EBRAISMO.
– Ebraismo e Stato d’Israele. Ebraismo e antisemitismo. Identità culturale e politica. Gli studi sulla Qabbālāh. Dalla Gĕnīzāh del Cairo alla Gĕnīzāh europea. L’estensione della ricerca in Europa e il progetto Books within books. Bibliografia. Sitografia
Nel clima di una radicalizzazione delle identità culturali e religiose, sembra che i conflitti portino i gruppi e gli Stati a un’accentuazione delle loro identità su base etnica, culturale e religiosa: una questione che tocca anche l’e. della diaspora e soprattutto la politica israeliana.
Ebraismo e Stato d’Israele. – Per un approccio serio al problema, occorre guardarsi da una visione superficiale, poco attenta alle grandi questioni che agitano dall’interno l’e. diasporico, con tutte le sue oscillazioni che caratterizzano relazioni assai diversificate con la società e la politica israeliana. La globalizzazione e la sua interpretazione hanno coinvolto anche l’e. e il conflitto israelo-palestinese e stanno trasformando la stessa coscienza ebraica, mentre gli interessi culturali e di studio, come nel resto del mondo, si stanno indirizzando sempre più verso campi che privilegiano le tecniche a scapito delle scienze umane. La nuova situazione, per certi aspetti caratterizzata da un’estremizzazione dei conflitti, ripropone con forza e con urgenza la necessità di una ridefinizione dell’identità ebraica, in Israele e nei Paesi della diaspora, e del significato dello Stato d’Israele all’interno del sistema di valori storici, filosofici e religiosi dell’e., questione quest’ultima tanto recente da poter apparire secondaria per lo storico di quella grande cultura che van ta 3000 anni di storia ed è stata la matrice del cristianesimo – e tramite esso della cultura occidentale –, come anche dell’islam. Il problema dell’identità ebraica è per l’e. molto più legato all’appartenenza a una storia millenaria che all’appartenenza da 67 anni a uno Stato.
Fallito a Camp David l’accordo per una pace duratura a causa dell’errore di Yāsser ῾Arafāt, che preferì la seconda intifāḍa, dopo l’assassinio di Yiṣḥāq Rabīn a opera di un ebreo, seguito dal ritorno di Ariel Sharon e dal lungo governo di Benjamin Netanyahu, riconfermato dalle elezioni politiche del 2015, Israele sta andando sempre più verso una destra radicale che, a causa dell’enorme prolificare degli ebrei religiosi e ultraortodossi rispetto ai laici, nel futuro potrebbe dare loro la maggioranza assoluta in Parlamento.
Nel quadro delle cosiddette primavere arabe, che hanno spiazzato diversi Stati e governi e la cui evoluzione ha costretto molti a modificare la loro valutazione del fenomeno, anche a causa dell’innestarsi in esso di movimenti fondamentalisti e della minaccia terroristica costituita dall’Islamic State (v. IS), in qualche modo è cambiata la natura del conflitto israelo-palestinese. Esso, infatti, non è più uno scontro locale a sé stante, ma è divenuto parte integrante della guerra proclamata dal Califfato contro l’Occidente, del quale Israele è considerato l’avanguardia nel Vicino Oriente. Con i precedenti governi di Egitto, Libia e Siria la situazione per lo Stato ebraico era assai più semplice da affrontare, mentre in questo inizio di 21° sec., con un conflitto che si sta progressivamente e inesorabilmente allargando a tutto il Vicino Oriente, Israele si trova non lontano dall’occhio del ciclone.
Un gruppo di intellettuali e scrittori israeliani alla vigilia delle elezioni politiche del marzo del 2015, volute dal premier Netanyahu e che hanno avuto come risultato un nuovo Parlamento dello Stato ebraico (composto da una maggioranza di 61 deputati del Likud, il partito dei coloni e degli ultraortodossi, contro 59 deputati della minoranza), ha invitato i governi del mondo a riconoscere lo Stato palestinese, come condizione imprescindibile per iniziare a costruire una pace vera. In ogni caso, queste elezioni hanno confermato l’eterogeneità della situazione sociopolitica degli israeliani nelle varie città del Paese: a Tel Aviv le liste di sinistra hanno ottenuto circa il 60% dei voti, dei quali i soli laburisti hanno avuto oltre la metà, ossia il 34,3%, mentre il Likud soltanto il 18%; a Haifa, i laburisti hanno avuto il 25% e il Likud il 21%; a Gerusalemme, invece, il 48% ha votato per il Likud e i laburisti hanno avuto solo il 5%. Inoltre, gli arabi cittadini israeliani si sono uniti e risultano la terza forza, costituita dal 20% della popolazione di Israele e con 13 seggi nel nuovo Parlamento.
La vittoria elettorale di Netanyahu – che ha saputo giocare sia sulla questione degli insediamenti di coloni sia sulla questione del nucleare iraniano all’insegna dell’adagio Kol ha-῾olam negdenu («Tutto il mondo contro di noi») e dunque Anachnu neged kol ha-῾olam («Noi contro tutto il mondo») – non ha però mutato i cinque problemi che, secondo il demografo Sergio Della Pergola, devono essere fronteggiati dai 6 milioni di ebrei che vivono in Israele, dai 5,5 milioni che sono cittadini statunitensi e dai restanti concentrati soprattutto in Canada, Australia, Paesi dell’ex Unione Sovietica, Francia e Gran Bretagna: il rapporto fra palestinesi e Irān mediato da Ḥamās (la cui carta costitutiva all’art. 7 recita «Vieni Muhammad, e uccidi tutti gli ebrei»); la rottura con i democratici e con il presidente statunitense Barack Obama sancita da Netanyahu; la crisi della tenuta dell’architettura costituzionale di Israele con una legge sul finanziamento ai partiti che stroncherebbe i laburisti; la rottura dell’unità del popolo israeliano messa in crisi da quella che Netanyahu ha chiamato la «voragine incolmabile» che lo separa dai sionisti progressisti e da forme di ostracismo come quella che ha colpito Ariel Hirschfeld e Avner Holtzman, membri della giuria del premio Israel per la letteratura e dichiarati persone non gradite dal premier; il peso di una crescente diseguaglianza sociale in Israele.
Ebraismo e antisemitismo. – La politica di Netanyahu è quella di rispondere a queste sfide attraverso un processo crescente di definizione assoluta di Israele come Stato ebraico, dando maggiore spazio ai movimenti fondamentalisti religiosi e imponendo l’ebraico come unica lingua. Questo processo, che riguarda particolarmente le nuove generazioni di ebrei che vivono in Israele, si è oggi fuso con quello della globalizzazione, e pone nuove sfide alla definizione della propria identità e alla percezione di sé. In questo senso, quell’unica e mirabile sintesi delle prime generazioni di immigrati, che in Israele avevano potuto unire in sé il meglio delle culture dei vari Stati europei (nelle cui università molti di essi avevano studiato nella loro lingua madre), è un interessante ricordo del passato.
In questa prospettiva si pone l’invito, che non è piaciuto anche a molti ebrei e israeliani, rivolto da Netanyahu agli ebrei francesi a trasferirsi in Israele, trovando qui il riparo sicuro che gli Stati europei non sarebbero in grado di dare. È comunque un dato la presenza in Europa di un crescente antisemitismo (v.), che ha ripreso vigore, come sempre avviene in momenti di crisi, e che ha un effetto preoccupante sulle condizioni di sicurezza delle comunità ebraiche della diaspora. Lo hanno mostrato gli attentati terroristici a Parigi al giornale satirico «Charlie hebdo» e a un negozio ebraico di prodotti alimentari kāshēr (entrambi nel genn. 2015), che hanno mobilitato l’intera Europa, come non era accaduto per altri attentati che avevano come obiettivi ‘solo’ ebrei.
Identità culturale e politica. – Questa situazione, come si è già rilevato, pone nuovamente sul tappeto alcune domande fondamentali alle quali l’e. deve necessariamente rispondere nel suo divenire storico, anche in questo inizio di 21° sec.: che cosa significa essere ebreo? Quali sono oggi il ruolo, il significato, la portata dello Stato ebraico nell’e. mondiale in generale, compreso quello diasporico? L’e. senza uno Stato, vissuto dagli ebrei dal 70 d.C. fino al 1948, è stato un e. surrogato, evirato, incompleto? Come comporre la visione spirituale dell’e., il sistema di valori, di significati e di miti da esso elaborati, con uno Stato politico, essendo i primi per definizione degli assoluti religiosi e di fede, e la politica di uno Stato quanto di più relativo ci possa essere? Schiacciare queste due realtà una sull’altra, identificandole simpliciter come il dritto e il rovescio della stessa medaglia, potrebbe essere un grave errore che, se perseguito, finirebbe con il danneggiare i valori spirituali dell’e. così come il suo aspetto politico, lo stesso Stato e la sua sicurezza. È lecito utilizzare un’interpretazione religiosa della storia, elaborata 2500 anni fa, come è quella contenuta nella Bibbia ebraica, usandola come una carta di diritti e doveri per definire degli Stati politici e geograficamente definiti oggi? È fuori discussione l’esistenza dello Stato di Israele, Stato che deve essere in ogni modo tutelato, ma va certamente tenuto distinto dai vari governi che in esso si susseguono: si può criticare la politica di un governo israeliano, non l’esistenza dello Stato ebraico, e coloro che accusano di antisemitismo chiunque critichi la politica di un determinato governo certamente strumentalizzano la Shoah in maniera indebita. Detto questo, è certamente più facile fare la guerra che fare la pace, ma il prezzo della guerra è alto. Se si vuole la pace, si deve sapere che nessuna pace è possibile se almeno uno o tutti e due i soggetti di un conflitto non riesce – o non riescono –, anche solo per un attimo, a vedere il loro scontro ‘con gli occhi del nemico’, titolo dato dallo scrittore israeliano David Grossman a un suo recente libro (Dvarim šeroím mikan, 2007; trad. it. Con gli occhi del nemico. Raccontare la pace in un paese in guerra, 2007).
La questione tocca anche l’e. italiano. Per alcuni, compresi diversi ebrei, i membri di questo popolo, di questa cultura e di questa civiltà, dopo 1800 anni di emarginazione e segregazione diasporica, dopo più di tre secoli di ghetto, dopo la prima fallace emancipazione napoleonica, vanificata dalla Restaurazione, e dopo la seconda emancipazione ve ra e totale, offerta dal Regno d’Italia unito, ma tragicamente rinnegata e troppo presto cancellata dalla persecuzione nazista e fascista, manca ancora una risposta alla domanda su che cosa significhi essere ebreo oggi, in Israele o nella diaspora. Infatti, il tradimento dell’emancipazione ‘nazionale’ distrusse, in qualche modo, la risposta che gli ebrei italiani e di altre nazioni dell’Europa centro-occidentale avevano faticosamente cercato di dare tentando di definire la loro identità. Compito, questo, che segna anche gli studi sull’e. antico.
Gli studi sulla Qabbālāh. – Lo studio moderno della Qabbālāh nasce con Gershom Scholem (1897-1982), che ha efficacemente sottolineato il significato e la ricchezza della mistica ebraica o, come altri preferiscono definire, del-l’esoterismo della Qabbālāh, che con i suoi studi ha dato statuto scientifico a un ambito del pensiero ebraico che era stato trascurato come non degno di un’analisi scientifica dagli esponenti dell’ottocentesca Wissenschaft des Judentums, in quanto inficiato da aspetti di superstizione popolare, magia, che non lo rendevano meritevole di un approccio scientifico e razionale. Per varie ragioni Scholem non ha avuto una scuola in senso stretto. Ha avuto studenti, come Chaïm Wirszubski, Rivka Schatz Uffenheimer e Joseph Ben-Shlomo, ma non un vero e proprio successore. Ha lavorato con Isaiah Tishby e con Shlomo Pines (piuttosto uno storico della filosofia), che però non possono essere considerati suoi allievi. Lo stesso Joseph Dan (n. 1935), il più fedele discepolo di Scholem, non si è addottorato con lui, ma con Tishby.
Alla morte di Scholem (e solo allora) sono emerse nuove tendenze nella ricerca cabbalistica, in particolare per opera di Moshe Idel (n. 1947), oggi considerato il massimo studioso di Qabbālāh. Idel, pur dovendo moltissimo alle ricerche di Scholem, ha sottolineato programmaticamente la propria distanza da quest’ultimo su innumerevoli aspetti, facendone un tratto del proprio stile espositivo. Idel ha contestato in particolare l’idea scholemiana per la quale il sabbatianesimo verrebbe in ultima analisi dall’esperienza lacerante della cacciata degli ebrei dalla Spagna, sottolineando l’importanza del messianismo ashkenazita; inoltre, e soprattutto, ha squalificato l’interpretazione complessiva della Qabbālāh in chiave simbolica, proposta da Scholem, affermando che altrettanta importanza ha rivestito la dimensione estatica, nonché quella magico-teurgica. Idel ha messo in valore, ma non sul piano filologico, le opere di Abraham ben Samuel Abulafia, evidenziando una Qabbālāh profetica che egli contrappone a quella teosofico-teurgica, più vicina al modello scholemiano. Nello studiare il chassidismo, Idel ha criticato Scholem per avere sottovalutato gli aspetti magici in esso presenti. Si può tuttavia notare che Idel ha seguito un metodo fenomenologico, poco attento alla dimensione storico-filologica e più interessato a rilevare analogie tra testi che non possono, storicamente, essere entrati in contatto fra loro. Una spiegazione possibile di queste due opzioni, oltre alla differenza di età, può essere individuata nella formazione e nel retroterra culturale dei due studiosi: tedesco e romantico l’uno, romeno e vicino a Mircea Eliade l’altro. Il grande successo di Idel si spiega anche con la temperie culturale, gli anni Settanta, che ha messo in rilievo la dimensione esperienziale (estatica) e deprezzato quella speculativa, quasi di filosofia della storia, preferita da Scholem.
Nuove prospettive sono state avanzate negli Stati Uniti, per es. da Elliott Wolfson, che negli ultimi anni ha tentato di ‘dire’ la Qabbālāh ricorrendo al linguaggio heideggeriano e ‘poetico’ della filosofia contemporanea. In Israele basterà fare il nome di Ronit Meroz, che lavora a un’edizione critica dello Zohar sulla base di tutti i manoscritti. Il suo modello è affine a quello della Formengeschichte usata dai teologi protestanti e promette (e già dà per saggi) risultati interessanti. Negli Stati Uniti Daniel Matt sta effettuando la traduzione, in modo esemplare, dello Zohar (8 volumi apparsi sinora, ne sono previsti 12), ma non ci sono più studiosi del livello di Alexander Altmann, e la disciplina stenta a rinnovarsi in modo significativo.
D’altra parte gli studi cabbalistici sono fioriti non solo in Israele e negli Stati Uniti, ma anche in Europa e, in particolare, in Italia. Qui gli studi hanno ricevuto un notevole impulso da Giulio Busi (n. 1960) sia per le sue pubblicazioni, sia in quanto promotore e organizzatore di nuove ricerche. Gli si deve in particolare, con la collaborazione di Elena Loewenthal, una traduzione (Mistica ebraica. Testi della tradizione segreta del giudaismo dal III al XVIII secolo, 1995), diverse edizioni di testi, per lo più brevi, l’importante Simboli del pensiero ebraico. Lessico ragionato in settanta voci (1999), con una proposta innovativa, ma non ulteriormente sviluppata, di una ‘filologia simbolica’ che permetterebbe di stabilire l’autenticità di un testo o di un frammento sulla base della sua ‘coerenza simbolica’. Più di recente Busi ha pubblicato Qabbalah visiva (2005), opera fondamentale che propone una radicale reinterpretazione della mistica ebraica a partire dall’aspetto grafico-visuale, offrendo centinaia di specimina tratti da numerosi manoscritti. Le ricerche di Busi hanno determinato nuove indagini, in particolare da parte di Yossy Chajes, sugli alberi delle sefirot in prospettiva comparatistica. Altro merito di Busi è stato aver promosso e favorito la ricerca sulla Qabbālāh cristiana, in particolare su Giovanni Pico della Mirandola, fondando e dirigendo la collana The kabbalistic library of Giovanni Pico della Mirandola (Nino Aragno editore). I principi della collana, che ha visto contributi importanti da parte di Saverio Campanini, Susanne Jurgan, Annett Martini e Giacomo Corazzol, prevedono, oltre alla pubblicazione delle traduzioni dall’ebraico in latino di numerose opere cabbalistiche eseguite intorno al 1486 dall’ebreo convertito siciliano Guglielmo Raimondo Moncada, alias Flavio Mitridate, anche la pubblicazione del testo ebraico originale, accompagnato da una traduzione inglese commentata. Questo ha dato stimolo a una nuova stagione filologica con la pubblicazione di numerosi inediti o di opere già pubblicate, ma presentate in una nuova edizione critica.
Nello studio su Moshe ben Naḥman, uno dei primi e più importanti cabalisti catalani del 13° sec. (Idel, Perani 1998) appare la prima versione italiana della Disputa di Barcellona, eseguita da Campanini.
In questo contesto si pongono anche la vasta produzione del già ricordato Campanini, il quale, oltre a pubblicare una nuova edizione critica del Sefer ha-Bahir (che era stato oggetto della tesi di dottorato di Scholem, nel 1923), si è segnalato per l’edizione di altri testi cabbalistici di notevole interesse: tra gli altri il Commento alle preghiere, da lui attribuito a Yehudah ben Nissim Ibn Malka, un sermone cabbalistico di Abraham ben Meshullam da Sant’Angelo, lo Sha‘ar ha-shamayim (commento anonimo alle sefirot), un testo liturgico attribuito a Todros ha-Levi Abulafia e altri.
Campanini si è ulteriormente segnalato in altri due campi di pertinenza cabbalistica: la Qabbālāh cristiana, pubblicando, in edizione italiana riccamente commentata, due capolavori della letteratura pertinente, il De arte cabalistica di Johannes Reuchlin (1995) e il De harmonia mundi di Francesco Zorzi (2010), e presentando numerose analisi di testi e autori dimenticati di quell’importante movimento intellettuale; inoltre è il più segnalato curatore di opere scholemiane in Italia, avendo curato la pubblicazione di numerosi volumi di Scholem: L’idea messianica nell’ebraismo e altri saggi sulla spiritualità ebraica (2008), La figura mistica della divinità (2010), La stella di David. Storia di un simbolo (2013), Le tre vite di Moses Dobrushka (2014). Campanini ha pubblicato anche un cospicuo numero di saggi di argomento scholemiano in sedi disparate, in italiano e in tedesco: si segnala, in particolare, la serie di saggi bibliografici apparsa sulla rivista scientifica «Materia giudaica» e intitolata Parva Scholemiana.
Dalla Gĕnīzāh del Cairo alla Gĕnīzāh europea. – L’e. è stata una vera e propria civiltà del libro, del suo commento e del commento del commento. Fino al 1455 i libri furono solo manoscritti e quindi il manoscritto riveste per l’e. un’importanza assolutamente centrale. Il 5 marzo 1950 il primo ministro del neonato Stato d’Israele, Ben Gurion, chiese al ministro delle finanze Eliezer Kaplan un fondo per finanziare la trasposizione su microfilm di tutti i manoscritti ebraici esistenti al mondo e per conservare questi microfilm in un apposito istituto che li rendesse consultabili da tutti. Il progetto fu attuato con la creazione dell’Institute of microfilmed Hebrew manuscripts, annesso alla Jewish national and university library di Gerusalemme, dal 2008 divenuta National Library of Israel dopo essersi staccata dalla Hebrew University. A partire dal 1950, in sessant’anni di lavoro, l’Istituto ha realizzato la microfilmatura del 90% circa di tutti i manoscritti ebraici esistenti e noti (che si calcola siano quasi 90.000, dei quali solo 25.000-30.000 medievali, prodotti prima dell’anno 1550), sparsi in 1200 collezioni nel mondo. Un significativo avanzamento delle riproduzioni su microfilm si è avuto dopo la caduta del Muro di Berlino, grazie al permesso, prima negato, di copiare le ricchissime collezioni russe (che contano circa 20.000 manoscritti ebraici), progetto realizzato con campagne fotografiche iniziate nel 1992. Nell’Istituto, nella sala di lettura dei microfilm sono conservati 70.000 rullini fotografici che oggi sono in fase di aggiornamento, passando dal microfilm alla riproduzione digitale.
Da qualche decennio la fonte che fornisce al mondo scientifico nuovi manoscritti ebraici non è più costituita dalle biblioteche, ma da materiali manoscritti riutilizzati per confezionare legature. Quasi trentacinque anni fa, nel luglio 1981, Giuseppe Baruch Sermoneta, sollecitato da alcune importanti scoperte casuali compiute negli anni Settanta del secolo scorso, promosse in Italia un progetto per la ricerca, la catalogazione, il recupero e la riproduzione fotografica dei frammenti di manoscritti ebraici medievali riusati come legature di volumi in biblioteche e archivi italiani, progetto che in quei primi anni veniva chiamato Progetto copertine ebraiche. Quella felice intuizione di Sermoneta è stata il primo passo verso la scoperta di molte migliaia di manoscritti ebraici medievali, prodotti nei secoli 10°-16°, riutilizzati a partire dal 16° sec. come materiale secondario atto a confezionare legature. Si tratta di un fenomeno sorprendente, che fa parte della storia del libro e della sua produzione, e che era già stato sporadicamente segnalato da studiosi come Giovanni Bernardo De Rossi e Umberto Cassuto nell’Ottocento e agli inizi del Novecento, ma di cui nessuno poteva immaginare la grande consistenza, prima delle scoperte della fine del 20° sec. e degli inizi del 21°. La consapevolezza che nelle legature delle opere conservate negli archivi e nelle biblioteche europei fosse nascosta un’enorme quantità di manoscritti ebraici, per lo più membranacei, portò nel 1975 Yaakov Sussmann, studioso di testi talmudici della Hebrew University di Gerusalemme, a definire gli archivi del vecchio continente come la Gĕnīzāh europea, con un’espressione usata solo per analogia con una gĕnīzāh vera (il luogo della sinagoga dove si depositano testi sacri e altri oggetti di culto ebraico ormai inutilizzabili al fine di evitare la profanazione del nome di Dio, il tetragramma sacro, che in essi potrebbe essere contenuto).
In Italia, il progetto messo in opera da Sermoneta ha censito, dopo oltre trent’anni di lavoro, circa 15.000 frammenti di manoscritti ebraici medievali. Per quanto riguarda i contenuti di questa massa di materiale, da una statistica ricavata dalle scoperte fatte nell’Archivio di Stato di Bologna, una delle più grandi collezioni, con oltre 850 frammenti, e significativa anche in senso generale, abbiamo le seguenti percentuali per soggetto: 28% testi biblici; 23% letteratura normativa o halakica; 19% Mishnāh, Talmūd e altri compendi talmudici; 12% commenti biblici; 11% testi liturgici; 2% testi scientifici di medicina, astronomia e geometria; 1,6% dizionari e opere lessicografiche; 1% Qabbālāh e Midrāsh.
A differenza della Gĕnīzāh del Cairo, che ha restituito molte opere perdute o sconosciute, i frammenti ebraici scoperti in Italia e negli altri Paesi europei contengono in prevalenza opere note e attestate anche in manoscritti interi. Tuttavia non sono mancate scoperte di testi sconosciuti o perduti, o alcuni fogli di opere altrimenti attestate solo da un unico codice, rendendo così possibile la collazione delle varianti e una valutazione testuale più completa. Di particolare interesse è risultata la scoperta in Italia di circa 370 fogli di codici contenenti il Talmūd, in prevalenza quello babilonese, ma anche, in pochi esemplari, quello palestinese, oltre alla sola Mishnāh, raramente trasmessa in codici senza l’integrazione della gĕmārā. Si tratta di ritrovamenti importanti, se si pensa, per es., che dei due Talmūdīm, a causa della sistematica persecuzione della Chiesa e dell’Inquisizione contro questa opera e della sua distruzione nei roghi, resta solo un manoscritto completo di ognuno, rispettivamente del 14° sec. per il Talmūd palestinese (Yerushalmi), conservato a Leida, e del 15° per il Talmūd babilonese (Bavli), conservato a Monaco. Moltissimi manoscritti talmudici, copiati in area sefardita fra il 13° e il 15° sec., furono portati in Italia dagli ebrei espulsi nel 1492 e molti sono finiti nelle legature degli archivi di Bologna, di Modena, di Spoleto e di altre città italiane. Oltre ai sefarditi, anche gli ebrei ashkenaziti, espulsi dalla Francia e dalla Germania tra il Trecento e il Quattrocento, scesero nella Pianura Padana portando con sé i loro manoscritti. Queste vicende storiche fecero sì che nella nostra penisola fra il Quattrocento e il Cinquecento si concentrasse una grande quantità di manoscritti prodotti dalle tre grandi tradizioni scrittorie ebraiche dell’Occidente: quella sefardita e quella ashkenazita, oltre a quella locale italiana.
Gli oltre 370 frammenti talmudici scoperti finora in Italia, contenenti testi di Mishnāh, Tosefta, Talmūd palestinese o babilonese, oltre al compendio che del Talmūd fece Isaac Alfasi, hanno potuto essere parzialmente ricomposti negli originari 155 manoscritti talmudici, altrimenti perduti e ai quali il riuso come legature e la riscoperta hanno ridato nuovamente vita.
L’estensione della ricerca in Europa e il progetto Books with in books. – Da qualche anno questo tipo di ricerca si è esteso anche ad altri Paesi europei, dove si stanno scoprendo altri frammenti di codici ebraici, sebbene non numerosi e antichi come in Italia, nelle tre tradizioni scrittorie ebraiche dell’Occidente. Tali frammenti, a differenza di quelli italiani, so no quasi eslusivamente vergati nella sola tipologia scrittoria locale: in grafie ashkenazite per l’area franco-tedesca e dell’Europa orientale, e sefardita per la penisola iberica e la Francia del Sud, che era parte dell’area culturale catalana.
Nel 2007 è stato creato il progetto Books within books. Hebrew fragments in European libraries, una rete europea di studiosi e ricercatori impegnati nell’inventariare e catalogare i frammenti di manoscritti ebraici medievali (provenienti dal vecchio continente) riusati come legature, per poi digitalizzare il materiale e renderlo disponibile (http://www.hebrewmanuscript.com/hebrew-fragments-databases.htm).
Finora il progetto ha identificato migliaia di frammenti negli archivi e nelle biblioteche di Austria, Cecoslovacchia, Francia, Germania, Inghilterra, Italia, Polonia, Repubblica Ceca, Spagna, Svizzera e Ungheria. Il corpus dei frammenti europei ha arricchito in maniera considerevole la nostra conoscenza dell’attività culturale e intellettuale degli ebrei in Europa, offrendo una nuova fonte per ricostruire la storia delle comunità durante il Medioevo.
Bibliografia: A. Castellano, I film di Clint Eastwood, Roma 2010; A. Piccardi, Clint Eastwood. Un cinema che ci riguarda, Recco 2012; Clint Eastwood, a cura di A. Canadè, A. Cervini, Cosenza 2012.