GRIMANI, Domenico
Primo dei cinque figli - gli altri sono Vincenzo, Girolamo, Piero, Marino - di Antonio di Marino, il futuro doge, e di Caterina di Domenico Loredan, nasce a Venezia il 22 febbr. 1461.
Accuratamente educato, perfeziona la sua preparazione allo Studio di Padova, ove, oltre a conseguire la laurea in diritto canonico, utile alla carriera ecclesiastica, approfondisce i prediletti studi filosofici a questi sospinto anche dallo stretto sodalizio con Antonio Pizzamano, il futuro vescovo di Feltre, già allora convinto tomista e contagiante con il suo entusiasmo il G., da lui indotto all'assidua frequenza dei corsi del domenicano Francesco Securo da Nardo, ossia del Nardò, titolare della cattedra in primo luogo di metafisica in seguito detta "in via Thomae". Conseguito, il 23 ott. 1487, il dottorato - tra gli esaminatori Niccoletto Vernia e tra i testimoni Pietro Pomponazzi - "in artibus", a Padova, preferisce sostare per oltre un anno distinguendosi nelle dispute, come ricorderà - in un discorso, pronunciato a Udine il 14 giugno 1498, a lui indirizzato - Gregorio Amaseo.
A dire dell'amico Pizzamano - che così esagera nell'edizione da lui curata degli Opuscula (Venetiis 1490) dell'Aquinate - il G. sarebbe l'aristotelico più dotto del tempo e, insieme, il più agguerrito confutatore di quanti osano dissentire dalle "ragioni di Tommaso", che, sostenute a spada tratta dal G., risultano, invece, inconfutabili. Estimatore del G. pure G. Pico della Mirandola cui il G., insieme con Pizzamano, fa visita a Firenze con lui discutendo di "cose fisiche", come ricorda lo stesso Pico, in una lettera, del luglio 1489, a Pizzamano. E d'accordo con Pico Poliziano, dal G. sollecitante un giudizio "super nonnullis phisicis dubitationibus", connesse alla propria traduzione d'Alessandro d'Afrodisia. Al G., "dignissimo nobili" e "acutissimo philosopho", ancora nel 1488, Elijah ben Moses Abba, ossia "Helias cretensis", aveva dedicato la propria versione in latino della Summa in meteorologica Aristotelis d'Averroè; e di lì a non molto Niccoletto Vernia dedicherà al G. le Quaestiones - di contro alla perversa opinione d'Averroè - de unitate intellectus et de animae felicitate, che saran pubblicate insieme con quelle di Alberto von Sachsen de phisica auscultatione (Venetiis 1516).
È agli studi, alle Muse che il G. dovrebbe - come si raccomanda Poliziano - dedicarsi. Di fatto - per esempio procurando a Girolamo Donà il manoscritto greco (lo stesso che, nell'aprile del 1490, Poliziano attende da Donà) del De anima d'Alessandro d'Afrodisia, sul quale procedere alla traduzione latina; e trascritta la versione, nel febbraio del 1491, "in lare" del G. - il G. è più promotore intendente dell'altrui studio che studioso in proprio a tempo pieno. Troppo pressante la ragion di famiglia - questa da un lato lo vuole in posizione eminente, dall'altro esige dalla eminenza da lui conseguita una mobilitazione a proprio sostegno - perché egli possa concedersi la quies di una riflessione continuata lontana dai negotia. Se schiva la politica che - in Senato nel 1487, tra quanti, nel 1489, ricevono a Rovereto l'imperatore Federico III per poi accompagnarlo a Verona, Vicenza, Bassano, Treviso, Aquileia - saggia appena subito annoiandovisi, non è che, optando per la carriera ecclesiastica, dai negotia prenda le distanze. Anzi: viene da dire che ci si tuffa, in ciò da subito affaccendato faccendiere a Roma dove, il 1° ott. 1491, Innocenzo VIII lo nomina segretario apostolico e protonotario.
"Decretarum doctor et notarius", è già attento a sommare benefici: la precettoria bolognese dei cavalieri gerosolimitani e un'abbazia cipriota. Intanto, già attivato il suo andar collezionando con l'acquisto, nel 1489, del breviario che prenderà il suo nome, mentre la dedica, in data 24 genn. 1492, da parte di Teofilo da Cremona, dell'edizione, da questo curata, dei Commentaria dell'Aquinate alla fisica aristotelica conferma il suo credito sul versante della cultura. D'altronde, per quanto in altro occupato, non è che gli studi il G. li abbia disertati. Per quel tanto che le incombenze concedono, è sulla "substantia separata" che riflette, e se a "probare genus entium separatorum" necessita il metafisico oppure basti il filosofo naturale che s'interroga.
Ma se siffatta quaestio cruccia la sua mente, l'esser fatto, il 20 sett. 1493, cardinale dal venale Alessandro VI - cui suo padre ha fatto avere 25.000 o 30.000 ducati - non cruccia la sua coscienza. Già riconosciuto "doctissimus", ora che è neoporporato Sigismondo de' Conti lo proclama "theologiae doctrina celebrem". Accanto ad Alessandro VI il 31 ottobre a Viterbo, il G. è tra quanti lo ricevono, il 19 dicembre, a Roma, quando vi fa l'ingresso. "Administrator", il 16 dicembre, del vescovado di Pafo, il 12 luglio 1494 è a Vicovaro in occasione dell'abboccamento del pontefice con Alfonso II d'Aragona re di Napoli. Non disturbante, per lui, l'ingresso, il 31 dicembre, di Carlo VIII a Roma, ché il versamento di una grossa somma lo sottrae a qualsiasi molestia. È con Alessandro VI il G. quando quello ripara, il 27 maggio 1495, a Orvieto, precedendolo poi quando, il 27 giugno, rientra a Roma. Ancora del 1° apr. 1494 la commenda del monastero camaldolese di S. Maria delle Carceri a Este, ma - a causa di un'annosa lite tra il G. e i Camaldolesi - effettiva solo dal 4 marzo 1507 sinché il G. non rinuncerà, nel 1512, a favore del fratello Piero. Girato il vescovado di Pafo a Giacomo Pesaro, il 3 luglio 1495 il G. diventa "administrator" dell'arcivescovado di Nicosia, cedendo, il 4 settembre, questo a Sebastiano Priuli, pago del mandato, rilasciatogli dal papa, di accedere in cambio al primo beneficio concistoriale vacante in territorio veneto. E se assegnato, non senza sua delusione, il 23 genn. 1497 il patriarcato costantinopolitano (beneficio veneziano fruttante, in virtù di beni nella veneziana Creta, 800 ducati annui) al di lui più anziano cardinale Giovanni Michiel, ecco che, operativo a suo favore, il mandato con il conferimento, del 13 settembre, di quello d'Aquileia, così accogliendo l'indicazione fatta dal Senato. Ordinato prete il 21 marzo 1498 (ed è in quest'anno che il G. acquista i libri di Pico della Mirandola, morto il 17 nov. 1494) sicché ci sia pure la consacrazione episcopale, il 3 maggio, lasciata Roma con 150 persone al seguito, il G. giunge - passando per Ravenna - il 20 a Venezia, accoltovi con grande onore.
Compito del G. sondare per conto del papa, in gran segretezza, l'opportunità di un insignorimento riminese per Cesare Borgia. Ma signore di Rimini Pandolfo Malatesta, protetto della Repubblica, la quale, pertanto, si limita a suggerire al pontefice quale praticabile l'insediamento del figlio a Cesena. È chiaro che la Serenissima non vuole questo a Rimini, ma è pure chiaro che il surrogato cesenate non è gradito al pontefice. Inutile il G. rimanga a bisbigliare. Sicché si congeda il 29, per recarsi - dopo un breve periodo a Padova - a visitare il patriarcato, in Friuli: il 19 settembre prende possesso di San Daniele, il 20 di San Vito; il 29 ottobre celebra una messa solenne ad Aquileia; il 7 genn. 1499 è a Cividale. Ci resta sin all'inizio di marzo allorché parte - per non tornarvi più - per Venezia donde, il 23, raggiunge Roma.
Appreso della sconfitta subita dal padre da parte del Turco e della sua destituzione dal comando, il G. - che, come informa ancora il 29 agosto l'ambasciatore a Roma Paolo Cappello, aderendo all'invito della Serenissima, è disposto a contribuire alle spese belliche con la decima delle entrate sue beneficiarie nel territorio veneto - si precipita a Venezia, ove giunge il 26 ottobre, sì da essere pronto ad accogliere, allo sbarco, il 1° novembre il padre con i ferri ai piedi e a scortarlo pietoso sin "la Forte" dov'è rinchiuso in attesa di giudizio. Il G. si adopera a un tempo per abbreviarne la detenzione e per sollecitare la spedizione del processo. Ma per quanto insista, solo il 31 marzo 1500 inizia, in Maggior Consiglio, la trattazione della causa e solo in aprile, con il trasferimento alla prigione "Nova", le condizioni di vita per il detenuto si fanno meno dure. Vigorosa, il 10 giugno, l'autodifesa paterna ed esibente, oltre alla giustificazione del proprio personale operato, pure le benemerenze patriottiche del G. che, cardinale a Roma, lungi dal dimenticare Venezia, si è a tal punto esposto per favorirla da rivelarle "secreti", di per sé da passar sotto silenzio, di per sé non svelabili.
Confinato Antonio Grimani in perpetuo a Cherso, con sentenza del 12 giugno, il G., saputo del grave infermarsi d'Alessandro VI, parte per Roma. Ma, bloccato a Pesaro a sua volta da una sopraggiunta malattia e, nel contempo, informato del ristabilirsi del pontefice, preferisce rientrare, il 5 agosto, a Venezia, dove il male lo aggredisce con tanta violenza che a fine mese si paventa debba addirittura morire. All'estremo pericolo riesce a scampare, ma lenta è, per il suo fisico debilitato, la ripresa. Per rimettersi si trasferisce a Padova, dove, il 10 genn. 1501, i rettori - Domenico Trevisan e Nicolò Foscarini - gli ricordano la promessa cessione della decima. Ma tanta disponibilità a Roma fervorosamente manifestata è nel frattempo - e c'è in ciò un sentore di rivalsa per la dura condanna inflitta al padre - venuta meno se il G., il 12, ai rettori a lui ripresentatisi, dichiara di "non poter" sborsare alcunché. Ha appena di che vivere, si lamenta. Inesigibili si stanno rivelando i suoi crediti, assicura.
Di nuovo a Roma a fine anno, scontato - nella contesa di precedenza fra il rappresentante sabaudo e quello veneto - il suo esplicito sostegno al secondo, che influenza lo stesso Alessandro VI se questi, nella messa cantata il 12 dicembre nella cappella Sistina celebrata dallo stesso G., ingiunge all'ambasciatore di Savoia di non insistere con le sue pretese. Altra benemerenza, agli occhi della Serenissima, la difesa in concistoro, insieme con l'altro cardinale veneziano Michiel, delle trattative di pace, ormai prossime alla conclusione - quella del 14 dic. 1502, con la stipula del relativo trattato con Bāyazīd II -, con il Turco a cui, a tutta prima, il papa reagisce negativamente. Ma non altrettanto in buona luce il G. a Venezia, quando, l'8 ott. 1502, ripara presso di lui il padre a Roma giunto da Ravenna dov'è fuggito dal confino, che doveva essere a vita, di Cherso.
Ma è, comunque, con questa fuga che si pongono le premesse per la rimonta di Antonio Grimani, il quale ha dalla sua i guadagni ingentissimi conseguiti con la mercatura e, in più, l'appoggio, da Roma, del G. a sostegno della riabilitazione. Né al G. - che continua a essere un punto di riferimento anche per gli intellettuali se Francesco Cattani da Diacceto, a tenere desta la lezione dello scomparso Marsilio Ficino, è anche a lui che si rivolge nel 1503 - mancano le occasioni d'accreditarsi con la Repubblica, con la quale, in ogni caso, non gli conviene rompere per non porre a repentaglio la commenda sua più recente - quella dell'abbazia di S. Maria di Sesto al Reghena conferitagli il 10 marzo 1503 (la girerà, riservandosi il diritto di regresso, al fratello Piero il 15 apr. 1504; così, alla morte del fratello nel 1517, torna nelle sue mani sinché la trasmette, il 28 marzo 1520, al nipote Marino) che si aggiunge a quella, conferitagli il 14 giugno 1501, dell'abbazia di S. Pietro di Rosazzo -, necessitante, per non restar solo sulla carta, dell'assenso veneziano.
È in sede di conclave che il G. soprattutto si attiva avendo in mente le convenienze della Serenissima. E ciò non tanto allorché, morto il 15 agosto Alessandro VI, viene eletto per successore, il 22 settembre, Pio III che muore il 17 ottobre, ma piuttosto in quello successivo, del 31 ottobre - 1° novembre, che vede elevato al soglio il cardinale Della Rovere, sul quale il G. - sapendolo gradito alla Serenissima - ha fatto convergere i voti, non senza assegnarsi, nello scriverne il 2 novembre a Venezia, esagerando il ruolo di grande elettore.
A dire del G. la Repubblica è in cima ai propri pensieri e affetti: sta "al mondo", afferma di sé, soltanto "per servirla ed onorarla". Un proclama di intenti prontamente ricambiato con il riconoscimento - caldeggiato pure dal neopontefice - del possesso delle due abbazie di cui ultimamente Alessandro VI l'aveva designato commendatario.
Scambiato, il 25 dicembre, l'originario titolo cardinalizio di S. Nicolò inter imagines con quello più prestigioso di S. Marco - funzionale all'ottenimento, del 30 maggio 1505, del palazzo, appunto, di S. Marco - ecco che il G. si profila come il cardinale di Venezia vieppiù autorizzato a premere per la reintegrazione del padre. E si mette a perorare per questo persino Giulio II quando, ancora l'8 dic. 1503, dichiara all'allibito oratore veneto che Antonio Grimani è persona encomiabile se non altro per esser padre di un porporato della levatura del Grimani. Ma Giulio II ha pure, il giorno prima, vivamente deplorato le occupazioni veneziane in Romagna approfittando del crollo del dominio del Valentino. Sono tutte "terre" - si adira sempre più Giulio II - "prese alla Giesia". E tutto va a questa restituito, pure Rimini e Faenza. È chiaro che, con un contenzioso così pesante, il rimpatrio d'Antonio Grimani passa in secondo piano, non è più una questione per il momento risolvibile; è, come tale, per il momento accantonabile.
Il G. deve destreggiarsi tra Venezia e il papa ormai a Venezia ostile. Incluso, nel concistoro del 15 nov. 1504, nella commissione di sei cardinali destinata a occuparsi della riforma della Chiesa, preposto alla formazione del processo canonico relativo al neopatriarca di Venezia Antonio Surian - sul quale, ancorché deluso nell'aspettativa il Senato designasse l'amico Pizzamano (legato da affetto a questo il G. che, ancora il 1° ott. 1497, ha rinunciato per lui a un canonicato a Padova che garantiva l'entrata di 300 ducati annui), riferisce favorevolmente - il G. è a fianco di Giulio II nel suo ingresso, del 13 sett. 1506, a Perugia e a quello successivo, "con grandissima pompa", a Bologna dell'11 novembre. Dopo un soggiorno veneziano che lo vede scrutinante una clarissa del monastero del S. Sepolcro in odore di santità, il G., all'inizio di aprile del 1507, è di nuovo a Roma. Qui, con l'avvio delle operazioni antiveneziane dell'imperatore Massimiliano d'Asburgo, il G. ha di che angosciarsi per le mire sulle terre patriarcali di questo, ma da un lato è forte di un breve papale a ribadimento delle sue prerogative, dall'altro la severa sconfitta inflitta, il 2 marzo 1508, a quello da Bartolomeo d'Alviano sgombra ogni timore di insidiose pretese cesaree. Tranquillizzante, per il G., la tregua veneto-imperiale del 6 giugno. E, morto Surian il 19 maggio, nuovo patriarca di Venezia è Alvise Contarini; ancora una volta sta al G. predisporre il relativo processo canonico per la conferma.
Grata, intanto, Venezia all'impegno con il quale il G. e il cardinale Marco Corner si adoperano a smussare gli spigoli nella, peraltro irreversibile, "complicazione di cose" dei rapporti veneto-pontifici. Convinto, da parte di palazzo ducale, il riconoscimento, del 22 febbr. 1509, a entrambi i porporati per il loro fronteggiare, a mo' di bersaglio a portata di mano, i crescenti furori antiveneziani di Giulio II. E forse, nelle morse dell'angoscia, serenante, per il G., in quei giorni la visita a palazzo Venezia - è qui che dal 1505 risiede - d'Erasmo, con il quale, come ricorderà Erasmo stesso in una lettera del 27 marzo 1531 ad Agostino Steuco, il colloquio si protrae per due ore. C'è come - in questo conversare del grande intellettuale europeo con il prelato da lui stimato tra i porporati il più colto - la sensazione che, se le litterae non salvano il mondo, per lo meno ai suoi cultori offrono un appiglio salvifico ad personam pur nelle bufere della storia, malgrado il precipitare della situazione.
Troppo tardi a palazzo ducale si decide, il 4 aprile, di offrire la restituzione di Rimini e Faenza. Ormai messo in atto il meccanismo aggressivo nel quale il papa è istigatore e protagonista. Inutile, ormai, che per cinque ore il G. tenti di ammansirlo, come scrive il 17 l'oratore veneto: non fa che minacciare e inveire. E il 22 convoca il G. e Corner solo per ribadire la propria ira funesta. E costretti i due porporati veneti, il 26, ad ascoltare muti, in concistoro, la bolla fulminante la scomunica contro la Serenissima. E assenti i due, il 19 maggio, dalla gran festa a Castel Sant'Angelo per la clamorosa sconfitta subita, il 14, dalla Serenissima ad Agnadello a opera dei collegati cambraici.
Un disastro, quello di Agnadello, per il quale la Repubblica tutta rischia il tracollo. Valgono, a evitarlo, la guerriglia dei contadini "marcheschi" e, insieme, il dispiegamento della sagacia diplomatica volta a scollegare i collegati. Schiodabile Giulio II da un'alleanza che sta andando oltre i suoi disegni, che, se atterrante la Repubblica, rischia, in prospettiva, di offrire la penisola alla manomissione della Francia e dell'Impero pericolosa per lo stesso Stato pontificio, vincolante e condizionante per lo stesso ruolo che il pontefice si riserba. Preziosa presenza, per Venezia, quella del G. a Roma. "Lettere non bone" però quelle che questi scrive a palazzo ducale dopo esser stato, il 23, a colazione dal pontefice. Non può che farsi trasmettitore della volontà di Giulio II che giunga da Venezia un'ambasciata straordinaria a mo' di mesta rappresentanza di un governo piatente perdono. Composta da Domenico Trevisan, Leonardo Mocenigo, Luigi Malipiero, Paolo Cappello, Paolo Pisani (che a Roma morrà nel febbr. 1510) e Girolamo Donà (che a Roma rimarrà quale ambasciatore ordinario sino alla morte), questa arriva il 2 luglio, ascoltabile, fatta com'è di scomunicati, solo privatamente. Già concessione da parte del papa, quella dell'11, essa possa visitare il G. e Corner, l'altro cardinale veneto. Ma il recupero, del 17, di Padova in compenso risolleva le sorti di Venezia. Visibile la crepa nel fronte antiveneto nella misura in cui Giulio II è insoddisfatto della Francia, è preoccupato delle disastrate finanze cesaree. Intuibile, nel papa, il proposito di scollegarsi con il massimo del vantaggio. Scalfita la rocciosa avversione per la Serenissima quando, il 27, a Viterbo, accetta di ricevere Donà, il capodelegazione veneto, accompagnato dal G., cui la Repubblica, per il suo adoperarsi senza risparmio "con tutte le forze e spiriti a beneficio et utile" suoi, è gratissima. L'attesta il permesso, deliberato, il 17 giugno, a gran maggioranza in Maggior Consiglio, al padre del rientro. Seguirà, il 24 dic. 1510, la piena reintegrazione enfatizzata dalla restituzione della dignità di procuratore di S. Marco. Un riaccoglimento di Antonio Grimani, già confinato in un'isola dalmata, che premia l'assidua pressione esercitata dal G. su Giulio II ad attenuarne i furori, a insinuare ragionevolezza. Donde, sia pure a dure condizioni, la solenne assoluzione della Serenissima del 24 febbr. 1510.
È anche un personale successo del G. la revoca della scomunica. E a suo personale risalto il festeggiamento, a Roma, il 25 aprile, del giorno di S. Marco. Ormai è tra i porporati più eminenti dell'Urbe: è lui a cantare messa il 19 maggio, il giorno della Pentecoste; sarà lui a celebrare la messa il 10 maggio 1512 ad apertura della prima sessione del V concilio Lateranense. E intanto detto e ridetto il G. dottissimo, eminentissimo "in philosophia et theologia"; "tam philosophiae quam theologiae robore nervosus" l'ha già definito Paolo Cortesi nel cui De cardinalatu, stampato nel 1510, il G. - nell'Italia invasa da Carlo VIII - figura intento "a ricercare il vero nelle sentenze fra di loro contrastanti". In certo qual modo questa sua tensione intellettuale un po' lo stralcia dalle contingenze storiche. E presa di distanza da queste pure, da parte sua, il collezionismo intendente di chi, oltre a far proprio l'"officio celebre" ossia il breviario, va radunando dipinti e statue. Di conforto per il G. la bellezza dell'antico e del moderno - e ben impiegati i quattrini su questo versante; ma invece il G., subendo per questo una sfuriata di Giulio II, si ritrae se c'è da garantire per una somma anticipata dal papa alla Serenissima - e di sollievo in un'esistenza sottoposta a dure prove. E sin esemplare il coraggio suo, nel concistoro del 10 nov. 1512, quando, unico a protestare, si alza in piedi opponendosi a Giulio II che, non pago di proporre il passaggio all'Impero di Verona e Vicenza, pretende un tributo per l'investitura di Treviso e Padova.
Vieppiù autorevole a questo punto il G., di cui - morto, il 21 febbr. 1513, Giulio II - circola, prima del conclave, il nome quale possibile successore. Ma alla sua candidatura cui pare favorevole anche il cardinale Matteo Schiner, nuoce l'inimicizia con il cardinale Corner - meschinamente invido dell'accreditata maggior visibilità del G. che lo sta mettendo in ombra; e guastati, in ogni caso, i rapporti tra i due dal contrasto insorto per via di una commenda cipriota - e, più ancora, l'esplicito sgradimento cesareo e spagnolo sicché, lungi dal prender piede, naufraga, il 10 marzo, già in prima votazione: solo 2 i voti al Grimani.
Favorito, comunque, il G. dal neopontefice Leone X che lo conferma nelle sue pensioni, nelle sue prebende, nei suoi canonicati, nelle sue commende, nell'intreccio dei suoi diritti d'accesso e regresso, nel suo sistematico andar sommando rendite in parallelo al suo andar collezionando. Tra i membri della commissione designata, il 3 giugno, nella sesta sessione del Lateranense, a predisporre i canoni e i decreti "super materia pragmaticae et rebus fidem tangentibus", nominato, il 7 luglio, governatore di Bagnorea (Bagnoregio), impinguato, il 22 marzo 1514, della commenda del priorato e collegiata di S. Andrea d'Orvieto, subentrato, il 29 maggio, al vescovo d'Urbino Antonio Trombetta rinunciante per vecchiaia, in veste di "administrator" il Grimani. Un'ombra, però, nel rapporto - sino allora buono - con Leone X, il suo rifiuto, del 18 ag. 1516, a sottoscrivere la bolla, sfrontatamente nepotista, investente, a danno di Francesco Maria Della Rovere, Lorenzo de' Medici, nipote del papa, del Ducato urbinate.
Del 19 genn. 1517 è la rinuncia, da parte del G., al patriarcato aquileiese a favore del nipote Marino a cui, a sua volta, subentra, quale "administrator", nella diocesi cenedese. Da un lato il tutto resta in famiglia, dall'altro il G. non occorre si sposti: come il governo del patriarcato è stato affidato a vicari, così, per Ceneda, si avvale del vicario generale Trifone Bisanti. Perdente nell'opposizione del 1° febbraio - in sede di concistoro - alla chiusura del Lateranense, il G., nel concistoro del 25 maggio, è dei sette porporati formanti la commissione preposta a definire le controversie tra i francescani. Una designazione scontata visto che, ancora dal 1504, della "religione francescana" è protettore; e si affretta il lusitano Pedro da Cruz a dedicargli la propria Antiminorica… adversus minoricam fratrum… de observantia (Venetiis 1505).
Ignota è però - sempre che l'abbia avuta - la sua opinione sull'acceso dibattito tra conventuali e osservanti. In compenso noto - ne scrive, il 17 luglio 1514, l'ambasciatore veneziano Vittore Lippomano - l'alterco, lì lì per degenerare in scontro fisico, tra il G. e il generale dell'Ordine fra' Bernardino Prati da Chieri per certe designazioni a certi uffici. Presiedute, ad ogni modo, dal G. le prolungate discussioni, nel convento d'Aracoeli, donde sortiscono le due bolle, del 29 maggio e 14 giugno 1517, stabilenti la divisione tra conventuali e osservanti, uniti questi a tutti i minori riformati. Protettore dei secondi ora il G. e, inoltre, ancora dal 1504, dei monaci basiliani; e lo è pure dei gesuati.
Scardinalati, nel concistoro del 22 giugno 1517, i cardinali Alfonso Petrucci, Bandinello Sauli, Raffaele Riario già agli arresti per presunte trame contro Leone X. Unanime la votazione che li priva della dignità della porpora e dei benefici, salvo il voto in contrario del G., il quale - al papa che l'accusa di ostinata superbia - replica di attenersi a quel che gli dettano la ragione e la coscienza. Un criterio valido anche a motivare, nel concistoro del 1° luglio, l'opposizione, da parte sua, alla massiccia infornata di ben 31 nuovi cardinali. E che l'ascolto della coscienza e della ragione sia giusto l'attesta la restituzione, del 16 luglio, dell'innocente Riario alle sue dignità e ai suoi uffici, garantendo della sua lealtà anzitutto il Grimani.
Partito da Roma a metà ottobre, il G. dapprima è a Padova, quindi a Venezia, quindi di nuovo a Padova, poi a Ceneda, a Murano e ancora a Venezia, dove, il 30 luglio 1518, si sottrae, in Collegio, al richiesto contributo alla ricostruzione del castello di Udine. E, nell'agosto-novembre, per quanto a Roma e da Roma prema il cardinale Giulio de' Medici, il futuro Clemente VII, non rinuncia a favore di questo al vescovado d'Urbino. Rinuncia, invece, il 18 marzo 1520, a favore del nipote Giovanni, figlio del fratello Girolamo, a quello di Ceneda. Né a star lontano dalla corte romana ci scapita. È una presa di distanza dal pontefice, che non lo danneggia se - come sottolinea a suo proposito nella relazione fatta in giugno al rientro da Roma l'oratore veneto Marco Minio -, ancorché da un bel pezzo "fuori corte", il G. "ha buon nome", gode di credito al punto che "si tiene", lo si ritiene, "per papa" futuro. Utile, nel contempo, rimanere a Venezia se l'elezione a doge, del 6 luglio 1521, del padre è anche frutto della propaganda orchestrata dal G. in contrapposizione a quella, a favore di Giorgio Corner, promossa dal figlio di questo, il cardinale Marco; la rivalità tra quest'ultimo e il G., a Roma avvertibile, a Venezia esplode, sulla base delle contrapposte candidature dei padri, in aperta inimicizia. E vincente è il G.: un trionfo il corno dogale per il padre già confinato, per i Grimani tutti, per il G. anzitutto che, come annota Sanuto, "è di primi cardinali", è "dottissimo". A letto ammalato nella diletta Murano allorché, il 4 dicembre, apprende della morte, del 1° dicembre, di Leone X, senza indugio il giorno 5 parte tutto infagottato, su di "una sedia" retta da quattro persone; imbarcato raggiunge via mare Pesaro, quindi - passando per Urbino dove l'accoglie Francesco Maria Della Rovere -, in lettiga portata da muli, reggendo i disagi dell'inevitabile sballottatura, sul far della sera del 15, Roma. E intanto, a Venezia, il padre doge "tien certo" che sarà innalzato al vertice della Chiesa. Già il giorno 5 Alvise Pisani l'assicura che il proprio figlio cardinale, Francesco, voterà e farà votare per il Grimani. E il 7 i fratelli Pompeo e Cesare Trivulzio garantiscono al doge che pure il cardinale Agostino, loro fratello, si mobiliterà per suo figlio. Le ambizioni personali del G., esplicitate dal padre, confortate da un allargato consenso sembrano prossime al massimo del successo sperabile. Il G. "sta bene" ed è "in ottima fama d'esser papa", scrive al governo veneto l'ambasciatore Alvise Gradenigo. Contagiato anche costui dal miraggio di un papa veneziano, ecco che risana il G., in realtà arrivato provatissimo da un viaggio in barella a tappe forzate. Tant'è che, disdicendosi, Gradenigo, il 20, è costretto a informare palazzo ducale che il G. "ancora non è uscito di casa", che nel fisico è "alquanto risentito". Il G. "è in letto cum le gotte alla mano", riscrive Gradenigo il 21 minimizzando l'infermità che lo blocca a letto. "Starà bene", assicura; "ed ha bonissimo nome al papato", aggiunge.
Solo il 25 il G. esce, in lettiga, di casa per esser portato di peso dal cardinale Bernardino Carvajal, a una sorta di riunione dei porporati antimedicei. Di lì a due giorni, il 27, entra in conclave. Ma il 30 sta malissimo e il 31 è "in pericolo di morte", costretto - precisa Baldassarre Castiglione al marchese di Mantova Federico Gonzaga - ad abbandonare il conclave. Un minimo la crisi la supera, ma non al punto - benché i fautori premano perché si faccia vedere - da riportarsi in conclave, ove si continua a votarlo. Ma non a sufficienza, ché ostinata è l'ostilità del partito mediceo. E gioca indubbiamente a suo svantaggio l'esser figlio del doge in carica. I precedenti di papi veneziani non mancano. Ma è inaudito un pontefice veneziano figlio di un doge vivente.
Fu elevato al soglio - con cocente delusione delle attese eccessivamente fiduciose a mano a mano fattesi quasi certezza sull'elezione del G. - il 9 genn. 1522, Adriano VI. Colpa - così le prime reazioni a Venezia - del cardinale Marco Corner, che ha fatto azione di sabotaggio. È soprattutto la famiglia Grimani, a cominciare dal doge - che investirà Giorgio Corner al rientro da Roma con la furente accusa indirizzata al figlio, il cardinale Marco, di avere, con il suo manovrare contro il G., quasi rovinata la Repubblica, di avere, comunque, tradito la Serenissima -, a dar per scontato che ogni responsabilità vada attribuita a questo e, dopo di lui, a suo padre. "Li Grimani", registra Sanuto, "tien certo che, s'il cardinal Corner voleva", il G. "era papa". Così nella rabbia dettata dal risentimento. Ma, in successive riflessioni della classe politica marciana, subentra una valutazione meno semplificante dello scacco. Non tanto vittima il G. del malanimo invido di Corner, quanto della dichiarata ostilità del cardinale de' Medici che non lo voleva manco "sentir nominar" e in grado, su questo presupposto, di aggregare un compatto fronte; non altrettanto capace il G., senza un forte partito di fautori alle spalle e troppo fidente sull'infido cardinale Pompeo Colonna che, pur di sventare la candidatura di Giulio de' Medici, prima gli ha fatto gran promesse e poi, raggiunto il suo scopo, s'è tirato indietro.
In attesa arrivi il neopontefice - sarà a Roma solo il 29 agosto; ed è a lui in viaggio che il 20 marzo il G. indirizza l'invocazione a raggiungere al più presto Roma a pacificare la Cristianità e a mobilitarla contro "classem" ed "exercitum" che il Turco sta preparando - il G. è designato, il 15 febbraio e il 15 marzo, a far parte del comitato di reggenza formato da tre cardinali rinnovabili mensilmente, mentre l'arrivo, del 18 marzo, di una delegazione recanatese a protestare per il malgoverno del priore di Capua Giuliano Ridolfi, occasiona - di contro ai cardinali Niccolò Ridolfi e Giovanni Salviati che di quello assumono le difese -, da parte sua, un prorompente, in piena congregazione, scoppio di collera antimedicea sin liberatorio dell'odio accumulato nei confronti di papa Medici e del nipote Giulio. Disastroso - esplode il G. - tutto il pontificato di Leone X, una vera iattura per la Chiesa; che, almeno, auspica si ponga freno al malfare, che, lui morto, continua da parte dei suoi parenti. Già tesa la discussione nella congregazione prima dell'intervento del G.; dopo questo si incendia e degenera in scomposto alterco generale. Lasciandosi alle spalle il clima litigioso e rancoroso ch'egli stesso ha, così, contribuito ad alimentare, il G. - raggiunta Pesaro e qui imbarcatosi su di un naviglio fornitogli dal duca d'Urbino - il 19 aprile sbarca a Venezia, per sistemarsi subito dopo nella quiete rinfrancante e rasserenante di Murano. Qui al padre recatosi a visitarlo assicura di contribuire con 8000 ducati all'acquisto - da parte del nipote Marco, figlio del fratello Girolamo - della procuratia di S. Marco de citra.
Sempre desta la strategia espansiva della "casa", sempre attenta alle mosse tatticamente più opportune; ed è di questa che il G. e il padre confabulano, anche nelle successive visite del doge a Murano.
Nuovamente imbarcatosi, il 20 ottobre, per Pesaro, fatta tappa a Urbino - della quale continua a esser vescovo - più prolungatamente del solito e, assai più rapidamente, a Perugia dove giunge il 29 genn. 1523 essendo ospitato da Orazio Baglioni, finalmente, il 31, il G. è di nuovo a Roma. Ricevuto, il 7 febbraio, da Adriano VI - che nutre una gran stima della sua cultura teologico-speculativa se a lui (dedicatario della parafrasi erasmiana della lettera paolina ai Romani uscita nel 1517 in quella Lovanio dove il neopontefice s'è formato e affermato) si affida per la pubblicazione delle proprie Quaestiones quodlibeticae -, atroci dolori di gotta gli impediscono, il giorno 8, di presenziare al concistoro. Convalidata, comunque, anche dalla sua firma autografa la bolla, del 27 marzo, reinvestente Francesco Maria Della Rovere del Ducato urbinate. E presente il G., il 20 aprile, al concistoro pubblico, nell'accoglienza solenne dell'ambasceria straordinaria veneta portatasi a rendere omaggio ad Adriano VI. E a tutto tondo, il 25, il risalto del G. padrone di casa nel sontuoso banchetto offerto al corpo diplomatico per l'ammirazione del quale si squaderna - nel giorno di S. Marco - il più bel, dopo quello della Cancelleria, solo a questo "secondo" nel giudizio dei contemporanei, palazzo di Roma con la sfilata d'"immensa quantità di stanze", dal "corridore in solaro", prospiciente, a mo' di chiostro fratesco, su di un verde giardino con al centro una fontana circondata da aranci, allori, cipressi. Protratto per quasi sei ore il "desinare" e musiche a pranzo finito. Festeggiato, riverito, applaudito il G. che siede a capotavola con a fianco il duca d'Urbino, suo ospite nelle "stanze di sotto", ma anche affaticato e strapazzato da una giornata per la sua malferma salute forse troppo logorante. Ma ritiene ne valga la pena. Con una tal festa ribaditi la sua personale eminenza e, insieme, il prestigio della Serenissima. Nella relazione, del 25 maggio, al rientro da Roma l'ambasciatore Alvise Gradenigo precisa che il G. gode di un'entrata annua di 14.000 ducati e che "molti lo vorrebbero far papa". Peccato queste parole il padre non possa sentirle. È morto, ancora il 7, ed è stato sepolto il 10, mentre il G., il 13, si allontana da Roma proprio "per fuzer le visitation a condolersi". Al dolore per la perdita si sommano le peggiorate condizioni di salute.
Colpito "da fluxo […] con pericolo grande de la sua vita", il G. è impossibilitato a partecipare al concistoro del 29, quello ove viene decisa la lega di Roma con l'Impero e Venezia contro Francesco I re di Francia. Dopo un illusorio accenno di ripresa il 20, il 25 la situazione si fa disperata: la febbre è altissima e i medici rinunciano a intervenire sulla "postema" situata "dietro l'orecchia". Il 26 ag. 1523 il G., "alle sette ore di notte, venendo il dì 27 agosto", muore, come precisa Girolamo Negri a Marco Antonio Michiel.
La personalità del G. mostra diversi motivi di interesse dal punto di vista della storia dell'arte. In primo luogo per la sua raccolta di dipinti, e particolarmente per il nucleo prevalente di opere nordeuropee; poi, per la sua notevole collezione di pezzi classici; infine, ma non da ultimo, per il lascito che il G. fece alla Repubblica di Venezia di una porzione rilevante dei suoi beni artistici: una tappa fondamentale nella storia del museo moderno, che rappresentò un luminoso esempio per altri patrizi veneziani e soprattutto per uno dei nipoti del cardinale, Giovanni Grimani.
Al principio del XVI secolo, dunque, il G. era una delle figure principali di collezionista e amatore d'arte, non solo sullo scenario lagunare. Ne sono fondamentali testimonianze contemporanee gli scritti di Sanuto e soprattutto di Marco Antonio Michiel. Quest'ultimo, nel suo manoscritto frammentario (la cosiddetta Notizia d'opere del disegno), fornisce un resoconto spoglio ma relativamente dettagliato dei dipinti di proprietà del Grimani.
Le notizie riportate dall'esperto patrizio veneziano risalgono a una visita compiuta nel 1521, solo due anni prima della morte del Grimani. Michiel si sofferma quasi esclusivamente sulle opere nordeuropee ("ponentine", come allora venivano definite), documentando la predilezione che il G. nutriva nei confronti dei dipinti oltremontani e ponendo l'accento sul loro ruolo peculiare nella sua collezione.
Dall'elenco di Michiel risultano molte opere realizzate da Hans Memling: fra esse, diversi ritratti (compreso un autoritratto) e "molti quadretti de Santi, tutti con portelle dinanzi". Nessuno di questi dipinti può essere oggi individuato, e per la maggior parte di essi si deve presumere infondata la paternità al grande maestro fiammingo. Tre quadri sono assegnati a un "Joachin", da identificare con ogni probabilità in Joachim Patinir, e altri tre a Hieronymus Bosch. Michiel fa inoltre riferimento a non meglio precisate opere di Albrecht Dürer. Rapporti diretti fra quest'ultimo e il G. troverebbero conferma nel fatto che, nella pala nota come la Festa del Rosario (Praga, Nàrodni Galerie), realizzata da Dürer nel 1506 per la chiesa veneziana di S. Bartolomeo, è forse riconoscibile la fisionomia del G. in uno dei due dignitari posti alle spalle del pontefice.
Vengono ancora citati da Michiel dipinti realizzati da tali "Hieronimo Todeschino", "Alberto de Holanda" e "Girardo de Holanda", nomi nei quali rimane arduo riconoscere artisti precisi (l'ultimo, potrebbe esser e Gérard David).
La nota di Michiel si chiude con il richiamo, di ampiezza inusitata, a quello che allora doveva essere considerato l'assoluto pezzo forte della raccolta, il cosiddetto Breviario Grimani, oggi uno dei tesori più preziosi della Biblioteca Marciana di Venezia.
Il Breviario fu probabilmente realizzato intorno al 1510. È composto di 1280 pagine con 831 fogli miniati: molte decorazioni sono limitate alle bordure, ma ben 110 fogli si presentano istoriati, anche a piena pagina costituendo uno dei vertici più sfolgoranti della miniatura europea e collocandosi esplicitamente sulla falsariga delle Très riches heures du duc de Berry, dipinte dai fratelli de Limbourg all'inizio del '400 (Chantilly, Musée Condé). Così veniva descritto da Michiel: "L'officio celebre, che Messere Antonio Siciliano vende al cardinal per ducati 500, fu miniato da molti maestri in molti anni. Qui vi sono miniature de man de Zuan Memelin […] de Girardo da Guant […] de Livieno da Anversa".
Se il riferimento a Memling appare infondato, e quello a Livieno assolutamente misterioso, il Girardo di Gand è probabilmente Gérard Horenbout. Questi prestò i suoi servigi a Margherita d'Austria, possibile committente del Breviario Grimani: in effetti, all'epoca, ella era la proprietaria delle Très riches heures du duc de Berry e alla sua corte a Mechelen fu presente, nel 1513, l'Antonio Siciliano - ciambellano del duca di Milano, Massimiliano Sforza - indicato da Michiel come colui che aveva venduto il Breviario al Grimani.
Se le attribuzioni di Michiel vanno sempre assunte con il più ampio beneficio di inventario, e talora risultano palesemente inaccettabili, nondimeno alcune indicazioni contenute nel manoscritto hanno permesso di istituire preziose connessioni con opere oggi esistenti. In primo luogo con le tavole di Bosch conservate nelle sale di palazzo ducale a Venezia, e particolarmente con le Visioni dell'aldilà (probabili ante laterali di un polittico, che forse culminava al centro in un perduto pannello raffigurante il Giudizio finale). Queste corrispondono con accettabile approssimazione alla descrizione di Michiel: "La tela dell'inferno con la grande diversità de mostri fo de mano di Hieronimo Bosch […]. La tela delli sogni fo de man dell'istesso".
È verosimile che i dipinti siano entrati a far parte delle proprietà della Serenissima con l'esecuzione delle volontà espresse dal G. nel testamento del 1523. Non è, però, dato seguire nel dettaglio la storia di queste tavole: esse potrebbero essere rimaste nei depositi di palazzo ducale, chiuse all'interno delle otto casse piene di quadri già di proprietà del G., aperte soltanto nel 1615 per esporne il contenuto dopo quasi un secolo di segregazione (tale ipotesi sembra trovare conforto nel silenzio delle fonti su queste opere così importanti, che si protrae da Michiel sino alle Ricche minere della pittura veneziana di Marco Boschini, oltre la metà del Seicento). Ma i quadri di Bosch potrebbero essere anche finiti al nipote del G., Marino Grimani, anch'egli beneficiario del testamento del 1523, e da questo inviati alla residenza romana della famiglia, oppure lasciati nel palazzo veneziano di S. Maria Formosa. In entrambe le eventualità, le tavole sarebbero poi confluite nelle collezioni di palazzo ducale dopo la morte del fratello minore di Marino, Giovanni, in una data che allo stato delle attuali conoscenze non è possibile accertare. Quanto alle altre opere citate da Michiel, è stato proposto di accostare "la tela grande della S. Caterina sopra la rota nel paese fu de mano del detto Joachin" a una tavoletta conservata al Kunsthistorisches Museum di Vienna, raffigurante un Paesaggio col martirio di s. Caterina, di mano del Patinir. Abituale è, invece, la tendenza ad avvicinare "el S. Jeronimo nel deserto de man de costui", al dipinto di analogo soggetto oggi nella Galleria Franchetti alla Cà d'oro di Venezia. Assai problematico, soprattutto per ragioni cronologiche, appare infine il suggerimento, avanzato a più riprese, di vedere nella Torre di Babele già attribuita a Jan Van Scorel, pure nella Galleria Franchetti: "La tela grande della torre di Nembrot, cun tanta varietà de cose et figure in un paese, fo de man de Joachin".
Meno rilevante si presenta il drappello di dipinti italiani di proprietà del Grimani. Le sole citazioni di Michiel riguardano "opere di Barberino veneziano" (certamente Iacopo de' Barbari), pittore del quale, peraltro, vengono opportunamente sottolineate le decisive influenze nordiche: "Andò in Alemagna e Borgogna, et presa quella maniera fece molte cose"; ma più importante è la segnalazione del "cartone grande della Conversione di S. Paulo fo de man de Rafaelo, fatto per uno degli arazzi della cappella". Si tratta di uno dei dodici cartoni approntati da Raffaello su commissione di Leone X, per essere tradotti in altrettanti arazzi dalla bottega di Pieter van Aelst a Bruxelles, allo scopo di decorare l'ordine inferiore delle pareti della cappella Sistina. Esso costituisce una presenza significativa nell'ambito di quella circolazione lagunare di opere tosco-romane che avrebbe conosciuto un impulso eccezionale nella politica architettonica e decorativa attuata da Giovanni Grimani negli imponenti lavori di ristrutturazione del palazzo di famiglia a S. Maria Formosa.
Le aperture del gusto artistico del G. in direzione centroitaliana sono confermate dai suoi rapporti diretti con Michelangelo. Egli aveva infatti commissionato un dipinto al Buonarroti e rinnovò tale richiesta con una missiva scritta all'artista, il 23 giugno 1523, dal comune amico Bartolomeo Angiolini. Ottenuta una risposta positiva, così si esprimeva il G. in una lettera di suo pugno, spedita a Michelangelo l'11 luglio: "Essendo a voi tanta eccellenza, non cureremo prezzo; e quanto più presto l'avremo, tanto maggiore obbligazione sarà la nostra verso di voi" (Paschini, 1943, pp. 150 s.). Sanuto, inoltre, testimonia, nel 1526, la presenza di "alcuni quadri fatti a Roma di man di Michelangelo bellissimi" (Sanuto, XL, p. 758), nel palazzo di S. Maria Formosa: laddove, più che di dipinti, si sarà probabilmente trattato di disegni, ovvero di opere realizzate da seguaci del maestro.
L'attività del G. come collezionista di arte antica trae origine dai lavori compiuti nei terreni - posti al di sotto del Quirinale, all'incirca nell'area anticamente occupata dagli horti Sallustiani e dagli horti Luculliani - che il padre Antonio aveva acquistato a Roma per edificare la residenza di famiglia. Fu scavando in una vigna corrispondente a una zona termale romana che emersero alcuni pezzi classici, dando l'avvio a una raccolta che avrebbe annoverato un gran numero di sculture di marmo e di bronzo, rilievi, iscrizioni, monete, medaglie e cammei. Modificando radicalmente il contenuto del suo primo testamento, redatto nel 1520, in cui nominava erede universale il fratello Vincenzo, il G. stese nel 1523 il secondo testamento, col quale lasciava alla Repubblica di Venezia, oltre ad alcuni gioielli e a un numero imprecisato di quadri, una parte cospicua delle sculture antiche.
Di tutto quel materiale antiquario, la Signoria si preoccupò di far redigere celermente un elenco sommario, affidando tale incarico ai patrizi Daniele Renier e Marino Zorzi. Contestualmente, Vincenzo Grimani impugnò il testamento del 1523, appellandosi al fatto che il G. lo aveva steso a Roma, al di fuori, dunque, della giurisdizione veneziana. A tale azione legale fece seguito una complessa contesa giudiziaria, alla conclusione della quale la Signoria restituì molti pezzi alla famiglia Grimani e rimase in possesso di sedici sculture, 11 teste e 5 statue, oggi conservate nel Museo archeologico di Venezia.
È possibile stabilire il numero e l'iconografia delle opere grazie a un prezioso inventario, redatto nel 1587 da Alessandro Vittoria e Domenico dalle Due Regine, su commissione dei provveditori sopra la Fabbrica del Palazzo (Perry, 1978, pp. 242 s.).
Al di là della loro qualità, molte di queste opere costituirono un punto di riferimento antiquariale di grande influenza negli sviluppi della pittura veneziana del Cinquecento: basti pensare al cosiddetto Vitellio, o al Gallo caduto, che rappresentarono fonti dirette di ispirazione, tra gli altri, per Tiziano, Tintoretto e Veronese.
Dal 1525 al 1586, questo nucleo di opere trovò la sua collocazione in una sala di palazzo ducale, che da allora fu nominata sala delle Teste, e nella quale venne posta una lapide con un'iscrizione commemorativa del G. composta da Pietro Bembo. Nel 1586, il Collegio dei senatori decise per la sala delle Teste una diversa destinazione funzionale, e la fece sgomberare del suo prezioso contenuto. Circa un anno dopo, Giovanni Grimani propose in Consiglio dei dieci l'offerta alla Serenissima della propria eccezionale collezione di pezzi antichi, a patto che fosse allestito uno spazio adeguato alla pubblica esposizione di essa, e delle opere provenienti dal legato del G., di cui egli avrebbe curato il restauro (effettuato di lì a poco da Tiziano Aspetti, suo scultore di fiducia). La Repubblica di Venezia accettò prontamente l'offerta, riservando al futuro museo gli ambienti dell'antisala della Biblioteca Marciana.
Dopo non poche traversie, nel 1597, le sculture del G. andarono così a costituire il nucleo originario di quello che, grazie agli sforzi e alla generosità di Giovanni Grimani, divenne infine lo Statuario pubblico della Repubblica di Venezia.
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