SCATIZZI, Emilio Sergio
– Nacque a Gragnano (frazione del comune di Capannori, in provincia di Lucca) il 20 ottobre 1918 da Elio e da Elisa Lenci, una coppia di agricoltori, e trascorse la giovinezza in Valdinievole, nella campagna lucchese.
Dopo un soggiorno di un anno a Napoli, nel 1936 si trasferì a Roma. Qui, nelle pause dal lavoro come portiere d’albergo, cominciò a frequentare il poeta Libero De Libero e, attraverso lui, ebbe modo di conoscere lo scrittore Giovanni Comisso e i pittori Filippo De Pisis, Mario Mafai, e i tonalisti della Scuola romana.
Nella formazione del giovane autodidatta fu determinante il primo viaggio a Parigi, del 1936, non meno dei successivi: dalle frequentazioni parigine nacque in Scatizzi la passione per Claude Monet e per la pittura di Chaïm Soutine. Accanto a questi grandi modelli, fra i contemporanei, il giovane mantenne intatto il fascino per la pittura vibrante di De Pisis, che rimase a lungo nella sua sensibilità, cosicché, tornando nel 1938 da Roma in Valdinievole, a Montecatini, dipinse i primi paesaggi, le prime nature morte di fiori e alcuni ritratti ad acquerello, recanti l’impronta della pittura del maestro.
La stagione fervida delle scoperte venne travolta dalla guerra: nel 1941 Scatizzi fu chiamato alle armi nel 6° autocentro di Bologna, e in questo periodo ebbe la possibilità di conoscere Giorgio Morandi; successivamente venne inviato in missione nei Balcani, fino al 1943: da quell’anno si rifugiò nella campagna nativa ad aspettare la fine del conflitto. Ritrovando la pace, l’artista si abbandonò al genere del paesaggio: nacque una serie di piccole tavolette di vedute di città (Lucca, Montecatini, Pisa), oggi in gran parte disperse. Nel dopoguerra, Scatizzi si unì al gruppo dei pittori pistoiesi ed espose in varie collettive a Pistoia e a Montecatini.
Nel 1948 compì un nuovo viaggio a Parigi con Giovanni Comisso, e qui incontrò nuovamente De Pisis, in rue Bonaparte, nell’appartamento che quest’ultimo divideva con il pittore Onofrio Martinelli. Tornato a Montecatini, Scatizzi si adoperò per la realizzazione del premio di pittura Montecatini, uno dei primi organizzati nell’Italia del dopoguerra. Sempre a Montecatini, tenne la prima personale di paesaggi alla libreria Ariel, nel 1949, presentato dal pittore pistoiese Alfiero Cappellini.
Nel dopoguerra, sentì la necessità di tornare a Roma, dove l’amico De Libero dirigeva la galleria La Cometa che ospitò con successo una sua mostra, a cui altre fecero seguito alla galleria La Nuova Pesa, e quindi alla Salita, alla Medusa, alla Gradiva, in un’attività frenetica che culminò nel 1950 con l’invito alla XXV Biennale di Venezia e con la vittoria del primo premio di pittura Bagni di Lucca, la cui giuria era presieduta da Carlo Carrà.
Dal 1951 cominciò a frequentare Firenze e lo studio di Ottone Rosai: «Venni a Firenze per fare una mostra alla galleria Spinetti. Fu visitata da Rosai che mi dimostrò una grande simpatia» (Intervista a Scatizzi, 2006, p. n.n.). Nel 1955 tenne la sua prima personale alla galleria Spinetti, presentato dal rosaiano Nino Tirinnanzi, e quindi si trasferì definitivamente a Firenze. Nello stesso anno fu invitato da Carlo Ludovico Ragghianti a esporre nella mostra «Sessanta maestri del prossimo trentennio», a Prato, dove presentò quattro paesaggi a olio nei quali appariva una nuova e spiccata sensibilità per la materia.
Fu l’occasione per Ragghianti di proporre l’abbandono delle obsolete categorie critiche: dunque «né avanguardia né retroguardia»; piuttosto Ragghianti preferiva discorrere di «materia pittorica, di struttura e composizione, di taglio dell’immagine, semmai di travaglio, di tormento, o inquietudine o ferita o compressa irruenza», secondo suggerimenti che certo s’incontrarono con le inclinazioni di Scatizzi (Ragghianti, 1955, pp. 15 s.).
Si confermava frattanto nel pittore un’attenzione particolare per la poesia contemporanea, che lo avrebbe accompagnato lungo la vita intera, sulle tracce di maestri elettivi e compagni di strada: dopo l’interesse per De Libero e Comisso, ecco la passione per la lirica di Sandro Penna, e per la pagina di Aldo Palazzeschi – il primo a scrivere con pregnanza per Scatizzi –; ecco, infine, poeti e letterati reduci dall’esperienza ermetica di Il Frontespizio, tra i quali Carlo Betocchi e Alfonso Gatto, che avrebbero dedicato poesie e presentazioni all’amico pittore; e ancora Luigi Baldacci, sensibile esegeta della pittura e raffinato critico letterario.
«Scatizzi è amico di poeti e letterati; da sempre. Forse è un modo di essere» – appuntava Raffaele Monti, allievo di Ragghianti. «Piace ai poeti, perché totalmente pittore» (Monti, 1979, in Ragghianti, 1982, p. 71). Il serrato colloquio di artisti e poeti trovava infatti nella Firenze del dopoguerra un proprio baluardo nella concezione ermetica della poesia, come avevano indicato le pagine del Frontespizio.
Con queste premesse Scatizzi espose nel 1956 alla galleria L’Indiano, avviando un decennio di stretta collaborazione con il direttore Piero Santi, che in quegli anni indicava la possibilità di mediare l’eredità emetica con la contemporanea sensibilità informale.
Frattanto, nel 1958, la fiorentina galleria La Strozzina, diretta da Ragghianti, invitò Scatizzi a esporre, presentato da Renzo Federici. A questa data Ragghianti riconosceva nella pittura di Scatizzi la forza inedita dell’impasto cromatico «saturo fino a traboccare, aggredito dalla spatola e dalla stecca, per tradurre un empito che confina con la violenza» (Ragghianti, 1982, pp. 9-11). Nella maniera informale si esprimevano in quegli anni, in Italia e oltre, trasporti neoespressionisti, effusioni irrazionali e abbandoni che Palazzeschi, nella mostra alla galleria La Navicella di Viareggio del 1958, e successivamente Comisso nel 1959, in una mostra alla galleria Il Fiore di Firenze, ricondussero per Scatizzi a un dramma interiore: «Ho riveduto in questo ultimo aprile i tuoi fiori, i tuoi paesaggi fiorentini, i tuoi ‘capricci’, le tue ‘cose’ come le avrebbe chiamate il nostro caro De Pisis; sono dipinte con lo stesso amore, con la stessa trepidante emozione; forse più disperata di un tempo questa pittura, qualcosa ti turba e ti spaventa» (Palazzeschi, 1958, p. n.n.).
Nell’affacciarsi del nuovo decennio nacque la serie dedicata alle Terre volterrane, esposta alla galleria L’Indiano nel 1961, poi nel maggio del 1962, con la lettura critica di Mario Bergomi, e quindi nel marzo 1963: per Ragghianti e il suo seguito questo apparve come il contributo più alto di Scatizzi alla via informale italiana.
Ripensando alle Terre volterrane, Ragghianti ne scrisse con trasporto: «Le stagioni, le ore, i vestiti erbosi, le acque, i livelli, le siepi, le balze, i sentieri incisi, nelle solitudini mute si dispongono come elementi di un cosmo appena investito dall’uomo col ritmo che l’unifica e lo ordina, stabilendo rapporti che appariranno invariabili e necessari, intesi come mitici e divini» (Ragghianti, 1982, p. 11).
Eppure, quando Scatizzi presentò queste opere a Firenze, al premio del Fiorino del 1963, le sue tele non vennero accolte nelle sale dedicate all’informale, secondo una scelta del curatore della sezione, Renato Barilli; piuttosto le Terre vennero inserite nella sezione Nuove tendenze di Lara Vinca Masini, responsabile dell’intera mostra, che vi riconobbe comunque una figurazione che pur si avvaleva dei mezzi informali. La pittura si era ormai staccata dai vincoli descrittivi, mentre la materia si modellava e stratificava, attraverso il disseccarsi dei colori, attraverso le rughe, le increspature, i grumi di pigmento, nei quali talvolta l’artista lasciava inciso il proprio nome. Certo quelle pitture apparirono troppo sentimentali nella Firenze anni Sessanta; per vederle ufficialmente apprezzate si dovette aspettare l’edizione del Fiorino del 1967, quando Scatizzi vinse il premio; e poi il 1969, quando uscì il primo scritto che Monti pubblicò sull’amico pittore, in parallelo alla mostra personale curata da Alfonso Gatto secondo la procedura che, nell’ambito del Fiorino, spettava ai vincitori dell’edizione precedente.
Il decennio era stato denso di occasioni espositive: dalle prime mostre alla galleria L’Indiano di Firenze, alla personale del 1965 alla galleria L’Argentario di Trento, con prefazione di Mario Valsecchi; dalla presenza alla IX Quadriennale nazionale di Roma del 1965, alle successive personali alla galleria L’Indiano, con presentazione del più anziano amico pittore Onofrio Martinelli.
Nasceva e si alimentava in quegli stessi anni l’amicizia duratura e profonda del pittore con i due allievi di Ragghianti, Monti e Pier Carlo Santini. Quest’ultimo scrisse dell’amico in occasione della mostra alla galleria lucchese Il Fillungo nel 1970 e nel 1971; nello stesso 1971 per la mostra alla galleria Medea di Milano; e in altre gallerie di Varese nel 1974 e di Bologna nel 1975; fino alla personale presso l’Accademia di belle arti di Carrara nel maggio del 1976. Dal canto suo Monti intervenne per Scatizzi, dopo la mostra antologica del Fiorino nel 1969, per la mostra alla galleria La Salita di Montecatini nel 1971, alla Gradiva di Firenze nel maggio 1972, alla galleria Lo Scalino di Roma nel 1976, nel 1979 per la galleria Michaud di Firenze e per Il Pozzo di Prato. Insieme, Monti e Santini presentarono nuovamente l’artista nel catalogo della mostra presso La Bussola di Torino nel settembre 1980.
Frattanto, negli anni Settanta, si era affermato il rifiuto della pittura a favore di espressioni concettuali. Per questo la pittura di Scatizzi assunse il senso di un minacciato avamposto, se non di imbarazzante retroguardia. In questo decennio Scatizzi lasciò lo studio di via Federighi trasferendosi nella casa studio di via Maggio, sorta di Wunderkammer di gusto palesemente seicentesco. Era infatti l’amore per la pittura barocca, per analogie e affinità del gusto, a questa data, il filo rosso che accomunava tra loro Monti, Piero Bigongiari, Baldacci e lo stesso Scatizzi. Fu in particolare il poeta Bigongiari a individuare nella passione per il Seicento fiorentino una ricerca che non corrispondeva ai canoni tradizionali, che cercava piuttosto l’ambiguità della bellezza, una bellezza non innocente, segnata dalla passione e dal senso della colpa, dalla nevrosi e dalla sublimazione. Negli anni Ottanta si avvertiva nell’opera di Scatizzi un’energia nuova, espressa mediante l’uso istintivo e come liberato della materia pittorica, con colori accesi, vigorose campiture a spatola, orizzonti dilatati, pur sempre ispirati dagli amati pittori barocchi. Così nell’ultima mostra dedicata all’artista ancora in vita, nell’autunno 2009, si lesse del Barocco informale di Sergio Scatizzi e, al termine del percorso espositivo, nel Quartiere d’inverno di palazzo Pitti, apparvero le cinque tele del Seicento più amate da Scatizzi provenienti dalla sua collezione personale, opere mirabili e saturnine di Giovanni Bilivert, Orazio Fidani, Felice Ficherelli, Cecco Bravo.
Era chiusa da pochi giorni la mostra, quando il pittore scomparve a Firenze, all’alba del 1° dicembre dello stesso 2009.
Fonti e Bibl.: C.L. Ragghianti, Prefazione, in Mostra di sessanta maestri del prossimo trentennio (catal.), a cura di M. Bellandi - G. Siciliano, Prato 1955, pp. 14-31; A. Palazzeschi, Presentazione, in S. S. (catal.), Viareggio 1958; C.L. Ragghianti, Mostre di arte contemporanea, in SeleArte, XIII (1965), 76, pp. 36 s.; R. Monti, S. S., in XIX Mostra nazionale premio del Fiorino (catal.), Firenze 1969; A. Gatto, Presentazione, in S. S. (catal.), Firenze 1971; S. S.: opere 1939-1976 (catal.), a cura di P.C. Santini, Carrara 1976; R. Monti, Ipotesi veneziane (catal.), Firenze 1979 (ora in C.L. Ragghianti, S. S., opere 1936-1982, Firenze 1982, p. 71); C.L. Ragghianti, S. S., opere 1936-1982, Firenze 1982; C. Del Bravo, Tre artisti nel 1988, in Artista, I (1989), p. 170; C. Falciani, Artisti del nostro Novecento: S. S., gli anni dell’informale, Firenze 1997; Intervista a Scatizzi, in S. S. (catal.), a cura di M. Beraldo - G. Trotta, Venezia 2006; Il barocco informale di S. S., opere 2000-2009 (catal., Firenze), a cura di G. Cantelli - S. Codemi, Livorno 2009; G. Uzzani, L’ipotesi della pittura, in Scatizzi. L’ipotesi della pittura (catal.), a cura di G. Uzzani, Lucca 2012, pp. 15-29.