CANALE, Emanuele
Uomo politico genovese di parte popolare, svolse un ruolo di primo piano negli avvenimenti che interessarono la Repubblica di Genova negli anni tra il 1505 e il 1507, al di fuori dei quali non si hanno notizie sulla sua vita, tranne che, negli anni antecedenti al 1505 svolgeva a Genova l'attività di notaio.
La sua famiglia partecipò attivamente, nella prima metà del '500, alla tumultuosa vita politica della città, sempre schierandosi contro i Francesi e gli odiati Fieschi, proveniente com'era dal popolo ricco dei mercanti e degli artigiani, ma priva di antica nobiltà di casta; quando tuttavia la riforma costituzionale del 1528 operata da Andrea Doria istituì gli "alberghi" nobiliari, molti membri della famiglia del C. vi furono iscritti, ma non lui, probabilmente già morto in esilio.
Il C. fu un protagonista della rivolta popolare del 1506, anzi proprio a lui si deve far risalire l'occasione che la originò.
I mercanti e gli artigiani erano in agitazione già dall'anno precedente; finita l'epidemia di peste che aveva colpito la città tra il 1504 e il 1505, essi avevano approfittato del periodo di indebolimento generale per ottenere dai nobili, attraverso una rivolta cittadina, l'assicurazione che i due terzi dei pubblici uffici sarebbero stati in futuro assegnati alla parte popolare. Nel 1505 il C. aveva ottenuto la carica di sindicatore, carica in cui veniva confermato nel 1506; ma per la maggior parte dei popolari la promessa strappata ai nobili in un momento di emergenza restava lettera morta. Perciò il malumore dei cittadini esclusi dal governo trovò volentieri occasione di nuovi disordini proprio in un sopruso sofferto dal C. nella centrale piazza di Banchi il 20 giugno 1506 ad opera di un giovane nobile (secondo alcuni Stefano Cigala e secondo altri Martino Spinola), che non soltanto si rifiutò di restituirgli una certa somma di denaro avuta in prestito, ma anche unì al rifiuto le percosse.
La piccola sommossa che ne seguì fu provvisoriamente sedata dall'intervento del podestà Oberto Solaro, ma, alcuni giorni dopo, il 6 luglio, altri disordini di più vaste proporzioni scoppiarono in varie parti della città, suscitati e organizzati da coloro che il popolo mostrava di riconoscere ormai come propri capi: il C. e Paolo Battista Giustiniani. Filippo Roccabertino, luogotenente del governatore francese Filippo di Clèves, convocò un consiglio di sessanta influenti cittadini per comporre il dissidio, sempre motivato dalla divisione delle cariche pubbliche tra nobili e popolari; ma, poiché il 18 luglio nulla era ancora stato deciso, il C. e il Giustiniani organizzarono una nuova rivolta; il giorno dopo ai due venivano conferiti importanti incarichi, che ottenevano l'effetto di dividerli e, in particolare, di allontanare il C. dalla città: il Giustiniani veniva infatti eletto tra gli Anziani, con l'incarico di riformare, appunto, il sistema di elezione ai pubblici uffici, mentre al C. veniva affidato il compito di cacciare dalla Riviera di Levante, da dove tramava contro Genova con l'appoggio di un esercito personale, Gian Luigi Fieschi.
L'8 settembre, un brigantino, sotto il comando del C. e di G. B. Luxardo, salpava per Chiavari, presidiata da 300 fuorusciti al comando di Anton Maria Fieschi; questi non si mostrò per nulla intimorito né dall'arrivo del brigantino, né dalle lettere che il C. gli inviò: anzi, minacciò di impiccare il messo. Comunque, dopo aver affidato al Luxardo la prosecuzione dell'impresa, il 10 settembre il C. ritornò precipitosamente a Genova dove si teneva Gran Consiglio per discutere di alcune riforme delle gabelle, precisamente della eventuale abolizione della gabella sul grano e della diminuzione della gabella sul Vino.
Il C., cui non sfuggiva il significato politico di tali riforme, di cui si sarebbero avvantaggiati soprattutto i ceti poveri, ottenne di far parte del Consiglio dei quattro deputati allo studio della questione, con Vincenzo Sauli, Demetrio Giustiniani e Angelo di Corvara, impegnati a risolvere parallelamente i problemi che le modifiche di tali gabelle e dei relativi appalti avrebbero comportato nella complessa amministrazione dei debiti di S. Giorgio. Ma la commissione di cui il C. faceva parte non ottenne il riconoscimento delle rivoluzionarie modifiche, anche per l'ostruzionismo del Banco di S. Giorgio: si isterilì, invece, nelle polemiche procedurali (il 13 sett. il C., il Sauli e il Giustiniani, assente il Corvara, si presentarono al Consiglio degli anziani per far correggere altre frasi del decreto che affidava loro tale incarico per ottenere di potersi riunire in concilio in S. Giorgio) e conseguì come unico effetto concreto l'istituzione di una nuova magistratura che avrebbe in seguito agito secondo le direttive della Casa di S. Giorgio: l'Ufficio victualium.
Nel frattempo, le agitazioni popolari coinvolgevano nell'odio sociale antinobiliare i Francesi, ritenuti il principale sostegno del potere aristocratico: nell'ottobre, una nuova rivolta delle "cappette", nuovo termine usato per designare i rappresentanti del popolo dal loro caratteristico abbigliamento, costrinse il governatore Filippo di Clèves a lasciare la città, mentre la guarnigione francese si asserragliava nel Castelletto. Quindi venne dichiarata guerra a Monaco, feudo dei Grimaldi, e, fino alla fine di novembre, il Consiglio degli anziani fu costretto ad accantonare ogni preoccupazione riformatrice per occuparsi quasi esclusivamente dei preparativi militari.Il C. venne scelto, insieme con l'altro capo popolare Paolo Battista Giustiniani, con Agostino Castiglione e Antonio Saige, quale commissario del governo presso le milizie: il giorno stesso dell'elezione, il 27 novembre, egli ed il Castiglione partivano alla volta di Ventimiglia con un primo nucleo di fanti e con il compito di far pervenire a Francesco d'Arquata, capo delle truppe che già avevano occupato Pieve di Teco, la somma di 500 ducati da distribuire come paghe e l'ordine di convergere anch'egli a Ventimiglia, da dove, non appena fosse giunto il comandante generale Tarlatino, tutto l'esercito avrebbe marciato verso le terre dei Grimaldi.
Il C. ed il Castiglione espletarono la prima parte della missione, ma non parteciparono agli assalti vittoriosi del 7 e dell'8 dicembre contro Mentone e Roccabruna, dopo i quali le truppe, non frenate dai capi militari, si diedero ad un furioso saccheggio: il C. ne descriveva i deleteri effetti in una lettera inviata a Genova il 15 dicembre ai quattro ufficiali deputati all'assedio di Monaco, lettera in cui puntualizzava come, durante i suoi spostamenti nell'estrema Riviera di Ponente alla ricerca di uomini da arruolare nell'esercito genovese per l'assalto a Monaco, avesse dovuto personalmente provvedere a rifornire di vettovaglie e di munizioni le due guarnigioni di Mentone e di Roccabruna che ne erano rimaste completamente prive a causa dal saccheggio e della ostilità degli abitanti, fedeli ai Grimaldi.
Mentre il C. svolgeva questo compito di arruolatore, in realtà con scarsa fiducia nelle capacità militari delle reclute rivierasche ("Son homini che uno soldato ne valeria dexe", scriveva il 15 dic. 1506, cfr. Arch. di Stato di Genova, Diversorum, f. 63), il Castiglione tornava a Genova per denunciare ai deputati il C. e il Giustiniani, quali destinatari di due lettere del marchese di Finale contenenti frasi sospette, che lo stesso Castiglione aveva sequestrato al messo.
Il C., richiesto di spiegazione, dichiarò di non aver neppure visto le lettere incriminate, ma di supporle scritte in risposta ad una sua, nella quale avvertiva il signore di Finale che l'esercito dei nobili che si stava preparando in aiuto del Grimaldi intendeva portare guerra anche nel territorio di lui, e perciò gli prometteva che, appena le milizie genovesi fossero riuscite a espugnare Monaco, sarebbero accorse in suo aiuto. Benché il C. insistesse sul fatto che egli così si era espresso in piena osservanza a quanto genericamente deliberato a Genova, nel capoluogo la pubblicità sfavorevole data a questo gesto del C., ritenuto arbitrario perché privo di una preventiva specifica autorizzazione e sintomo di una sua politica personalistica, fece decidere i deputati a destituire il C. e il Giustiniani dalle loro cariche a a sostituirli con due ufficiali di Balia nelle persone di Teramo di Baliano e Bernardo Castiglione, a disposizione dei quali il C. ed il Giustiniani dovevano rimanere per quel mese.
Così, poiché l'assedio di Monaco si rivelava molto più difficile del previsto, il C. fu inviato dai nuovi commissari ancora nelle Riviere, questa volta alla ricerca di guastatori. Quindi, verso la metà del mese di gennaio, il C. e il Giustiniani poterono tornare a Genova, dove nel frattempo era venuto acquistando sempre maggior popolarità il seatiere Paolo da Novi. I due capi di pochi mesi prima, avendo compreso di aver perduto la funzione di guida presso i popolari, reagirono con violenza: Il 27 gennaio, radunata una quarantina di sbandati presso il ponte di S. Agata sul Bisagno fuori delle mura, si diedero ad assaltare e a saccheggiare diverse abitazioni, suscitando la deprecazione e lo sdegno dei loro stessi antichi compagni. Tuttavia Paolo da Novi, eletto doge a seguito della grande rivolta popolare dell'aprile, espresse la sua fiducia nel C., al quale, con la carica di capitano della piazza, affidò il reclutamento di 250 fanti genovesi destinati, con altrettanti forestieri, alla guardia personale dello stesso doge. Ma il Consiglio degli anziani e quello dell'ufficio di Balia, proprio per evitare che fosse il C., divenuto ormai l'agitatore del popolo minuto, a compiere tale scelta, proibì al doge di servirsi di fanti genovesi. Il C., allora, la notte del 12 aprile, radunato un manipolo di seguaci, corse la città gridando "Canale e ventura!" con la speranza di essere nominato capo dei soldati mercenari. Si ignora l'esito di tale gesto: ma anche se il C. fosse riuscito nel suo intento, il successo sarebbe stato di breve durata: l'avvicinarsi del re di Francia e poi il suo vittorioso ingresso in Genova il 29 aprile riportava al potere i nobili. Mentre Paolo da Novi veniva squartato, il C. fu iscritto, con decreto del 14 maggio, nella lista dei 75 cittadini di parte popolare che dovevano subire il bando dalla città e la confisca dei beni. Tre giorni dopo, partendo per Milano, Luigi XII decretava un perdono generale da cui escludeva però coloro che troppo si erano compromessi nelle ultime vicende, tra i quali specificatamente il C. definito capo fazioso. Dopo il bando non si hanno più notizie di lui.
Al pari di quella di Paolo da Novi, la figura del C. fu idealizzata nella tradizione popolare, tanto che nell'800 lo scrittore genovese M. G. Canale, in un romanzo storico a chiave, intitolato Paolo da Novi (Genova 1838), intendeva presentare sotto le vesti del C., protagonista della vicenda, lo stesso Giuseppe Mazzini.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Genova, Diversorum Comunis Ianuae, f. 63, n. 1506; Genova, Civica Biblioteca Franzoniana, ms. 124: G. Giscardi, Origine e fasti delle nobili famiglie di Genova, c.88; Ibid., ms. 126: F. Federici, Alberi genealogici delle famiglie nobili genovesi, lett. C; Civ. Bibl. Berio, ms. 13: Genova, L. Della Cella, Famiglie di Genova, cc.83 s.; B. Senarega, Commentarium de rebus Genuensibus, in L. A. Muratori, Rer. Ital. Script., XXIV, Mediolani 1738. col. 532; J. D'Auton, Chroniques, Paris 1835, III, p. 201; G. Saige, Documents historiques relatifs à la principauté de Monaco, Monaco 1892, II, pp. 65 s.; E. Pandiani, Un anno di storia genovese, in Atti d. Soc. lig.di st. patria, XXXVII (1905), pp. 5 n. 2, 6, 10, 46, 48 e n. 1, 314, 329, 330; F. Donaver, Storia della Repubblica di Genova, Genova 1913, p. 121; M. G. Canale, Nuova istoria della Repubblica di Genova, Firenze 1890, IV, p. 306; V. Vitale, Breviario della storia diGenova, Genova 1955, I, p. 169; II, p. 80.