DU QUESNOY, François, detto il Fiammingo
Nacque a Bruxelles all'inizio del 1597 dallo scultore Jerôme il Vecchio e da Elisabeth van Machen; fu battezzato nella parrocchia di S. Gudule il 12 gennaio. Ebbe cinque fratelli, tra i quali va ricordato Jerôme il Giovane (1602-1654), anch'egli scultore (Fransolet, 1942, pp. 32 s.).
"Dal padre imparati gli elementi dell'arte, cominciò a modellare e lavorare l'avorio e 'l marmo tenero che s'usa in Fiandra d'un rilievo pulito e diligente" (Bellori, 1672, p. 270). Le fonti ricordano sommariamente l'attività del D. in patria; le opere citate sono oggi perdute o non documentate ed è probabile, vista la giovane età dello scultore, che si trattasse di lavori eseguiti dal padre o comunque all'interno della bottega patema. Il D. però doveva aver già dato buona prova di sé, tanto da poter inviare nei primi mesi del 1618 una supplica al governatore generale arciduca Alberto d'Asburgo chiedendo una sovvenzione per avere la possibilità di recarsi temporaneamente, per due o tre anni, a Roma; il 19 maggio la sovvenzione venne accordata e nell'agosto dello stesso anno il D. lasciò Bruxelles, forse in compagnia del fratello jeróme, dal quale comunque si separò durante il viaggio per sopravvenute "male soddisfazioni" (Passeri, 1772, p. 84).
Mancano notizie documentarie sia sulla vita sia sull'attività dello scultore subito dopo il suo arrivo a Roma nel 1618. Le fonti (Bellori, 1672, p. 270; Passeri, 1772, p. 84) ricordano che essendo morto l'arciduca Alberto, suo protettore (1621), rimasto senza appoggio e denaro, per mantenersi fu costretto a dedicarsi a lavori d'intaglio in legno e in avorio e a teste di santi per reliquiari. Il Bellori menzionava alcune di queste teste ancora in casa di "mastro Claudio Lorenese intagliatore" il quale aveva l'abitazione davanti S. Girolamo della Carità; il D. abitò con lui per qualche tempo.
Il primo ad apprezzare il giovane scultore e ad aiutarlo fu un mercante fiammingo, Pieter Visscher, che gli commissionò alcune opere tra cui una Venere che allatta Amore a grandezza naturale, oggi perduta (Bellori, 1672, p. 270). Entrò quindi in contatto con il connestabile Filippo Colonna che, oltre ad ordinargli alcuni lavori, lo fece conoscere alla famiglia Barberini donando a Urbano VIII "un crocefisso d'avorio alto tre palmi" (ibid.).
L'ambiente culturale romano in questi anni era quanto mai ricco di nuovi fermenti ed indirizzi; limitando il campo alla sola scultura non c'è dubbio che Gian Lorenzo Bernini avesse già rivelato la sua genialità scolpendo i primi ritratti ed i famosi gruppi della collezione Borghese. Una vena ncoveneta era stata ormai da tempo introdotta a Roma attraverso le opere di Camillo Mariani e di Pietro Bernini. senza dimenticare poi la particolare personalità di Francesco Mochi; Alessandro Algardi arriverà a Roma nel 1625 circa.
I primi anni trascorsi a Roma furono certamente difficili per il D., anche se non gli mancarono incarichi. Un ritratto eseguito da Van Dyck (Bruxelles, Musées royaux des beaux-arts de Belgique), molto probabilmente nel 1622-1623, durante il suo soggiorno a Roma, lo mostra come un gentiluomo di circa venticinque anni, grave e pieno di decoro, che tiene in mano una testa di satiro; testina che il Freytag (1976, p. 200) ha identificato come un'opera giovanile dello scultore stesso, il che testimonierebbe già a quella data l'interesse del D. per lo studio dell'arte antica. Lo stretto rapporto di amicizia tra il D. e Nicolas Poussin, giunto a Roma nel 1624, è un nodo fondamentale per comprendere l'ulteriore sviluppo dello stile dello scultore.
Fu forse proprio il D., già pratico per le esigenze del suo tirocinio tecnico, a spingere l'amico verso quegli studi sull'antico di cui le minuziose misurazioni sull'Antinoo del Belvedere, ricordate dal Bellori, sono la testimonianza più nota. E forse fu ancora sua, come sembra suggerire pure il Bellori, l'iniziativa delle esercitazioni intraprese da entrambi intorno al 1626 sui Baccanali di Tiziano allora in villa Aldobrandini.
È comunque chiaro ed accertato che fu il Poussin ad avere la funzione di guida nell'orientamento di quel "classicismo", avviato specialmente dal 1630 in poi, a cui aderiva anche il D., il quale, tuttavia, "non si esercitò nell'istoria" (Bellori, 1672), più impegnato e preoccupato di risolvere singoli problemi di forma; infatti gli studi compiuti insieme col pittore si rivelano soprattutto nella realizzazione concreta delle sue opere, che risentono in particolare di un intenso pittoricismo di origine veneta.
Negli anni di più stretta collaborazione tra i due artisti va collocato il Baccanale marmoreo pubblicato dal Faldi (1959), ora alla Galleria Doria Pamphilj. Ancora nella Galleria Doria Pamphilj è conservato un altro bassorilievo, pubblicato anch'esso dal Faldi, raffigurante l'Amordivino che vince l'Amor profano; il modello in creta si trova alla Galleria Spada. Il Faldi riteneva di poter datare il marmo verso la metà dei quarto decennio del Seicento ma in seguito la critica ha anticipato la datazione agli anni compresi tra il 1627 ed il 1629 (Noehles, 1964, pp. 93 s.; Nava Cellini, D. e Poussin…, 1966, p. 39). Del medesimo soggetto esiste una copia in porfido eseguita da Tommaso Fedele detto Tommaso del porfido (Madrid, Prado).
Deriva certamente da un'idea del Fiammingo il bassorilievo con il Sileno dormiente, il cui originale in marmo si conservava anticamente nello studio di Cassiano Dal Pozzo (Bellori, 1672, pp. 271 s.). Un bassorilievo in marmo di uguale soggetto e di buona fattura si trova oggi a Bruxelles nella collezione Dulière ed altre repliche, anche di materiale diverso, sono a San Pietroburgo, a Francoforte, a Berlino e a Londra (Hadermann Misguich, 1977, pp. 76 ss.).
Pure da un originale dello scultore deriva il rilievo con Putti che giocano con una capra, noto anch'esso in diversi esemplari. Comunque di tutti i bassorilievi citati esistono un buon numero di repliche, anche di buona qualità (Fabiansky, 1985). Ancora a questi anni va riferito il piccolo Bacco mannoreo (Roma, Galleria Doria Pamphilj) "pervaso di prassitelico languore", rintracciato e pubblicato da Martinelli (1952, p. 411), la cui fattura è pittorica, neoveneta e non esente da influenze berniniane. Autografa è anche la statua a tutto tondo dell'Amoreinchinato a lavorare il suo arco (Berlino, Staatliche Museen): assai danneggiata durante la guerra, rivela sempre l'altissima qualità del modellato ed è databile a prima del 1629.
Il tema del putto è stato trattato dal D. per tutta la vita e sempre con una particolare sensibilità; i suoi fanciulli hanno una grazia ed una spontaneità unica che valsero al maestro l'ammirazione dei contemporanei e gli assicurarono la fama nei secoli successivi. I musei e le collezioni, pubbliche e private, di tutto il mondo possiedono opere eseguite nei più diversi materiali (marmo, bronzo, cera, terracotta) di mano del D. o derivate da suoi modelli. è spesso difficile distinguere gli originali, sempre che siano noti, dalle copie o dalle repliche successive; negli ultimi anni in particolare si sono avuti molti contributi critici che hanno accettato o rifiutato attribuzioni di nuovi lavori dello scultore, ma ciò nonostante non è ancora possibile redigere un catalogo completo della produzione del Du Quesnoy.
Facendo riferimento alle diverse tipologie trattate dallo scultore e note attraverso le fonti, si possono ricordare ad esempio Putto addormentato (Firenze, Casa Buonarroti e palazzo Pitti; Bruxelles, Musées royaux d'art et dhistoire; Vienna, Kunsthistorisches Museum); Putto che mangia l'uva (Bruxelles, Musées royaux d'art et d'histoire; cfr. Hadermann Misguich, 1977, p. 75); Putto che tende l'arco (Bruxelles, Musées royaux d'art et d'histoire); Putto che corre (Vienna, Kunsthistorisches Museum); Putto con un libro (Londra, Victoria and Albert Museum).
Restando sempre agli anni precedenti il 1629, bisogna considerare come il repertorio dello scultore col procedere della carriera si allarghi a comprendere anche la ritrattistica. Il busto di VirgilioCesarini (Roma, palazzo dei Conservatori) è solo attribuito al D. e datato intorno al 1624 (Nava Cellini, 1955, pp. 27 s.); sono invece opere documentate e citate dalle fonti i due busti di Bernardo Guglielmi (Roma, S. Lorenzo fuori le Mura) e di John Barclay (Roma, convento di S. Onofrio), databili entrambi al 1627 (Noehles, 1964, p. 87). I busti del D., estremamente eleganti, risentono in primo luogo della ritrattistica berniniana, ma non si tratta di una esplicita adesione alla poetica del "ritratto parlante".
Il D. non era interessato né a caratterizzare vivacemente il personaggio ritratto, né era incline a scolpire il marmo in modo da fare sembrare in movimento la figura; infatti i suoi ritratti hanno lo sguardo sempre fisso. Egli era però in grado di rendere con estrema finezza le sfumature interiori dell'anima dei suoi personaggi, come rivela pienamente il Barclay.
Nei primi mesi del 1629 il D. eseguiva il monumento funebre al compatriota Adriano Uryburch in S. Maria dell'Anima dove l'iconografia rimanda forse ad elementi propri della formazione fiamminga e quindi al manierismo nordico; ma la resa formale risente dell'influenza neoveneta.
Fin dal 1626 è documentato l'interesse di Urbano VIII per il D., al quale vengono effettuati pagamenti per una statua di S. Sebastiano e per un Crocefisso; entrambe le opere non sono oggi reperibili (Fransolet, 1942, p. 164). L'anno dopo, nel 1627, il D. lavorava, alle dipendenze del Bernini, alla realizzazione del baldacchino in S. Pietro: i documenti (Pollak, 1931, pp. 355 ss.) attestano pagamenti "per aiuto degli angeli" e per aver aiutato ad eseguire dei modelli "sopra le colonne" (cfr. Wittkower, 1966, pp. 189 s.).
Negli anni immediatamente successivi è da collocare la ideazione delle due opere più famose del D.: la S. Susanna (Roma, S. Maria di Loreto) e il S. Andrea (Roma, S. Pietro).
Nel 1629 il D. già lavorava alla statua di S. Susanna che fu esposta al pubblico nel 1633 ffluse, 1970). La scultura, confrontata da sempre con la S. Bibiana del Bernini di qualche anno precedente, ebbe un successo clamoroso divenendo il prototipo del "classicismo barocco" (cfr. Sutherland Harris, 1977; Montagu, 1985). Testimonianza dell'immenso fascino suscitato sui contemporanei, ancora vivo nel sec. XVIII (Lossky, 1939, pp. 333 ss.), sono le repliche della testa della santa (Wittkower, 1972, p. 231 n.38) e le numerose derivazioni tipologiche.
Il problema relativo alla cronologia del S. Andrea ed ai rapporti di questa scultura con esempi berniniani è stato spesso discusso (Mahon, 1962, pp. 66-72; Noehles, 1964, p. 91; Nava Cellini, D. e Poussin…, 1966, pp. 45 ss.). La congregazione di S. Pietro aveva deciso già nel 1627 di inserire quattro statue nelle nicchie sotto la cupola michelangiolesca. Il Lavin (1968, p. 20) sulla base di documenti (Pollak, 1931, p. 427) sostiene che il primo disegno del S. Andrea, approvato dalla congregazione nel giugno del 1628, era del Bemini e che solo in seguito fu dato al D. l'incarico di realizzare l'opera, compiuta entro il 1639 (Pollak, 1931, pp. 432-436). "Non ebbe coraggio il Fiammingo di rinunciare al gusto dominante di panneggiare; cosicché … si adattò ad uno stile, di pieghe un pò caricate e voluminose, ma più facili, senza cadere interamente nella cattiva maniera degli altri" (Cicognara, 1824, p. 168). La polemica contro la statuaria berniniana è evidente, ma è bene individuato il tentativo dei D., che per la prima volta si cimentava in un'opera di cosi grandi dimensioni, di distinguersi dal Bernini "semplificando per grandi piani il torso e il panneggio", ma nello stesso tempo di emulare il grande scultore barocco rendendo più drammatico il volto dell'apostolo.
I biografi raccontano dettagliatamente come l'esecuzione della grande scultura fosse fonte per l'artista di molti problemi, anche psicologici: gli procurò amarezze e perdita di denaro invece che guadagno. La statua infatti fu collocata in una nicchia diversa da quella per la quale era stata realizzata e lo scultore "se ne dolse e raddoppiò le sue querele, quasi per ogni via si cercasse di nuocergli, fin con mutargli il lume e le vedute" (Bellori, 1672, p. 275).
Il suo nome, a conferma della stima di cui godeva in questi anni, appare dal 1632 tra quelli dei membri della Accademia di S. Luca (Hoogewerff, 1913, p. 123); il 9 genn. 1633 venne proposto come membro dell'Accademia dei Virtuosi al Pantheon (Orbaan, 1914, p. 42). Negli anni compresi tra il 1633 ed il 1640 loscultore, sempre in S. Maria dell'Anima, portò a termine il monumento funebre di Ferdinando Van den Eynde (morto nel 1630).
Di sicuro il D. non lavorò al monumento prima del 1633 e si sa che nel 1635 l'opera non era ancora stata collocata al suo posto; cosa che avvenne certamente prima del 1640 (Fransolet, 1935, p. 71). Caratteristica di questa secondo monumento funebre è la maggiore chiarezza della membratura architettonica, un modellato più largo delle superfici scolpite che sembrano staccarsi dal fondo "con valori plastici più determinati e con contorni più risentiti" (Noehles, 1964, p. 92).
Il D. fu anche incaricato di scolpire il monumento funebre del pittore Jacques de Hase, morto nel 1634, che venne collocato nella chiesa di S. Maria in Camposanto. Il deposito, che fu smembrato nel 1652, è certamente opera di collaborazione e viene considerato autografo dello scultore fiammingo solo il "putto che con una mano velata si asciuga le lacrime dalla guancia e con l'altra spegne la face della vita umana" nonostante il Bellori affermi che "né meno è intieramente di sua mano, ma ritoccato ed eseguito col suo modello" (Bellori, 1672, p. 277; Schlegel, 1976).
Alla fine del 1633 o agli inizi del 1634 va riferito il piccolo busto del Nano del duca di Créqui (Roma, collezione del principe Urbano Barberini), un unicum nella produzione ritrattistica del Du Quesnoy. Alla solita raffinatezza poco caratterizzata si sostituisce quasi la caricatura, il grottesco si ingentilisce per diventare arguzia (Lavin, 1970, pp. 132-137).
Il Martinelli (1962) ha ritrovato nel Museo di Roma il "modello di creta del signor cardinale di Savoia, fatto da Francesco Fiammingo", modello del busto in marmo conservato a Torino nella Galleria Sabauda (ricordato dal Bellori che lo data 1635), in cui il D. si accosta ai principi ritrattistici in voga in quegli anni. Di qualche anno posteriore sembra il bel busto della Heim Gallery di Londra (Summer Exhibition, 1967), che è molto probabilmente un ritratto del cardinale GuidoBentivoglio.
Il confronto con il busto berniniano di Urbano VIII in collezione Barberini è pertinente, ove si consideri ovviamente la diversa ricerca stilistica del D. intento in primo luogo alla raffinatezza formale, ma capace di penetrare la personalità del cardinale ritratto (Röttgen, 1968, pp. 94-99). Autografo è certamente il bel busto della Vergine conservato nella chiesa di S. Maria di Loreto a Lisbona. Secondo la Nava Cellini (Una nuova opera…, 1966, pp. 3-16) fu commissionato dal marchese di Castel Rodrigo, ambasciatore di Spagna presso la S. Sede dal 1633 al 1641 che, come racconta il Bellori, fu un mecenate dell'artista fiammingo e gli ordinò vari lavori, oggi perduti, per la chiesa di S. Benedetto a Lisbona.
Non sono ancora identificate le numerose "teste con busti di argento e di metallo", ricordate in gran numero dal Bellori, che venivano esposte sugli altari romani nei giorni solenni. Perdute sono anche le due teste in terracotta di Cristo in età giovanile e della Vergine che facevano parte della collezione di Francesco Barberini (Bellori, 1672). Vanno comunque segnalate due versioni in bronzo di buona qualità, una a Vienna (Planiscig, 1924, pp. 214 s.), l'altra a Raleigh nel North Carolina Museum (Valentiner, 1957, pp. 9 s.).
Sempre il Bellori descrive con esattezza, indicando persino le dimensioni, un gruppo in bronzo rappre sentante "Cristo fragellato alla colonna fra due ebrei che lo battono crudelmente", gruppo che secondo la Nava Cellini (D. e Poussin…, 1966, p. 55) sarebbe stato realizzato dall'artista negli anni 1637-1638.
La Montagu (1985, pp. 315-320) ha ipotizzato che esistano differenti versioni del gruppo; alcune, come l'opera conservata ai Musées royaux di Bruxelles, sarebbero state fuse da un modello del D., altre invece avrebbero utilizzato per il Cristo alla colonna un modello del Fiammingo mentre i due flagellatori deriverebbero da modelli dell'Algardi (Vienna, Kunsthistorisches Museum).
All'ultimo periodo dell'attività del D. va riferita la lastra marmorea con il Concerto d'angeli, eseguita per l'altare della cappella Filomarino ai Ss. Apostoli di Napoli (bozzetto in cera a Berlino, Staatliche Museen Preussicher Kulturbesitz). Il coro angelico è composto di tre gruppi di puttini collegati fra di loro da un fondale di nuvole e di cielo, puttini che sembrano derivare da quelli del monumento Van den Eynde, ma resi in modo più plastico e più dinamici.
Il D. era vissuto a Roma tormentato da amarezze e assillato da preoccupazioni e malanni spesso soltanto immaginari (Wittkower, 1968, pp. 135 ss.). Era comunque in cattivo stato di salute e forse proprio per questo motivo accolse con sollievo verso la fine del 1642 un invito del re di Francia Luigi XIII a stabilirsi a Parigi come artista di corte e per dirigere un'accademia di scultura: incarico prestigioso che avrebbe coronato ufficialmente la sua fama. Solo nell'estate del 1643 si mise in viaggio in condizioni di salute assai precarie; alcune fonti sostengono che egli fosse stato avvelenato dal fratello Jerome "parte tirato da odio e parte da inique ambizioni di succedergli nella gloria della scultura" (Bellori, 1672, p. 279). Ma non esistono prove a sostegno di questa tesi, criticata anzi dal Passeri (1772, pp. 94 s.) che la giudica una calunnia.
Il viaggio verso la Francia del D. fini a Livorno, dove mori il 19 luglio 1643 (Fransolet, 1942, p. 66).
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G. Casale