Donna
Una delle acquisizioni più significative nell'universo femminile degli ultimi decenni del Novecento attiene al campo linguistico ed è la conquista del plurale. Donne - non più donna - indica in tutto il mondo occidentale una diversità costitutiva, di soggetti non riconducibili a una condizione biologica unificante, o a uno statuto ontologico assoluto, o alla contrapposizione con la pretesa universalità del soggetto per eccellenza, l'essere umano qualificato come uomo. Le differenze tra le d. - oltre che tra d. e uomini - costituiscono ormai l'asse intorno a cui organizzare ricerche e riflessioni, secondo una prospettiva che accomuna la maggior parte dei linguaggi e dei metodi disciplinari.
Altrettanto plurali dunque sono gli indicatori capaci di tratteggiare le diversità profonde che attraversano condizioni di vita, esperienze e progettualità femminili; soprattutto nella storia del terzo millennio, che appare solcata a sua volta da disparità abissali i cui confini - mobili, a volte intrecciati e sovrapposti - sono segnati dallo sviluppo economico, dalle religioni, dal riconoscimento nonché dall'applicazione di specifici diritti. Eppure, soltanto uno sguardo inclusivo, che cerchi di abbracciare mondi i cui aggettivi riflettono la molteplicità degli approcci (occidentale, islamico, terzo, quarto e così via), può probabilmente restituire la particolare complessità che in ogni contesto caratterizza la vita delle donne.
A partire dalla demografia, dalla comparazione tra i dati che descrivono la distribuzione della popolazione e il ciclo di vita femminile. La correlazione più evidente è quella che lega il rapporto tra i sessi (sex ratio) con lo sviluppo economico, ma anche con il credo religioso: in tutti i Paesi dell'Africa nel 2005 il numero delle d. si è rivelato pressoché uguale a quello degli uomini, con le eccezioni della Costa d'Avorio, della Nigeria - una delle nazioni più povere e devastate da calamità e conflitti - dove le d. sono apparse significativamente meno degli uomini, e della Repubblica Sudafricana - il Paese più sviluppato del continente - dove il rapporto è risultato sensibilmente rovesciato. La sex ratio (espressa in questo caso come rapporto percentuale tra popolazione femminile e popolazione maschile) cresce di poco ma coerentemente nell'America Centrale e Meridionale ma torna ad abbassarsi in Asia: in Cina e in India (entrambe a 95), dove sono stati adottati incentivi alla denatalità femminile che hanno condotto perfino all'infanticidio delle bambine, e nei Paesi musulmani, dove precipita a 76 nel Baḥrein, a 67 nel Kuwait, a 47 negli Emirati Arabi: dati questi ultimi che suggeriscono - più che un rapporto tanto squilibrato - la mancanza di registrazione anagrafica delle d., e dunque l'assenza per loro di qualunque diritto di cittadinanza. In Europa poi le d. sono ovunque numericamente superiori agli uomini, dal minimo di 100 dell'Islanda a 116 della Federazione Russa, passando attraverso i 105 di Francia e Germania e i 106 di Italia e Svizzera. Una volta superata l'età riproduttiva tuttavia, le d. sopravanzano gli uomini anche nell'Africa più povera, per distanziarli stabilmente di 4-6 punti nella sex ratio negli Stati Uniti e in tutta Europa.
Uno dei rischi principali risiede dunque nella maternità: le aree in cui le d. sono meno degli uomini sono anche quelle dove il tasso di fertilità totale è più alto e più rarefatto l'accesso alla contraccezione. I dati sull'uso di metodi contraccettivi, sia quelli tradizionali sia i più moderni, sono incerti e di difficile comparazione, ma univoci nell'indicare macrofenomeni e tendenze: nei Paesi africani su 100 d. solo poche decine, o anche meno, ricorrono a pratiche contraccettive spesso primitive e poco efficaci, come l'allattamento prolungato; la proporzione aumenta superando quasi ovunque il 50% nei Paesi cattolici del Centro e del Sud America; ha forti oscillazioni in Asia, dove tocca l'84% in Cina ma scende a 32% nell'Arabia Saudita, a 28% in Pakistan e negli Emirati, a 5% in Afghānistān, aree di stretta osservanza musulmana; mentre in Europa le d. che usano contraccettivi raggiungono quasi ovunque i due terzi dell'intera popolazione femminile in età fertile. La fertilità segue naturalmente un andamento inverso, così come la mortalità materna: nel 2000 per cause legate alla gravidanza, al parto o al puerperio sono morte circa 2000 d. su 100.000 in Sierra Leone, 1800 in Malawi, 1900 in Afghānistān, 680 ad Haiti, 17 negli Stati Uniti, 5 in Italia, 2 in Svezia. Ma tali cifre sono rese del tutto aleatorie dall'inclusione non sistematica delle morti, difficilmente rilevabili, per pratiche abortive. Insomma, se per maschi e femmine è del tutto evidente la correlazione tra aspettativa di vita e povertà, per le d. tale correlazione è complicata da nessi altrettanto significativi e legati strettamente alla sessualità e alla riproduzione: la disponibilità di strutture sanitarie e l'accesso alle cure mediche per gravidanza e parto, l'istruzione per quanto riguarda i metodi contraccettivi.
I tassi di analfabetismo seguono gli stessi percorsi tra i mondi, mostrando una sconcertante coerenza con i dati sulla contraccezione. Raggiungono punte elevatissime nella maggior parte dei Paesi africani: tra gli ultimi anni del Novecento e i primi del nuovo secolo nella fascia d'età compresa tra i 15 e i 24 anni erano analfabeti l'86% delle d. e il 74,5% degli uomini in Burkina Faso, rispettivamente l'85,8% e il 73,8% nel Niger, il 48,5% e il 30,5% in Costa d'Avorio (ma solo il 5,6% e il 6,3% nella Repubblica Sudafricana). L'analfabetismo si abbassa notevolmente e soprattutto tende a livellarsi tra d. e uomini in tutto il continente americano (con le eccezioni però del Guatemala e di Haiti, Paesi nei quali il tasso tocca il 33,5% per le d. e il 34,2% per gli uomini); mostra picchi isolati ma impressionanti in Asia: mentre in Cina infatti nel 2000 non sapevano leggere e scrivere solo l'1,5% delle giovani d. e lo 0,8% dei giovani maschi, nel Bangla Desh i tassi raggiungevano rispettivamente il 58,9% e il 42,2%, per scendere approfondendo tuttavia il divario in India (32,3% per le d., 15,8% per gli uomini), in Pakistan (46,1% e 25,2%) e nello Yemen (49,1% e 15%). L'Europa esibisce cifre di poco superiori allo zero e quasi nessuna differenza tra i generi.
Per sintetizzare, povertà e ignoranza (ma anche alcune religioni) legano strettamente le d. alla loro biologia, vincolandole a un susseguirsi di parti e maternità che minano la loro aspettativa di vita e che spesso contribuiscono a impedire l'accesso all'istruzione. Ma non è vero il contrario: non è vero che dove le d. accedono senza attriti anche all'istruzione superiore, né che dove lo sviluppo economico garantisce alla maggioranza della popolazione livelli accettabili di benessere, la biologia e la riproduzione non aprono nell'esistenza femminile gravi contraddizioni e conflitti. Pur tenendo conto naturalmente della differenza abissale tra lotta per la sopravvivenza e lotta per l'affermazione di un progetto personale.
I dati sull'istruzione secondaria e su quella superiore divaricano ulteriormente la forbice tra ricchi e poveri del mondo. Se nel Niger frequentano una scuola secondaria il 4% delle ragazze e il 7% dei ragazzi della fascia d'età corrispondente, in tutti i Paesi sviluppati sul modello occidentale - dal Giappone agli Stati Uniti alla maggior parte dei Paesi europei - la percentuale non scende mai sotto l'80%, e registra soprattutto un sorpasso decisivo: le d. studiano di più degli uomini. Il fenomeno si accentua per quanto riguarda l'istruzione superiore: negli Stati Uniti frequentano l'università o corsi superiori professionalizzanti il 94% delle giovani nella fascia d'età immediatamente seguente quella della scuola secondaria, contro il 70% dei maschi; il divario si stabilizza intorno ai 15-20 punti in quasi tutta l'Europa: 61% contro 46% in Italia, 60% contro 47% in Francia, 70% contro 57% in Gran Bretagna, ma 93% contro 60% in Svezia. Le d. dunque investono più degli uomini nello studio e arrivano sul mercato del lavoro più qualificate. Le frustrazioni cominciano in questo momento: non tanto al livello dell'accesso, perché nella maggior parte del mondo occidentale il tasso di disoccupazione femminile è pressoché uguale, se non inferiore, a quello maschile (con le significative eccezioni dei Paesi europei dell'area cosiddetta mediterranea: l'Italia, con l'11,6% per le d. e il 6,7 % per gli uomini, la Grecia, rispettivamente con il 14,6% e il 6,2%, la Spagna con il 15,9 % e l'8,2%). Le disparità appaiono evidenti nella distribuzione della forza lavoro: le d. sono ovunque più degli uomini nel lavoro dipendente, il loro numero è irrilevante tra i datori di lavoro, circa la metà di quello degli uomini tra i lavoratori autonomi; ai vertici delle carriere poi, le d. compaiono come amministratori e manager per il 46% negli Stati Uniti, ma la percentuale scende a circa un terzo degli uomini in Europa, a un quarto (21%) in Italia.
La distribuzione è ineguale nonostante siano state riconosciute l'uguaglianza nell'accesso a tutti i livelli delle professioni - comprese le carriere militari - e la parità nelle retribuzioni e nelle garanzie. Tornano a mostrarsi dunque - nelle fasce superiori dell'istruzione e dell'attività economica dei Paesi più sviluppati - contraddizioni e impasses che richiamano la complessità della condizione femminile di tutto il pianeta. Una complessità che trova uno dei suoi cardini nell'esperienza materna, la quale richiama a sua volta gli assetti di base dello Stato sociale: in tutto il mondo alle madri lavoratrici spetta un periodo di assenza dal lavoro, con forti variabili tuttavia nella durata (dai 30 giorni della Tunisia al doppio o poco più in molti dei Paesi di stretta osservanza islamica, a un anno in alcune nazioni dell'Europa orientale, passando per 5-6 mesi della maggior parte dei Paesi europei), nella retribuzione garantita (dallo 0% degli Stati Uniti e dell'Australia al 100% di molti Paesi di tutti i continenti - ma per periodi spesso inferiori a quelli di assenza legittima - con una prevalenza di percentuali attestate intorno all'80% della retribuzione effettiva), nel soggetto che eroga il contributo (la previdenza sociale per la maggior parte, ma spesso il datore di lavoro o entrambi secondo proporzioni ancora variabili). Il fatto poi che il lavoro part-time sia ovunque prerogativa femminile indica che l'assenza o l'inadeguatezza di servizi per la prima infanzia (asili nido comunali, aziendali ecc.) spinge spesso le madri a ritrarsi dall'impegno lavorativo per assumere in pieno le responsabilità familiari.
La maternità insomma appare una scelta penalizzante, ostacolo alla carriera e onere pesante nei bilanci domestici. La mancanza di forti strutture di welfare a sostegno delle madri impedisce alle d. di accedere pienamente al mercato del lavoro (nelle aree dove matrimonio e riproduzione sono esperienze precoci nel ciclo di vita femminile) oppure le induce spesso a riorientare le proprie capacità verso attività di supporto del lavoro - agricolo, commerciale o imprenditoriale - del marito. Si perpetua così un circolo vizioso che ha effetti importanti non soltanto sul destino personale, ma sulla percezione sociale del valore delle donne. L'accesso a un'occupazione remunerata al di fuori del nucleo familiare infatti - secondo l'economista A.K. Sen (2000) - aumenta il valore intrinseco della persona e gli investimenti su di essa e, di conseguenza, anche i diritti da essa goduti; mentre la discriminazione delle d. nella partecipazione al lavoro retribuito esterno alla famiglia diminuisce il loro valore, il loro accesso all'assistenza, la disponibilità di servizi a esse dedicati, la loro visibilità sociale.
La battaglia contro la discriminazione delle d. ha onde lunghe, implicazioni teoriche controverse, esiti incerti. Sul piano della coscienza sociale, i movimenti degli anni Settanta e Ottanta del Novecento hanno raggiunto conquiste importanti (in Italia, la l. nr. 194 sull'aborto, nel 1978) e soprattutto diffuso una nuova consapevolezza delle differenze sessuali, per poi svanire dalla scena pubblica e dalla ribalta dei mass media. Sul piano della cultura e della ricerca, le d. hanno prodotto conoscenza e riflessione teorica (per es. la categoria di gender, che ha offerto nuove prospettive alla ricerca nelle scienze umane), ma sono ancora ai margini della maggior parte dei centri di potere accademici. Economia e politica risultano poi terreni particolarmente impervi alla presenza femminile. La politica soprattutto: nella maggior parte dei Paesi la rappresentanza delle d. è tanto bassa da costituire un problema urgente e da suscitare dibattiti appassionati. Appare evidente insomma che garantire il pieno accesso delle d. alla sfera pubblica e contrastare la discriminazione richiede non solo le energie individuali e collettive delle d. stesse, ma anche impegni istituzionali a livello nazionale e sovranazionale.
Nella seconda metà del Novecento gli Stati hanno recepito tali istanze secondo sensibilità e progetti che possiedono una loro periodizzazione, scandita da iniziative ascrivibili per lo più all'Organizzazione delle Nazioni Unite. In una prima fase - dalldopoguerra alla fine degli anni Settanta - la priorità è stata assegnata alla costruzione di una parità formale tra d. e uomini: dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948 (in cui la differenza sessuale era posta sullo stesso piano delle differenze di razza, lingua, religione ecc.) all'istituzione nel 1979 del CEDAW (Convention to Eliminate All Forms of Discrimination Against Women), che prevede garanzie concrete da parte degli Stati nazionali. Nella seconda fase - che si può collocare tra l'istituzione del CEDAW e la Conferenza di Pechino del 1995 - si è diffusa la consapevolezza dell'insufficienza dell'uguaglianza formale, la disparità di genere è stata definita come una mancanza di democrazia, e hanno acquistato credito le 'azioni positive' suggerite dalla Convenzione: istituzioni e iniziative specificamente rivolte a imporre e garantire la presenza e la partecipazione delle d. a tutti i livelli della società. In questo periodo è stata istituita in Italia, nel 1984, la Commissione nazionale per la parità e le pari opportunità tra uomo e donna (CNPO), con il compito di "studiare ed elaborare le modifiche necessarie a conformare la legislazione al fine dell'uguaglianza tra i sessi e le azioni per realizzarla" (CNPO, 1988, 1° vol., p. 2047). La terza fase coincide con le priorità individuate nella Conferenza di Pechino: l'enpowerment (il rafforzamento del potere di azione delle d. in tutti gli ambiti della vita pubblica e privata, con un esplicito riferimento al diritto di controllare la propria fecondità) e il mainstreaming (l'introduzione della prospettiva di genere nelle culture dominanti e nelle tematiche più rilevanti). Le 'azioni positive' destinate ad attuare questi due obiettivi si concentrano sull'impegno alla garanzia di pari diritti, pari responsabilità, pari opportunità e pari partecipazione delle d. e degli uomini in tutti gli organismi istituzionali e nei processi politici decisionali.
Ancora a livello sovranazionale, i programmi d'azione dell'Unione Europea - elaborati ogni cinque anni circa - hanno seguito e articolato le indicazioni delle Nazioni Unite, incoraggiando le 'azioni positive' nel campo del lavoro, della formazione, della rappresentanza.
È proprio sul terreno della presenza femminile nelle cariche politiche elettive tuttavia che in molti Paesi europei ed extraeuropei il dibattito - all'interno della classe politica in generale ma anche tra giuristi, storici e tra le stesse d. impegnate nella militanza e nella riflessione femminista - ha visto il formarsi di schieramenti contrapposti. I dati sulla presenza femminile nei parlamenti dei diversi Paesi sono evidenti: pur restringendo il campo di osservazione ad alcuni dei maggiori Paesi occidentali, le d. che occupano seggi parlamentari nel 2005 sono il 14% negli Stati Uniti, il 12% in Francia, il 18% in Gran Bretagna (tutti con un trend in lieve ascesa), il 12% in Italia (con un trend in lieve discesa). Significativamente diversa la situazione nei Paesi europei che hanno introdotto e attuato norme costituzionali dirette al riequilibrio della rappresentanza fra i sessi: le d. che siedono in Parlamento sono il 45% in Svezia, il 38% in Danimarca e in Finlandia, il 35% in Belgio. Di fronte all'innegabile irrisorietà del numero delle d. nelle assemblee legislative - rispetto alle profonde trasformazioni realizzate in altri campi della vita sociale - è stata dunque proposta come 'azione positiva' per una distribuzione equilibrata della partecipazione di genere al potere politico la modifica delle leggi elettorali, con l'introduzione del sistema delle 'quote', in base al quale parlamenti e liste elettorali dovrebbero garantire alle d. percentuali oscillanti fra il 30% e il 50% a seconda dei diversi progetti di riforma. Questo modello di 'democrazia paritaria' ha suscitato in molti Paesi polemiche vivaci, che possono essere schematizzate solo a costo di una pesante riduzione del loro spessore teorico: dalla parte dei 'paritaristi' si pone l'accento sui limiti dell'uguaglianza formale di cittadini astratti e asessuati offerta dalla tradizione universalista. L'uguaglianza formale implica l'omologazione a un modello maschile, mentre è fondamentale riconoscere che l'umanità è duale e che le d. non sono riconducibili alle minoranze etniche o linguistiche: le d. non sono una categoria di cittadini ma una 'categoria dell'umano', e la politica deve adeguarsi alle determinanti fondamentali della vita umana. Le posizioni 'antiparitariste' ammoniscono invece contro l'abbandono dell'universalismo giuridico, un abbandono fondato su una concezione delle d. come portatrici di interessi specifici rappresentabili solamente dalle d., e dunque origine di una sorta di rinnovato corporativismo della politica. Alla base delle contrapposizioni sono individuabili anche teorie divergenti della differenza sessuale: chi ne afferma lo statuto ontologico vede un'incompatibilità irriducibile tra il riconoscimento della differenza e l'accesso all'uguaglianza formale, mentre chi pone l'accento sul gender come effetto di pur lunghissimi processi storico-politici ritiene possibile il loro ribaltamento anche attraverso l'introduzione di modelli di democrazia paritaria.
Il dibattito - già denso di implicazioni e paradossi - appare ulteriormente complicato dall'emergere di una figura nuova, fonte di inquietudini e contraddizioni: quella della d. migrante, spesso in bilico tra culture diverse e contrapposte, decisa a conservare i valori di origine e al tempo stesso a rivendicare i diritti del Paese di approdo, alla ricerca di identità nuove e di nuovi modelli di convivenza e di civiltà.
Bibliografia
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