GRANDI, Domenico
Nacque a Roma il 14 nov. 1849, da Girolamo, notaio, e da Elena Rossi.
L'agiata famiglia borghese del G., di antica origine marchigiana, presto rientrata a Senigallia per via del lavoro del padre, non aveva tradizioni militari: eppure, assai presto il giovane G., che aveva iniziato gli studi ginnasiali dai gesuiti, si indirizzò alla carriera delle armi.
Non volontario nella guerra del 1866, come forse avrebbe voluto, entrò alla scuola militare di Modena il 2 nov. 1867, uscendone, il 22 ag. 1869, con le spalline di sottotenente; nel 1868 era rimasto orfano del padre. Destinato a Terni (allora alla frontiera con lo Stato pontificio), partecipò alla presa di Roma; ottenne poi (29 luglio 1871), una decorazione al valore civile per l'opera di soccorso portata alle popolazioni in occasione dello straripamento del Tevere del 28-30 dic. 1870.
Dopo aver insegnato un anno a Modena e prestato servizio a Palermo, il 31 dic. 1872 si iscrisse ai corsi della Scuola superiore di guerra di Torino: il 4 nov. 1875 fu nominato tenente e, il 26 ag. 1877, passò allo stato maggiore (alla volta del corpo d'armata di Palermo).
Gli studi del G., svolti in un periodo di forte rinnovamento del ruolo dello stato maggiore, lo indirizzarono a una carriera "burocratica" (salvo gli obbligatori periodi di comandi operativi di reparto).
Il 10 marzo 1879 fu incaricato come ufficiale di stato maggiore presso la segreteria generale del ministero della Guerra, dove lo raggiunse quasi immediatamente la nomina a capitano. Il 21 marzo 1886, promosso maggiore, si recò alla sede del 21° reggimento fanteria, ma il 1° ag. 1888 era di nuovo al ministero della Guerra, divisione stato maggiore, capo sezione dell'Ufficio Africa. Intanto, fra il 1881 e il 1882, aveva perso anche la madre e uno dei fratelli.
Negli anni Ottanta-Novanta il capo di stato maggiore dell'esercito era il più importante fra i consiglieri tecnici del ministro, ma - appunto - solo un consigliere; tale impostazione, che comportava la prevalenza della politica sull'elemento tecnico-militare, fu fatta propria dal Grandi.
Proprio in quegli anni fu incaricato di svolgere un delicato compito: ricevere e accompagnare la missione giunta in Italia dallo Scioa per gli ultimi accordi relativi al trattato di Uccialli e alla partita di 10.000 fucili che l'Italia avrebbe dovuto consegnare a Menelik parallelamente alla firma del trattato. Accompagnò ras Makonnen nel viaggio di ritorno da Roma, passando per Gerusalemme, e partecipò alla spedizione "tigrina" del generale B. Orero da Massaua ad Adua.
Si trovò insomma coinvolto, da funzionario, nello scontro fra "linea scioana" (quella patrocinata dal conte P. Antonelli e da F. Crispi) e "linea tigrina" (legata al generale A. Baldissera, ad ambienti militari di Roma e di Massaua e, in ultima analisi, sempre a Crispi). In privato, nelle sue memorie, il G. giudicò militarmente "un armeggio inutile" la marcia di Orero su Adua e severamente l'espansionismo coloniale in generale: "Insomma quest'Africa è ovunque pessima per noi, perché non mi pare opportuno fare tante spese per un posto che ci renderà poco o niente" (16 febbr. 1890); "Tutto quello che potrà darci la nostra colonia sarà un po' di commercio, ma niente di più" (21 genn. 1890). Fatto sta che, con il ritorno di Crispi al ministero, nel dicembre 1893, venne esonerato (il G. dice, nelle memorie, a domanda) dall'Ufficio Africa. Ciononostante, non si oppose mai pubblicamente a una missione che sembrava portare onore e fondi all'esercito e, forse, alla patria.
La carriera del G. trasse vantaggio da queste sue permanenze negli uffici romani: il 23 ag. 1891 fu promosso tenente colonnello e il 10 ag. 1895 colonnello. Nel frattempo era transitato ancora dal comando del corpo di stato maggiore, intervallando con i necessari incarichi operativi lontano dalla capitale: Firenze, Messina, Perugia e altri ancora. Il 30 ott. 1895 aveva sposato Anna (Annita) Gandolfi, da cui ebbe due figli.
Sempre in questo torno di tempo, fra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta, gli incarichi presso il ministero e la sua partecipazione, quanto meno in apparenza, alla politica d'espansione coloniale - oltre ovviamente alla pressioni esercitate da alcuni circoli locali - lo portarono in Parlamento. Anche in questa nuova circostanza, il G. si situò in posizione mediana, presentandosi agli elettori con un programma che si potrebbe definire di un "crispismo moderato".
Fu deputato per il collegio di Senigallia nella XVIII e nella XIX legislatura (1892-97). Nella precedente tornata elettorale, l'ultima con lo scrutinio di lista (1890), era giunto primo dei non eletti. Nel suo programma si mostrava favorevole a una politica di moderate riforme, purché non ci fosse confusione nella questione di fondo: "quella puramente politica di monarchia o di repubblica" (Discorso, 30 ott. 1892). Eletto, si occupò in aula di argomenti militari: fiancheggiò il governo, ponendosi al solito in posizione intermedia fra chi patrocinava numerose riforme ed economie militari e chi le rifiutava del tutto, proponendo il consolidamento del bilancio del ministero della Guerra onde sottrarlo alle discussioni e alle critiche parlamentari. Nel 1900 (nel collegio di Foligno) e nel 1913 (Napoli) si parlò di una sua rielezione alla Camera, ma senza conseguenze concrete. In effetti, dopo la caduta di Crispi, il G. fu aspramente combattuto e non più rieletto; scrisse nelle sue memorie (Alcuni appunti sulla mia vita scritti da Domenico Grandi per i figli Piero e Mario): "caddi da deputato perché osteggiato in modo vergognoso dal ministero allora in carica" (Di Rudinì) in quanto "rimasto fedele a Crispi".
Dopo il 1896, e una volta esauriti i suoi incarichi al ministero, anche la carriera militare del G. seguì binari più scontati: il 16 nov. 1900 ottenne la nomina a maggior generale e solo il 16 febbr. 1908 quella a tenente generale. Gli incarichi stessi testimoniavano un allontanamento, ora anche geografico, dai centri del potere politico e militare. Peregrinò infatti fra la Sicilia, Ravenna, Padova e Roma, per approdare, nel settembre 1911, al comando del X corpo d'armata di Napoli: destinazione importante ma non centrale in quanto il Sud, strategicamente, non aveva grande rilevanza nella preparazione militare italiana. Si tenne ugualmente lontano, oltre che dal Parlamento, dal dibattito politico.
Stando così le cose, nel marzo 1914 il G. fu "ripescato" da A. Salandra e dal re, tramite l'aiutante di campo U. Brusati, che lo conosceva personalmente, e nominato ministro della Guerra.
Con la sua nomina, il governo intendeva patrocinare un ufficiale di grado elevato non particolarmente legato o favorito dal precedente sistema giolittiano, che avesse una qualche esperienza politica e di gestione dell'amministrazione militare, che si riallacciasse, sia pure a suo modo, al passato crispino, e fosse fortemente deferente verso la monarchia. Si voleva evitare, così, una scelta "di parte", dichiaratamente antigiolittiana, e il re e Salandra proponevano, con il G., una candidatura in certo modo quasi "istituzionale", "tecnica", anche se - come fu evidente agli osservatori più attenti, quale F. Martini - sbiadita e incolore.
In effetti alla nomina del G. a ministro (24 marzo 1914) - seguita, come di consueto, da quella a senatore (29 marzo) - Salandra era arrivato dopo il rifiuto di C. Pollio e quello di A. Dallolio. Il primo aveva chiesto per il ministero un aumento di bilancio di 551 miliardi di spese straordinarie e di 85 per quelle ordinarie. Il G. - che sostenne di aver accettato la nomina perché "ricattato" da Salandra il quale minacciava altrimenti di ritirarsi dall'incarico e perché spinto dall'amico Brusati (e quindi dal re) - si accontentò di soli 200 miliardi destinati alle spese straordinarie.
Egli trovò un esercito fortemente provato dalla guerra di Libia e su questo relazionò al presidente del Consiglio, anche se Salandra fece poi alla Camera dichiarazioni ben più ottimistiche. In quanto responsabile del dicastero, nel luglio ebbe un ruolo pure nella nomina di L. Cadorna a capo di stato maggiore dell'esercito, alla quale, tuttavia, pare fosse contrario (e in effetti, Cadorna fu poi, a sua volta, uno degli artefici della successiva caduta del Grandi).
Il G., ministro istituzionale e di formazione "burocratica" (sia pure nel senso migliore del termine), che già aveva avuto qualche contrasto con il suo presidente del Consiglio, con lo scoppio della prima guerra mondiale, a pochi mesi dall'assunzione dell'incarico, si trovò costretto a scelte del massimo rilievo: la prospettiva del conflitto poneva l'Italia liberale e il suo governo conservatore di fronte all'obbligo di decisioni drastiche e di enorme importanza.
Il governo italiano, e soprattutto il suo ministro degli Esteri A. Paternò Castello marchese di Sangiuliano, propendeva per una posizione attendista, e quindi per la neutralità, in attesa di promesse austriache (o, poi, anglo-francesi) di compensi all'Italia in cambio di un suo intervento. Cadorna (e forse anche il re) premeva invece per un intervento immediato, meglio se triplicista, comunque teso a tenere alto il prestigio militare e politico italiano.
Mentre Cadorna proponeva, quindi, la mobilitazione generale e un immediato riarmo, il G., allineato al governo e consapevole delle difficoltà in cui versava l'esercito, mirava a una soluzione interlocutoria: neutralità e mobilitazione parziale di due sole classi di leva.
In poche settimane, però, divenne chiaro che la prospettiva della guerra europea era di lungo termine e che nessuno dei due blocchi contendenti intendeva promettere alcunché di impegnativo all'Italia.
Fra agosto e settembre Cadorna fece nuovamente pressione perché l'Italia cogliesse le ultime possibilità di una mobilitazione generale che avrebbe almeno permesso lo svolgimento di alcune operazioni militari prima che l'inverno rendesse inagibili i passi alpini o il Carso; ma Salandra non aveva ancora deciso e il G. temporeggiò. A metà settembre gli interventisti, Corriere della sera in testa, lanciarono una più forte campagna contro Sangiuliano e il G., mentre era ormai chiaro che la guerra si sarebbe rivolta, semmai, contro l'Austria. Il 30 settembre Salandra scrisse al re pronunciandosi sfavorevolmente nei confronti del G. e di Sangiuliano, mentre le dimissioni del sottosegretario alla Guerra, generale G.C. Tassoni, furono interpretate da tutti gli osservatori come un coinvolgimento dello stesso Cadorna nella campagna contraria al G.; a quel punto Salandra, che pure si era servito di lui per arginare Cadorna (e il re) fra il luglio e l'agosto, liquidò il G. spingendolo alle dimissioni (8 ott. 1914).
Sarebbe improprio considerare il G. come un giolittiano neutralista nell'ambito del governo della destra salandrina: piuttosto egli rappresentava quella parte dell'esercito consapevole dei propri limiti (in effetti Cadorna, fra l'ottobre 1914 e il maggio 1915, dovette provvedere pesantemente al riarmo e quanto fece non bastò del tutto), e tuttavia non disposta né a delegittimare lo sforzo militare sino allora compiuto dall'Italia crispina e giolittiana né a spinte in avanti che, al G., sembrarono affrettate. In effetti, il G. era stato troppo tempo lontano dai centri di potere che elaboravano la politica militare e strategica nazionale, e poteva rappresentare, al massimo, il vecchio esercito burocratico dell'Italia liberale. D'altro canto non è possibile spiegare tutto con la flemma burocratica o con capacità (o meno) individuali. Anche se non esiste documentazione diretta, è possibile sospettare, da parte del G., una serie di preoccupazioni non prive di fondamento: che egli, cioè, avesse intuito come la guerra sarebbe stata lunga, che non si fidasse delle idee di Cadorna relative alla presa di Trieste o alla "tenuta" dell'Austria, e, in definitiva, temesse soprattutto che l'esercito, provato dalla campagna di Libia, non fosse pronto.
Dimessosi, a far data dal 4 nov. 1914, il G. ritornò all'ufficio di comandante del X corpo d'armata. Qui, il 5 giugno 1915, lo colse il richiamo per esigenze belliche.
Subordinato ora a quel Cadorna che aveva contribuito a estrometterlo dal ministero, ebbe incarichi non di primo piano; in quel 1915, a parziale consolazione, ottenne la croce dell'Ordine militare di Savoia (per la partecipazione alle operazioni nell'altopiano carsico) e la medaglia dell'Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro per i cinquant'anni di servizio.
Ma alla prima occasione importante, il comandante supremo italiano, con un pesante intervento, si disfece del suo antico ministro e il X corpo d'armata del G. fu assegnato alla 3a armata (e non alla più importante 2a). Prese comunque parte alla prima battaglia dell'Isonzo (giugno-luglio 1915), con la 19a e la 20a divisione, alla seconda (agosto 1915) e alla terza (ottobre 1915). L'unità del G. fu quindi passata nelle retrovie, sino al maggio 1916, quando fu spostata alla 1a armata, sul fronte trentino, dove nel giugno sopportò l'attacco nell'ambito della "Strafexpedition".
Nel contrattacco (luglio 1916) il G. riconquistò anche l'importante posizione del monte Cimone, che però una mina avversaria fece saltare (23 settembre).
Inaspettatamente, alla fine di dicembre, il G. fu trasferito dal X al XIV corpo d'armata, di riserva. Il 7 marzo 1917 era addirittura messo a disposizione e, ad aprile, spedito al comando del corpo d'armata territoriale di Verona. Il 14 novembre fu posto in posizione ausiliaria e il 1° giugno 1917 in congedo. Insieme con la defenestrazione del generale R. Brusati, anch'essa legata alle vicende della "Strafexpedition", la retrocessione del G. rappresentò "la parte più oscura dell'opera di Cadorna al Comando Supremo" (Mazzetti, p. 40).
La carriera militare del G. era conclusa. Il "suo" esercito era in realtà finito con la nomina di Cadorna e con la Grande Guerra: non sorprende quindi che, ancor prima che questa terminasse, egli fosse stato bruscamente messo da parte. Il G. visse ancora vent'anni: politicamente sembra non avesse grandi entusiasmi verso il regime fascista, che pure intendeva esaltare esercito e patria: si racconta l'aneddoto secondo cui cancellò dalla copia personale dell'Annuario del Senato il fascio littorio, perché il Senato era della nazione e del re e non poteva essere di parte. Più concretamente, il G. fu tra i generali anziani che si opposero al progetto di ordinamento Di Giorgio, col quale il fascismo intendeva riorganizzare l'esercito.
Il G. morì a Roma il 31 genn. 1937.
Fonti e Bibl.: Corinaldo, Archivio privato famiglia Grandi; Roma, Arch. centr. dello Stato, Carte Grandi; F. Martini, Diario 1914-1918, a cura di G. De Rosa, Milano 1966, ad indicem; B. Vigezzi, L'Italia di fronte alla prima guerra mondiale, I, L'Italia neutrale, Milano-Napoli 1966, ad indicem; G. Rochat, L'esercito italiano da Vittorio Veneto a Mussolini, Bari 1967, ad indicem; M. Mazzetti, L'esercito italiano nella Triplice Alleanza, Napoli 1974, ad indicem; P. Amato, Il generale D. G., in Stato maggiore dell'esercito. Ufficio storico, Memorie storiche militari 1981, Roma 1982; D. G.: generale, ministro, senatore, Roma 1988 (con scritti di M. Mazzetti, A. Ginella, M. de Leonardis, F. Perfetti, G.N. Amoretti); G. Rochat, L'esercito italiano nell'estate 1914, in L'esercito italiano in pace e in guerra. Studi di storia militare, Milano 1991, ad indicem; G.N. Amoretti, L'esercito e la politica africana (1885-1896) nelle "Memorie d'Africa" di D. G., Genova 1996.