perché non era bolognese né aveva fatto parte del capitolo: la designazione per la seconda autorità ecclesiastica stava sfuggendo al controllo locale. 1 ripetuti interventi del papa nel marzo-aprile 1219 a favore dell'arcidiacono denunciano un'aperta ostilità alla sua amministrazione e giurisdizione in città e nel contado. Furono necessarie le minacce, che giunsero perentorie con la lettera del 22 apr. 1219. Per di più, la nuova attribuzione di autorità all'arcidiacono della Chiesa bolognese nel conferire la licentia docendi, previo diligente esame (28 giugno 1219) - intervento che vincolò lo Studio e le lauree all'approvazione e legittimazione ecclesiastica - accrebbe forse i contrasti e le gelosie. Le rimostranze del D. e del capitolo condussero a un chiarimento definitivo (13 giugno 1221) sul potere del vescovo e dei canonici di eleggere e di supplire l'arcidiacono. E quando il 31 genn. 1226 - oltre un anno dacché Grazia, sul finire del 1224, era divenuto vescovo di Parma - Onorio III elesse d'ufficio il successore nella persona del canonico Tancredi, famoso decretista e decretalista, lo fece non per usurpare un diritto, ma per chiudere una troppo lunga vacanza e sanare un dissidio fra vescovo e capitolo che era motivo di scandalo.
I rapporti con il clero, con i vecchi Ordini, non sono sufficientemente decifrabili, mentre l'insediamento dei nuovi Ordini mendicanti offre maggiori testimonianze delle reazioni del vescovo. Nella primavera del 1219, dopo mesi di gran povertà e disagio nell'ospizio di S. Maria della Mascarella, i domenicani ottennero dal D. la chiesa e la canonica di S. Nicolò delle Vigne "ad preces" del cardinale legato Ugolino. Le perplessità del D. neppure troppo velate nei primi tempi sorgevano da un atteggiamento quasi sempre sospettoso e diffidente; per cui furono necessarie pressioni esterne o addirittura imposizioni papali. La licentia a costruire il monastero femminile di S. Agnese in Valsampietro fu concessa dopo un precedente diniego per un luogo ritenuto troppo vicino alla città. I timori e forse i contrasti non vertevano su questioni logistiche, ma ecclesiologiche e pastorali: i mendicanti erano degli intrusi che complicavano i rapporti con il clero secolare e con i fedeli. In un secondo tempo il D. cercò di dotarli patrimonialmente - il rogito della donazione, rifiutata poi da Domenico in nome della povertà, di Oderico Galliciani di proprietà per un valore superiore a 500 lire di bolognini fu redatto alla presenza del D. con l'intenzione di non avere dei mendicanti sradicati, ma una forza diocesana ausiliaria al clero; e cercò d'intervenire nell'elezione del priore di S. Nicolò (1227), attirandosi il rimprovero di Gregorio IX. Ciò nonostante, nel 1233, ma in seguito a una crescita inarrestabile della comunità bolognese per prestigio e per numero, presenziò alla traslazione delle ossa di Domenico e richiese al papa con lettera e ambasceria la canonizzazione del fondatore dei predicatori. Non molto diversamente avvenne per i francescani, presenti a Bologna in S. Maria della Pugliola fuori porta Galliera e trasferitisi fra il 1235 e il 1236 in S. Maria Annunziata a porta Stiera, in seguito alle pressioni esercitate sul D. dal pontefice.
Non va sottaciuto l'impulso dato dal D. allo studio e alla preparazione teologica del clero in ottemperanza alle precise direttive del IV concilio lateranense (cari. II). Fra il 1219 e il 1220 egli scrisse al maestro Aicardo, arcidiacono della Chiesa di Reggio, perché si recasse ad insegnare a Bologna. Non conosciamo la risposta, né se mai venne; ma una lettera di Onorio III del 1220 al vescovo e al capitolo, in cui il papa esorta con fermezza ad incrementare tale studio e proibisce che a tal fine si vada a Parigi, ci suggerisce la persistenza di notevoli difficoltà.
L'edilizia religiosa fu un altro settore in cui il D. intervenne con determinazione: a ragione si può dire che egli fu un grande promotore nella costruzione di nuove chiese. Intorno al 1220 fece restaurare la parte nord dell'episcopio, e fra il 1220 e il 1223 fece costruire da maestro Ventura la celebre porta dei Leoni sul fianco sud della cattedrale, sormontata da un'ingente pietra marmorea con le immagini scolpite del Salvatore e degli apostoli Pietro e Paolo. Fece ricostruire il tetto della cattedrale, crollato durante il terremoto del Natale 1222. Fra le nuove chiese da lui consacrate o iniziate, di cui ci resta notizia, ricordiamo: S. Leonardo (1217), S. Martino dell'Aposa (1217), l'oratorio di S. Maria degli Alemanni (1221), S. Maria di Reno (1221), S. Domenico (iniz. fra il 1221 e il 1228), S. Maria del Monte della Guardia (poco prima del 1223), chiesa e monastero di S. Maria dell'Umiltà (1230), chiesa del castello di Samoggia (1230), S. Giacomo di Castel Leone (1230), chiesa e monastero delle clarisse di S. Francesco (1231), S. Francesco (iniz. 1236).
Gli ultimi anni del lungo episcopato del D. trascorsero quasi nel silenzio e si chiusero con la rinuncia volontaria nel febbraio 1240 ed il ritiro in S. Vittore. Ivi morì il 31 maggio 1241 - la data, fra le tante avanzate, sembra la più attendibile - e fu sepolto nella stessa chiesa. Nella cattedrale furono celebrati solenni funerali.
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