economia industriale
Disciplina che studia la produzione e l’organizzazione del mercato. Nasce da due tradizioni ben distinte, l’inglese ‘economics of industry’ e l’americana ‘industrial organization’.
La tradizione inglese risale ad A. Smith (➔), con la sua dettagliata analisi della divisione del lavoro nell’industria degli spilli. Dimostrò come la divisione del lavoro, cioè l’organizzazione della produzione, dovesse essere limitata esclusivamente dall’estensione del mercato, superando definitivamente i vincoli corporativi che caratterizzavano l’economia feudale. L’aumento dei rendimenti di scala è connesso alle economie dinamiche legate alle conoscenze che l’intera organizzazione sviluppa, ampliando la dimensione produttiva. L’analisi dei rendimenti crescenti dell’industria, in contrasto con l’analisi ricardiana dei rendimenti decrescenti presenti in agricoltura, divenne poi una costante degli studi economici fino a N.W. Senior (➔), che ne spostò l’enfasi sulle macchine, quindi sul capitale, di fatto svuotando di significato le e. dinamiche.
Questo concetto di economia di scala (➔ scala, economie di) venne esteso dal livello di fabbrica a un intero territorio da A. Marshall (The economics of industry, 1879), che introdusse il concetto di economie di agglomerazione (➔), con l’analisi dei distretti industriali. Nei Principles (1890) Marshall sottolineò la complessità dei sistemi di impresa, all’interno di una analisi teorica definita dalle nuove teorie marginaliste (➔ marginalismo). L’assunzione di esistenza di rendimenti crescenti di scala, rilevabile dall’evidenza empirica, si scontrò con l’assunzione di concorrenza perfetta, indotta dall’analisi marginalista, come rilevò P. Sraffa nei suoi lavori del 1925 (Sulle relazioni tra costo e quantità prodotta, «Annali di economia», 2) e del 1926 (The laws of returns under competitive conditions, «The Economic Journal», 36). Marshall affrontò molti anni dopo questo tema in Industry and trade (1919), ove propose uno studio del nuovo contesto economico dominato dalle grandi concentrazioni industriali.
Alle economie di scala e alla concentrazione (➔) industriale come fattori strutturali dell’industria, si aggiunse l’analisi della differenziazione (➔) del prodotto, sviluppata nel 1933 contemporaneamente in Gran Bretagna e negli Stati Uniti con i lavori di J. Robinson (The economics of imperfect competition) e E.H. Chamberlin (The theory of monopolistic competition), che legarono le forme di mercato e la capacità delle imprese di differenziare i propri beni per ridurne la sostituibilità.
Negli Stati Uniti gli studi avevano seguito fino ad allora una via essenzialmente empirica, per rendere conto di una realtà in continua trasformazione e segnata da violenti processi di monopolizzazione, del resto regolati da specifiche norme antitrust (Sherman antitrust act, 1890). Qui si sviluppò una ricerca teorica ed empirica di forme di concorrenza effettiva, ben lontana dalla stilizzazione teorica della perfetta concorrenza.● Nacque in quegli anni il contrasto tra l’Università di Harvard e quella di Chicago. La prima mantenne con le altre università della costa orientale un’impostazione economica fortemente induttiva, aperta all’analisi delle dinamiche sociali. Chicago riteneva ogni intervento pubblico dannoso. Questa posizione fu espressa con forza nel 1921 da F.H. Knight, che fissò le linee essenziali di quella che poi verrà identificata come la scuola di Chicago. I due allievi di Knight furono M. Friedman e G.J. Stigler. Da Harvard invece uscì il filone che ebbe in J.S. Bain e nel paradigma ‘struttura, comportamenti, risultati’ la sua più chiara espressione. La principale opera di Bain (Barriers to new competition, 1956), insieme con il lavoro di P. Sylos-Labini (Oligopolio e progresso tecnico, 1956), mette in evidenza come le imprese attuino comportamenti deterrenti all’entrata di nuovi concorrenti, sovradimensionando gli impianti, al fine di non lasciare spazio per nuovi ingressi efficienti.
Negli anni successivi si svilupparono modelli fortemente strutturalisti, che ponevano in diretta connessione gli elementi strutturali (concentrazione, economie di scala, integrazione verticale, differenziazione del prodotto, elasticità della domanda) con i risultati delle imprese.
A questa tendenza si sovrappose negli anni 1980 una riscoperta dell’analisi dei comportamenti strategici, tendenza esaltata e in parte esasperata dall’uso della teoria dei giochi, che permise di simulare le diverse possibilità di azione congetturale, in presenza di diversi fattori di deterrenza. L’introduzione dei fattori di innovazione, in particolare in una prospettiva evoluzionista, ha aperto nuovi fronti di studio, connessi con il mutamento tecnologico. Un filone rilevante resta quello delle politiche i., con particolare attenzione, da un lato, agli interventi di tutela del mercato e di regolazione dei settori monopolistici e, dall’altro, alle politiche di sostegno della ricerca e dell’innovazione, come fattore di accelerazione della crescita e del mutamento strutturale.