ENRICO da Ceva
Di questo frate minore, probabilmente originario di Ceva (Cuneo), non si conoscono dati anteriori al secondo decennio del sec. XIV né si sa quale esito abbia avuto la vicenda avventurosa che lo vide allora a capo di uno sparuto gruppo di spirituali rifugiatosi in Sicilia.
Il 14 apr. 1310 Clemente V aveva convocato ad Avignone, con la bolla Dudum ad apostolatus, i rappresentanti dell'ala francescana più rigorista - gli spirituali, che sostenevano la necessità di una stretta adesione all'insegnamento di s. Francesco - e quelli della Comunità, che costituivano la maggioranza dell'Ordine ed erano favorevoli alla "secolarizzazione" dell'Ordine stesso, ad una sorta cioè di compromesso tra le primigenie istanze e la realtà contingente in cui la Chiesa sempre più spesso li chiamava ad operare. Il pontefice, in tal modo, cercava una possibile composizione del dissidio che ormai da diversi anni lacerava l'Ordine dei minori e tentava di tutelare, in attesa di ciò che avrebbe sancito in proposito il concilio convocato a Vienna per il 1º d'ottobre dell'anno successivo, la minoranza rigorista dalle rappresaglie e persecuzioni di cui era fatta oggetto. La discussione, che aveva visto schierati contro le gerarchie dell'Ordine uomini della tempra di un Ubertino da Casale, si era protratta a lungo, in un acceso dibattito combattuto a colpi di opuscoli e memoriali, ma non era riuscita a pervenire ad una vera soluzione del problema. In Toscana, nonostante questa iniziativa papale, la Comunità aveva continuato ad attaccare gli spirituali, al punto da provocare, all'inizio del 1312, una loro violenta reazione con l'occupazione dei conventi di Arezzo, Asciano e Carmignano, nei quali si rifugiarono un'ottantina di frati ribelli, provenienti da varie parti d'Italia e dalla Provenza.
Fra costoro doveva esserci E., dal momento che, insieme con fra Giacomo da San Gimignano, egli risulta l'autore di una supplica presentata al re di Trinacria Federico III d'Aragona affinché consentisse loro di rifugiarsi con i compagni nel suo regno. E., e con lui circa una quarantina di confratelli, temendo la reazione dell'Ordine e le iniziative promosse da Clemente V per sedare la rivolta, lasciata la Toscana, aveva già cercato rifugio in Sicilia fin dalla seconda metà del 1312. Il 15 luglio di quell'anno, infatti, Clemente V incaricò i vescovi di Bologna e Lucca e l'arcivescovo di Genova di intervenire contro i ribelli di Toscana; a sua volta l'inquisitore toscano, il minore Grimoaldo da Prato, minacciò i ribelli di censure ecclesiastiche.
L'appello di E. e di fra Giacomo da San Gimignano a Federico può essere considerato come il manifesto del gruppo ribelle: le enunciazioni di principio non riguardano argomenti teologici ma si limitano ad esaltare la diversità tra il modusvivendi spirituale e quello degli altri francescani. E. ed i suoi sottolineano come la loro unica colpa sia quella di professare una letterale adesione alla regola di s. Francesco, in contrapposizione a coloro che, per le mutate condizioni storiche e per il ruolo assunto dall'Ordine in seno alla Chiesa, considerano legittimi il possesso indiviso dei beni, sancito dal secondo concilio di Lione del 1274, l'aspirazione a benefici e riconoscimenti, il conseguimento di posizioni di rilievo all'interno della gerarchia ecclesiastica.
Non priva di ragioni era la scelta, come rifugio, della Sicilia. La lotta che aveva contrapposto l'Aragonese agli Angiò e a Bonifacio VIII aveva fatto si che su Federico si fossero appuntate le simpatie e le speranze sia di coloro che auspicavano una riforma della Chiesa sia di coloro che speravano in un recupero delle fortune ghibelline: Dolcino da Novara aveva indicato in Federico III il futuro imperatore che avrebbe sterminato il clero corrotto, e la figura dell'Aragonese alimentò anche talune speranze dei beghini provenzali. Che l'isola fosse un luogo abbastanza sicuro ppr i seguaci di E. è comprovato dalla corrispondenza intercorsa in proposito tra il generale dell'Ordine, Alessandro Bonino da Alessandria, e il re d'Aragona Giacomo II, fratello di Federico.
Il 13 nov. 1313 fra' Alessandro invitò il re aragonese a far desistere il fratello dal dar ricetto ai ribelli; Federico, in risposta al messaggio, trasmessogli da Giacomo l'11 febbr. 1314, dichiarò di aver fatto esaminare i frati ribelli da teologi ed esperti di diritto canonico e civile, facendo rilevare come non si fosse potuto ravvisare alcunché a loro carico. Né miglior esito ebbero i successivi appelli di fra Alessandro a Giacomo (1º agosto) e di questo a Federico (25 settembre).
E. ed i suoi riuscirono quindi a godere in Sicilia di una certa tranquillità, tanto da poter annodare rapporti con altri gruppi rigoristi, quali gli spirituali di Provenza, come risulta dall'interrogatorio di una nipote di Pietro di Giovanni Olivi, Alarassi Biasse, inquisita nel 1325 a Carcassonne da Jean Du Prat e Jacques Fournier.
Nel 1316, con l'elezione al soglio, pontificio di Giovanni XXII, la situazione mutò radicalmente. Se Clemente V era stato abbastanza accomodante, evitando un'aperta condanna dei ribelli e favorendo un'azione di recupero attraverso l'oculata diplomazia di fra' Alessandro, con Giovanni XXII la posizione degli spirituali - ed anche quella di Federico III - divenne drammaticamente pericolosa. Il nuovo papa, infatti, nel 1317, intervenne personalmente presso il sovrano siciliano, con lettere del 15 marzo e del 5 aprile, diffidandolo dal continuare a dar ricetto ai ribelli. Federico, costretto a tutelarsi, sarebbe riuscito, mediante un accordo stipulato con l'emiro di Tunisi, a far passare in terra africana gli spirituali - si parla di un fra Giacomo e di un frate Enrico giunti a Gerba, ben accolti e tollerati a patto che non facessero opera di proselitismo -, mentre altri trovarono rifugio in Calabria e in Armenia.
Sempre che l'esodo africano sia da considerarsi realmente avvenuto e non piuttosto un espediente addotto dall'Aragonese per tacitare il pontefice senza peraltro dargli piena soddisfazione, esso non fu comunque sufficiente a tranquillizzare Giovanni XXII, che il 30 dic. 1317, con la Sancta Romana, condannò, senza distinzione di sorta, tutti gli spirituali e, il 23 genn. 1318, con la promulgazione della GloriosamEcclesiam, esplicitamente condannò e connotò d'eresia i minori transfughi dalla Toscana ed esuli in Sicilia: quei minori, appunto, che, stando alla stessa Gloriosam, avevano nominato loro generale proprio E., avevano eletto guardiani e custodi, e, insomma, s'erano sostanzialmente ed illegalmente costituiti in Ordine autonomo.
Nella Gloriosam Ecclesiam si ripercorre tutta la vicenda a partire dalla secessione toscana; si stigmatizzano i ribelli per aver considerato il loro capo E. "magis idolum quam praelatum"; si descrive l'abito assunto dai ribelli, peraltro assai simile a quello adottato da altri spirituali, cioè "quosdam habitus cum parvis caputiis, curtos, strictos, inusitatos et squalidos". Ma per il pontefice l'essersi costituiti in Ordine religioso autonomo e l'aver adottato un abito diverso da quello della Comunità sono solo aggravanti. Ben altri sono i veri "errori" che consentono di bollare come eretici E. e i suoi seguaci: il sostenere l'esistenza - e la netta distinzione - di due Chiese, una carnale, presieduta dal papa, ed una spirituale; il ritenere che i ministri della Chiesa carnale non possano amministrare i sacramenti né predicare al popolo; il considerare grave peccato il giuramento; il negare la validità dei sacramenti amministrati da sacerdoti indegni; il credere che solo E. ed i suoi vadano attuando, con la loro prassi di vita, il vero insegnamento del messaggio evangelico.
Addirittura superfluo è rilevare come codesti "errori" siano manifestamente mutuati da altre eresie: dalla distinzione, tipicamente beghina, tra "Ecclesia carnalis" ed "Ecclesia spiritualis", al caratteristico divieto evangelico-valdese del nolite iurare, fino al rifiuto, frutto di una consolidata e diffusa mentalità nata dal filone patarinico, dei sacramenti amministrati da ministri indegni. Quanto di codeste tematiche fosse realmente accettato tra i seguaci di E. e quanto piuttosto esse non siano il prodotto di un'accusa forzata ed inevitabilmente ricorrente a schematizzazioni usuali, non ci è purtroppo possibile appurare a causa della totale mancanza di fonti che documentino il pensiero di Enrico da Ceva. Non sembra comunque eccessivamente azzardato il supporre che, in realtà, la "devianza" di E. e dei suoi fedeli rientrasse in un'estremistica impostazione dell'ususpauper, tutt'al più arricchita da accenti forse mutuati dall'ambiente provenzale grazie ai rapporti intercorsi con quest'ultimo e fermentanti in tutta l'arca spirituale.
La conclusione della Gloriosam Ecclesiam è, comunque, un perentorio invito a Federico "ut huiusmodi viros pestiferos et seminatores errorum de praedicta insula expelleret et penitus extirparet".
Nella sua drastica e ufficiale solennità la bolla GloriosamEcelesiam diGiovanni XXII appare l'atto definitivo che, configurando come eretici i ribelli, attraverso accuse artatamente dilatate, servi forse a togliere ogni velleità agli spirituali siciliani, anche se non riusci a soffocare le aspirazioni rigoriste all'interno dell'Ordo minorum. Certo è che da questo momento il nome di E. riapparve soltanto in epoca successiva, nel corso dei processi contro i beghini di Provenza, durante i quali, già a pochi anni di distanza dalla Gloriosam Ecclesiam, si avverte un radicale mutamento di rapporti tra l'ambiente strettamente beghino e quello degli spirituali siciliani; E., infatti, viene menzionato quale futuro pseudo-papa voluto da Federico III per preparare l'avvento dell'Anticristo, come risulta dal processo contro Bernardo di Jacma. Una connotazione negativa difficile da comprendere alla luce sia delle simpatie dimostrate dal re di Trinacria per l'ambiente spirituale in genere, sia dei rapporti che sembrano essere intercorsi tra seguaci di E. e beghini. Essa conferma, ad ogni modo, sia pure indirettamente, che l'avventura di E. si era allora ormai consumata ed era connotata come una sconfitta: come tale - come il crollo cioè dell'ultima resistenza degli spirituali - la avverti lo stesso Angelo Clareno che, se in un primo momento aveva violentemente stigmatizzato, dissociandosene, la ribellione toscana, poi, nella Historia septem tribulationum, mitigando il suo giudizio, trovò per E. e i suoi compagni parole di affetto e compassione. Probabilmente ad E. e ai suoi seguaci si riferiva ancora Gregorio XI quando, nel 1372, condannò la venerazione, in terra siciliana, dei resti "quorumdarn de fraticellorum … de Paupere Vita".
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