DIVORZIO (XIII, p. 68; App. II, 1, p. 797)
L'istituto del d. che consente lo scioglimento del matrimonio per cause diverse dalla morte di uno dei coniugi, è stato introdotto in Italia con la l. 1° dic. 1970, n. 898, che ha profondamente mutato la disciplina del rapporto matrimoniale, in precedenza fondato sul principio dell'indissolubilità, enunciato espressamente dall'art. 149 cod. civile. Difatti è ora consentita la dichiarazione giudiziale di scioglimento del matrimonio in una serie di casi che, secondo l'apprezzamento del legislatore, costituiscono presupposto di cessazione della comunione spirituale e materiale di vita che caratterizza il rapporto matrimoniale.
Di questi casi alcuni fanno riferimento a condanne a pene restrittive della libertà personale che, per la loro durata (ergastolo o detenzione superiore a quindici anni), o per la gravità dei reati che le hanno determinate, in relazione alle persone offese (alcuni delitti commessi in danno del coniuge, di un discendente o figlio adottivo), ovvero delle azioni delittuose accertate, anche quando non sia seguita condanna penale per essere il reato estinto o non punibile chi lo ha commesso, rendono impossibile la convivenza o inidoneo il coniuge a mantenerla.
In tutte queste ipotesi il d. non può essere pronunciato, venendo meno la ragione che lo giustifica, se i coniugi abbiano concorso nella commissione dei reati oppure se la convivenza sia ripresa o continuata dopo la condanna penale, giacché l'effettivo e normale funzionamento dell'istituto matrimoniale dimostra che le situazioni considerate astrattamente idonee a far cessare la comunione tra i coniugi, non hanno in concreto prodotto questo effetto, essendo la convivenza ancora possibile e di fatto attuata.
Gli altri casi di scioglimento del matrimonio fanno riferimento a situazioni che, in contrapposizione alle già menzionate "cause penali" di d., collegate cioè alla commissione di un fatto-reato, possono essere incluse, come "cause-civili", in una unitaria e residuale categoria, comprendente tre diverse ipotesi, che si riferiscono al mancato funzionamento, originario o sopravvenuto, dell'istituto matrimoniale.
Si estende ai vizi tanto originari che sopravvenuti del consorzio coniugale l'ipotesi del matrimonio con cittadino straniero che, all'estero, ha ottenuto l'annullamento (così secondo la dizione legislativa, ma più correttamente si direbbe dichiarazione di nullità) o lo scioglimento del matrimonio, oppure è passato a nuove nozze. Anche in questi casi il d. sanziona l'irreversibile rottura della convivenza coniugale, essendo stato dichiarato nullo lo stesso negozio matrimoniale sul quale essa si fonda o essendo venuta successivamente a mancare la funzionalità dell'istituto matrimoniale.
Si tratta, nelle prime due ipotesi (dichiarazione di nullità o scioglimento del matrimonio), di situazioni che potrebbero essere anche per altro verso produttive degli effetti giuridici loro propri, mediante la delibazione della sentenza straniera di annullamento o di divorzio. Difatti l'introduzione del d. ha eliminato il principio dell'indissolubilità del matrimonio che, considerato di ordine pubblico, aveva in precedenza impedito di dichiarare esecutive nel territorio dello stato le sentenze straniere di d. riguardanti cittadini italiani. La delibazione di queste sentenze è ora ammessa, anche se esse sono state pronunciate su presupposti di fatto diversi da quelli previsti dalla legge italiana, non essendo considerata di ordine pubblico la disciplina del d. nella sua interezza. Rimarrebbero escluse dalla esecutività solo le ipotesi, quale il ripudio unilaterale, che, pur determinando lo scioglimento del matrimonio, non abbiano affinità alcuna con l'istituto del d. qual è delineato nell'ordinamento italiano.
Altra "causa civile" di d. è l'inconsumazione del matrimonio, che ha carattere di assoluta novità, non solo perché nessun precedente disegno di legge indicava questa come causa di scioglimento del matrimonio, ma anche perché la inconsumazione, rilevante per il diritto canonico che la considera presupposto perché un matrimonio validamente contratto possa essere sciolto (ipso iure per sopravvenuta solenne professione religiosa, o con dispensa pontificia concessa per giusta causa: cfr. can. 1119 cod. iur. can.), non aveva mai avuto diretta rilevanza giuridica nell'ordinamento statuale. Anzi proprio questa discrepanza tra la disciplina canonistica, idonea a produrre effetti mediante l'esecutività dei provvedimenti ecclesiastici di dispensa dal matrimonio rato e non consumato consentita dall'art. 34 del Concordato, e la disciplina civilistica, rendeva opportuna, secondo l'opinione espressa nella relazione che accompagnava il progetto di legge poi approvato, l'inserimento dell'inconsumazione tra le cause di d., sanando quella che si riteneva una sperequazione tra cittadini.
Tutti i casi di d. sopra menzionati, pur rilevanti per delineare le caratteristiche dell'istituto, sono tuttavia marginali, costituendo quantitativamente piuttosto l'eccezione che non la regola. La causa per così dire tipica di d. è rappresentata dalla separazione personale dei coniugi protratta per un periodo di tempo tale da far ritenere non più reversibile l'interruzione della convivenza e irreparabile la cessazione della comunione spirituale che anima i reciproci doveri di fedeltà, assistenza e collaborazione tra i coniugi. A tal fine è irrilevante che la separazione sia consensuale, fondata cioè sull'accordo delle parti omologato dal giudice, o giudiziale, vale a dire pronunciata con sentenza emessa in contraddittorio tra i coniugi e su istanza anche di uno solo di essi, per una delle cause specificamente previste dal cod. civile (art. 151).
Perché possa essere pronunciato il d. è necessario che la sentenza di separazione giudiziale sia passata in giudicato e, nell'ipotesi di separazione consensuale, che il decreto di omologazione non sia sottoposto a reclamo. Ma i termini d'ininterrotta separazione necessari per la pronuncia di d. decorrono dalla comparizione delle parti dinanzi al presidente del tribunale per il tentativo di conciliazione, comune alle due forme di separazione.
La separazione deve durare da almeno cinque anni (elevati a sette se il coniuge convenuto si oppone al d. chiesto dal coniuge separato per propria esclusiva colpa). Norme transitorie attribuiscono rilievo anche alla separazione di fatto, iniziata almeno due anni prima dell'entrata in vigore della legge sul d., equiparandola alla separazione giudiziale o consensuale agli effetti dello scioglimento del matrimonio. In ogni ipotesi la separazione dev'essere ininterrotta, non deve cioè essere intervenuta la riconciliazione che, secondo la giurisprudenza prevalente, è attuata con la piena ricostituzione del consorzio familiare, in tutti i suoi rapporti materiali e spirituali.
Il d. estingue il rapporto coniugale, ma non annulla tutti gli effetti prodotti dal matrimonio, che, pur sciolto, non solo rimane storicamente ineliminabile, ma non può altresì essere considerato come mai validamente esistito. Residuano difatti poteri e doveri che trovano la loro ragione d'essere proprio nel matrimonio che si dichiara sciolto e che hanno origine dalla stessa estinzione del rapporto coniugale, alla quale sopravvive, fino al passaggio a nuove nozze, un dovere di solidarietà patrimoniale tra i coniugi divorziati, che si traduce nell'obbligo di somministrazione di un assegno periodico, la cui natura, secondo l'orientamento giurisprudenziale oramai consolidato, è composita. Si è difatti ritenuto che l'assegno di d. - a differenza dell'assegno di mantenimento al coniuge separato senza colpa che ha diritto di partecipare allo stato economico del coniuge cui è addebitabile la separazione - ha natura assistenziale, risarcitoria e compensativa, giacché tende a tutelare il coniuge che con lo scioglimento del matrimonio subisca un deterioramento della propria situazione patrimoniale attuale e futura, abbia minori responsabilità nella definitiva disgregazione della famiglia, alla cui conduzione abbia dato un notevole contributo personale ed economico.
Al d. sopravvivono inoltre, senza limiti temporali, quei rapporti sorti in costanza e in ragione del vincolo coniugale, che toccano altri membri della famiglia. L'obbligo, comune ai coniugi, di mantenere, istruire ed educare la prole, sia legittima che adottiva, permane anche in caso di passaggio a nuove nozze, ma può mutare nel suo modo d'essere. L'affidamento dei figli, da disporre secondo il loro esclusivo interesse, al padre o alla madre (alternativa questa che necessariamente segue la cessazione della convivenza) e anche a terzi in caso d'inidoneità dei genitori, non esclude il potere-dovere di ciascun genitore di vigilare sulla loro educazione, mentre il contributo che grava il coniuge non affidatario è stabilito, nella misura e nel modo, dal tribunale.
Il procedimento di d. presenta peculiarità che lo differenziano dal processo civile ordinario e richiamano piuttosto il modello del procedimento di separazione personale, distinto in due fasi. Nella prima il presidente del tribunale sente personalmente i coniugi, tenta di conciliarli e detta i provvedimenti temporanei e urgenti nell'interesse dei coniugi stessi e della prole. Nella seconda fase, dinanzi al giudice istruttore e al collegio, in contraddittorio tra le parti e con l'intervento obbligatorio del pubblico ministero, vengono acquisite le prove e quindi decisa la causa sia in ordine alla domanda principale (scioglimento del matrimonio) che alle domande accessorie (quali la corresponsione di un assegno periodico al coniuge, l'affidamento dei figli e il loro mantenimento).
Il procedimento di d. è caratterizzato in modo particolare dall'ampia discrezionalità concessa al giudice, non tanto in relazione alla valutazione dell'esistenza delle condizioni dell'azione, e in specie dell'impossibilità di mantenere o ricostituire la comunione tra i coniugi (che sarebbe discrezionalità intrinseca al giudizio), quanto in relazione alle prove, che possono essere assunte d'ufficio dal giudice istruttore, in deroga al principio dispositivo che regola il processo civile ordinario. Altre caratteristiche salienti sono la costante modificabilità delle statuizioni concernenti l'affidamento dei figli e i rapporti patrimoniali soggetti a revisione quando sopravvengano "giustificati motivi", e i limiti del potere d'impugnazione del pubblico ministero che può appellare la sentenza di d. limitatamente agl'interessi patrimoniali dei figli minori o legalmente incapaci.
Questa pur sommaria descrizione della disciplina normativa consente di delineare le caratteristiche salienti che l'istituto del d. assume nel nostro ordinamento. Anzitutto la tassatività delle cause di scioglimento del matrimonio indicate dalla legge, che non consente di tener conto di altre situazioni, le quali, pur non essendo in essa specificamente previste, determinino tuttavia un'irreparabile e irreversibile rottura della comunione di vita tra i coniugi.
La tassatività delle cause di d. è tuttavia ora in larga misura temperata, se non dissolta, dall'elasticità di presupposti della separazione personale, giacché la previsione della separazione protratta nel tempo, come causa tipica di d., fa sì che, mutando la disciplina delle cause di separazione, mutino di conseguenza anche le situazioni sostanziali che consentono lo scioglimento del matrimonio, secondo un meccanismo che ha già trovato applicazione. Difatti quando è stato introdotto il d. la separazione personale non consensuale aveva come precipuo presupposto la colpa, potendo essere chiesta solo in danno del coniuge responsabile di adulterio, volontario abbandono, eccessi, sevizie, minacce o ingiurie gravi (art. 151 cod. civ.). La recente riforma del diritto di famiglia ha profondamente mutato questa disciplina, consentendo la separazione, senza prevedere una sia pur indicativa casistica, quando risulti intollerabile la convivenza o sussista pregiudizio per l'educazione della prole (art. 33 l. 19 maggio 1975, n. 151). Risulta così molto estesa la possibilità di sciogliere il matrimonio, mentre con la precedente disciplina della separazione il d. non poteva essere pronunciato contro il coniuge che non avesse accettato la separazione consensuale o, non essendo responsabile della rottura della convivenza, non avesse chiesto la separazione giudiziale per colpa dell'altro coniuge.
Alla tassatività delle cause di d. non si accompagna l'automaticità degli effetti. Lo scioglimento del matrimonio non segue necessariamente al verificarsi di uno dei casi previsti per la pronuncia di d., che presuppone anche, quale ulteriore elemento, che il "caso" dedotto impedisca in concreto il mantenimento o la ricostituzione della comunione spirituale e materiale tra i coniugi.
Il d. risulta dunque configurato, e in modo più accentuato dopo la riforma del diritto di famiglia, non come sanzione per il comportamento di uno, o reciproco, dei coniugi, né come effetto della loro volontà e del loro consenso, ma come rimedio per il fallimento del matrimonio, attuato con il formale adeguamento a una consolidata situazione di fatto ritenuta irreversibile: il rapporto matrimoniale funzionalmente e stabilmente difettoso si dichiara estinto.
L'introduzione del d. ha determinato vivaci contrasti nel Parlamento e nel paese: segno ne è che ha dato luogo all'unico caso di referendum abrogativo sinora espletato. Nelle votazioni, tenute il 12 maggio 1974, la maggioranza del corpo elettorale si è pronunciata contro l'abrogazione della l. 1 dic. 1970, n. 898.
Ulteriori questioni sono sorte per l'estensione del d. ai matrimoni canonici con effetti civili. Durante il procedimento legislativo la S. Sede aveva denunciato al governo italiano la lesione che l'approvazione della legge avrebbe portato all'art. 34 del Concordato, che attribuisce gli effetti civili al matrimonio disciplinato dal diritto canonico e riconosce la giurisdizione matrimoniale ecclesiastica. Era seguito uno scambio di note diplomatiche nelle quali il governo e la S. Sede avevano prospettato contrastanti interpretazioni della disposizione concordataria.
La questione è stata anche oggetto di due sentenze della Corte costituzionale (n. 169 del 1971 e n. 176 del 1973), essendo stata posta in dubbio la legittimità costituzionale dell'art. 2 della legge che, pur con cautele terminologiche (si parla di "cessazione degli effetti civili", anziché di "scioglimento" del matrimonio) estende la disciplina del d. ai matrimoni cosiddetti concordatari, sì che ne sarebbe risultato violato l'art. 34 del Concordato e, mediatamente, l'art. 7 cost., che ha attribuito rilevanza costituzionale ai Patti lateranensi. La Corte ha ritenuto che il contrasto denunciato non si dia, giacché con il Concordato lo stato ha assunto l'impegno di riconoscere al matrimonio canonico regolarmente trascritto gli stessi effetti del matrimonio celebrato dinanzi all'ufficiale dello stato civile, rimanendo libero di regolare tali effetti anche quanto alla loro permanenza nel tempo.
Bibl.: L. Barbiera, Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio, in Commentario del codice civile, a cura di A. Scialoja e G. Branca, Bologna-Roma 1971; L. Grassi, La legge sul divorzio - Manuale di diritto sostanziale e processuale, Napoli 1971; Autori vari, Scioglimento del matrimonio, Roma 1971; Autori vari, Studi sul divorzio, a cura della cattedra di diritto ecclesiastico dell'università di Roma, Padova 1972; V. Palladino, A. Palladino, Il divorzio, Milano 1975; G. Stella Richter, L'istituto del divorzio in Italia e l'esperienza giuridica dei principali ordinamenti europei, ivi 1976.