MONTI, Domenico
MONTI, Domenico. – Nacque a Fermo il 22 gennaio 1816 dal conte Arnolfo e da Maria Forti.
La famiglia, di origini genovesi, ebbe per capostipite sant’Arnolfo, duca d’Austrasia. Un Lucio, figlio di Bernardino, senatore del Consiglio regio di Napoli, si trasferì a Fermo nel 1570 e sposò la nobile Camilla Martello. In seguito il casato annoverò militari e amministratori pubblici, ma solo agli inizi dell’Ottocento e sotto il regime napoleonico consolidò, con Arnolfo, il proprio patrimonio attraverso diversi acquisti di proprietà terriere; la famiglia paterna e materna erano inoltre imparentate con le più note famiglie fermane.
Ricevuta la prima educazione nella città natale, Monti studiò lettere e filosofia nel rinomato collegio di Spello. Nell’ambiente familiare maturò le convinzioni liberali, tanto è vero che il palazzo avito venne controllato nel 1831 dalla polizia pontificia: i Monti, insieme ai Salvadori e ai Trevisani, rappresentavano quella parte della nobiltà fermana che, educata ai principi illuministici, mal sopportava l’autocrazia papalina e sperava di far leva sul diffuso malcontento sociale ed economico per dare vita a riforme politiche e amministrative. Rientrato a Fermo agli inizi degli anni Quaranta, Monti sostenne il clima di apertura inaugurato nel 1846 dal pontificato di Pio IX e fu designato insieme con Giovanni Battista Gigliucci e Federico Passeri alla Consulta di Stato istituita nel 1847. Fu colonnello della guardia civica nel 1848 e poi di quella nazionale nel 1849, prendendo parte alle vicende repubblicane: l’8 giugno 1849, il giorno dopo che gli austriaci avevano occupato il Fermano, fu inviato a Macerata, insieme con Gigliucci e Cesare Morroni, per trattare sulla questione delle armi locali, ma l’ambasceria risultò vana. Intanto si stava preparando contro di lui e altri patrioti la vendetta dell’arcivescovo di Fermo, il cardinale Filippo De Angelis, che tra l’11 marzo e il 3 giugno 1849 era stato agli arresti per ordine del governo repubblicano. Si trattò di un’autentica persecuzione.
Arrestato il 18 settembre 1849 per tre distinti capi di accusa (l’arresto del cardinal De Angelis; la sottrazione di denaro e di oggetti dal palazzo arcivescovile; il possesso di armi vietate) Monti fu condannato dal tribunale della Sacra Consulta il 4 febbraio 1851 a 9 anni di carcere (Stato degli inquisiti, p. 239). Trascorse i primi 15 giorni nella fortezza di Ancona sotto costante minaccia di fucilazione, venendo poi trasferito nelle carceri fermane di S. Caterina. Si vide la pena ridotta dal pontefice, l’11 marzo 1851, a quattro anni ma, benché nuovamente graziato il 29 gennaio 1852, da Pio IX della punizione residuale, fu trattenuto in carcere «sino all’esito delle altre inquisizioni» (Leti, 1910, p. 8) per volontà del cardinal De Angelis. Un’altra sentenza che puniva i responsabili delle perquisizioni effettuate a Petritoli ai danni del monastero delle clarisse e di altri ecclesiastici lo condannò alla «perpetua inabilitazione a pubblico impiego» (ibid., p. 9) e a una consistente pena pecuniaria. Un’ulteriore sentenza del 21 settembre 1852 lo condannò a cinque anni di «opera pubblica» per una serie di presunti reati: quest’ultima pena fu diminuita dal pontefice, il 12 marzo 1853, a tre anni, commutati poi in altrettanti di detenzione. Con altra disposizione papale del 27 maggio 1854 poté espiare il resto della pena nel proprio casino di campagna. Tuttavia, il 23 giugno 1859 fu nuovamente arrestato, insieme con gli amici e patrioti Giuseppe Ignazio Trevisani e Camillo Silvestri, trasferito nelle carceri romane e successivamente condannato all’esilio.
Accostatosi alla politica liberale e cavouriana, tornò in auge con il tramonto della dominazione papalina e il 21 settembre 1860 si pose alla guida del governo provvisorio locale, occupando il palazzo delegatizio. Il crollo del sistema di potere autocratico determinò un vuoto di potere subito colmato da quegli esponenti del movimento liberale che, espressione dell’aristocrazia cittadina e del ceto forense e notarile, adottarono le misure opportune nella circostanza: dalla gestione dell’ordine pubblico all’istituzione della milizia cittadina, fino alla nomina dei nuovi giusdicenti. In quel frangente Monti fu nominato membro della Giunta provvisoria di governo della città e della provincia di Fermo.
Il compito più importante di questo ente consisteva nello scioglimento degli organismi di governo pontificio e nella nomina delle commissioni per i 48 municipi della provincia, a cominciare, per importanza, da Fermo. Dopo primi e incerti orientamenti sulla proposta di esponenti liberali, il 9 ottobre 1860 Monti fu designato presidente della Commissione provvisoria municipale fermana. Benché gerarchicamente subordinata a istanze superiori (quella del commissario generale straordinario Lorenzo Valerio e, poi, del commissario provinciale Vincenzo Salvoni) e rivolta a sostanziali compiti amministrativi, Monti impresse al nuovo istituto l’autorevolezza e il vigore necessari a evitare un salto nel buio, visto che la maggior parte della nobiltà locale aveva rifiutato di aderire al nuovo ordine di cose.
Pressato da urgenze di natura finanziaria e amministrativa, Monti dovette fronteggiare anche emergenze di carattere politico (la deportazione del cardinal De Angelis, avvenuta il 28 settembre 1860) e adottare misure drastiche (fu decretata la soppressione del collegio dei gesuiti locale e il trasferimento dei relativi beni a un’amministrazione controllata). Il 24 ottobre fu chiamato dal commissario Valerio a far parte della commissione per l’abolizione delle decime e per il miglioramento delle condizioni economiche dei parroci. Molto si impegnò nell’organizzazione del plebiscito del 4-5 novembre 1860 e anche sua moglie, la contessa Caterina Paccaroni, promosse un’iniziativa di adesione all’avvenimento che raccolse numerose donne e giovani inferiori ai 21 anni d’età, categorie escluse dal voto. La partecipazione elettorale di Fermo si rivelò inferiore alle altre province (pari cioè al 60,29%, contro la media del 63,79% marchigiano), ma il 99,4% dei votanti si espresse in favore dell’annessione alla monarchia sabauda (contro il 98,91% medio regionale).
Il 22 novembre 1860 Monti fu uno dei sei rappresentanti delle Marche che, insieme con il commissario straordinario Valerio e con il di lui segretario Gaspare Finali, consegnarono a Napoli i risultati del plebiscito a Vittorio Emanuele II. Si dimise dai vertici cittadini in seguito alla pubblicazione del nuovo riparto territoriale (22 dicembre 1860) che, tra le altre cose, sopprimeva la provincia di Fermo.
Con questo atto si decretava la perdita di una centralità governativa e territoriale che la città aveva goduto per secoli, provocando un diffuso malumore che si riverberò in vibrate proteste e in autentici tumulti iniziati nel Natale 1860 e proseguiti nei primi giorni del gennaio 1861.
Lo stesso Monti, in qualità di presidente della commissione municipale, indirizzò, il 28 dicembre 1860, una protesta alle autorità sabaude per aver recato grave offesa al decoro cittadino. Dimessosi dalla carica con tutta la commissione (1° gennaio 1861), ritenne che la perdita della provincia fosse misura temporanea e, pertanto, consigliò di agire con cautela e diplomazia, evitando dimostrazioni di piazza che, nell’assenza di un voto parlamentare sulla questione (il primo Parlamento italiano si sarebbe riunito il 18 febbraio 1861), avrebbero potuto rivelarsi controproducenti; la speranza in una soluzione di compromesso risultò però vana. Il 20 gennaio 1861 fu nominato senatore del Regno per la 21a categoria e convalidato il 21 febbraio successivo. Il 2 giugno 1862 ricevette il cavalierato mauriziano. Rifiutata la carica di sindaco, si adoperò a lungo in Senato, ai cui lavori fu abbastanza assiduo, per ottenere il distacco di Fermo dalla giurisdizione ascolana ma, non conseguendo alcun risultato, preferì lasciare Torino per trasferirsi a Firenze, optando per una vita tranquilla e solitaria, lontana dall’ufficialità, nonostante le esortazioni che provenivano in senso contrario dalle istituzioni pubbliche e da autorevoli esponenti come Silvio Spaventa e Ubaldino Peruzzi. Rientrato a Fermo, visse in disparte dalla vita pubblica: la moglie presiedette nel 1866, ai tempi della terza guerra d’indipendenza, il locale comitato costituito per raccogliere materiale infermieristico per il conflitto; e l’attività di questo ente fu così consistente che riuscì pure a donare una somma in favore dell’ospedale.
Morta Caterina nel 1871, Monti si spense a Fermo il 7 agosto 1873.
Fonti e Bibl.: Fermo, Biblioteca Civica Romolo Spezioli, Fondo Fracassetti, scheda biografica di M. D.; Atti Parlamentari, Senato del Regno, legislatura XI, terza sessione 1873, tornata del 17 novembre 1873, p. 9; G. Leti, Il Conte senatore D. M., Roma 1910; Id., Roma e lo Stato pontificio dal 1849 al 1870, Ascoli Piceno 1911, p. 68; Stato degli inquisiti dalla S. Consulta per la rivoluzione del 1849, a cura del R. Archivio di Stato di Roma, I, Roma 1937, pp. 238 s.; G. Badii, in Dizionario del Risorgimento nazionale, diretto da M. Rosi, III, Milano 1933, p. 635; A. Malatesta, Ministri, deputati e senatori d’Italia dal 1848 al 1922, II, Roma 1946, p. 218; Storia del Fermano, II, Dalla Restaurazione alla Comune, a cura di G. Colasanti, Padova 1971, pp. 157, 187; F. Porto, La Frontiera della democrazia. La Repubblica Romana del 1849 nella provincia di Fermo, introduzione di M. Severini, Ancona 2002, ad ind.; L. Gerosa, I liberali a Fermo dopo l’Unità, in il Montani, I (2007), pp. 7 s.; N. Olivieri, I protagonisti dell’annessione, in Le Marche e l’Unità d’Italia, a cura di M. Severini, Milano 2010, pp. 68 s.; C.M. Natale, Il Fermano, ibid., pp. 152, 159.