DEL CARRETTO, Enrico (Enrico de Vasto, de Loreto; Weze, Guercius, Guercio), marchese di Savona
Nato agli inizi del sec. XII, era figlio di Bonifacio del Vasto o di Loreto (dal nome del castello posto in prossimità di Savona e residenza abituale della famiglia) e di Agnese di Vermandois.
Bonifacio era nato da Ottone, o Tete, e da Berta, figlia di Olderico Manfredo, marchese di Torino. Egli avrebbe avuto almeno due mogli: la propria cognata, vedova del marchese Anselmo (contro questa unione si scagliò papa Gregorio VII nel 1079) e la contessa Agnese di Vermandois, nipote di Filippo I, re di Francia. Dal primo matrimonio nacquero Bonifacio d'Incisa (ribellatosi al padre e per questo diseredato) e una figlia; dal secondo matrimonio nacquero nove figli, di cui sette maschi, ricordati nel testamento steso da Bonifacio nel 1125: Manfredo, Guglielmo, Ugo, Anselmo, Enrico, Bonifacio e Ottone.
Morto il padre prima del 1135, probabilmente i figli mantennero in comune il vasto feudo lasciato loro in eredità; esso si trovava in una posizione di grande importanza strategica e commerciale, perché, posto a cavaliere del versante alpino ed appenninico, controllava le vie di transito tra mar Ligure e pianura padana e i relativi sbocchi marittimi, in un momento in cui i nascenti mercati comunali riattivavano le correnti di traffico; proprio lo sviluppo delle autonomie cittadine, tuttavia, costituiva il pericolo principale per l'integrità del feudo, sottoposto all'azione erosiva dei Comuni costieri e subalpini.
Nel 1135 tutti i fratelli comparivano in un atto di donazione a favore del monastero di S. Maria di Staffarda; cinque anni dopo strinsero alleanza col Comune di Genova, impegnandosi ad aiutarlo contro Oberto conte di Ventimiglia in cambio della promessa di metà di questo comitato. Nel 1142 l'amministrazione del feudo doveva essere comune, se la donazione di una terra nel territorio di Carmagnola a favore del monastero di S. Maria e S. Croce "de Civitatula", fatta da Manfredo e Ugo, venne ratificata in Asti dal D. e dai suoi fratelli Anselmo e Ottone.
Solo in quest'anno (anche se l'atto di divisione dei beni riportato dal Moriondo è, con ogni probabilità, un falso) o negli anni immediatamente successivi, il feudo venne diviso. Di questo primo importante frazionamento subito dal feudo di Bonifacio (destinato ad una continua polverizzazione nei decenni seguenti), al D. toccò la marca comprendente Savona, Noli, Finale, una serie di castelli e "ville" minori (Cairo, Altare, Carcare, Bardineto, Calissano, Dego, Sassello, Spigno) e vasti territori posti nella zona subalpina a ridosso delle Langhe. Il feudo, tuttavia, mancava di una legittimazione esterna, cioè del riconoscimento imperiale del potere signorile esercitato dal D. (significativamente, negli Annali genovesi egli è ricordato come Enrico "de Loreto", dal nome del castello avito, ma senza titolo di marchese di Savona) ed era privo di una salda forza militare capace di scoraggiare le spinte erosive provenienti dai Comuni confinanti col feudo e dalle nascenti autonomie cittadine sorte al suo interno.
Dei fratelli del D., Guglielmo morì prima del 1140 ed Anselmo prima del 1155; Manfredo (che col D. e con Ottone fu a lungo condomino del castello di Noli, il cui possesso era rivendicato da Genova e dal vivace organismo comunale sorto nel borgo di Noli) probabilmente morì prima del 1170; Bonifacio, che compare nei documenti solo col 1182, forse perché fino ad allora minorenne, morì senza prole prima del 1191; di Ugo (che è segnalato alla corte del Barbarossa nel 1161) e di Ottone, detto "Boverius", ignoriamo l'anno di morte.
Nel 1150, con la mediazione dei consoli genovesi, il D. si vide riconosciuti dagli abitanti di Noli una serie di privilegi feudali (tra cui il potere di alta giustizia, con la facoltà di tenere curia a Noli tre volte all'anno; l'"introitus litoris et porte"; le esazioni fiscali e censuarie nel borgo), ma fu costretto a riconoscere agli abitanti il diritto di avere un proprio consolato, dietro il pagamento di una somma in denaro: atto illuminante non solo perché dimostra la necessità per il D. di ricorrere ad una forza esterna (in questo caso, il Comune genovese) per potere esercitare quei diritti signorili che il suo titolo di marchese comportava, ma anche perché esso inizia una lunga serie di alienazioni di privilegi feudali dietro compenso in denaro, segno delle difficoltà finanziarie in cui i rappresentanti del mondo feudale si dibattevano di fronte alla crescita economica dei Comuni rivieraschi. La mediazione genovese, tuttavia, non era disinteressata: due anni prima (ma l'atto riportato nel Liber Iurium è privo di data) il marchese aveva giurato lo "abitacolo" nella città di Genova, impegnandosi a risiedervi per tre mesi all'anno e a militare nell'esercito comunale. Nel 1151 la mediazione dei consoli genovesi dovette ancora frapporsi tra il D. e gli abitanti di Noli, che non avevano rispettato l'accordo precedente, perché fatto contro la loro volontà. Tuttavia neppure il marchese poteva accettare di buon grado il riconoscimento della esistenza, all'interno del suo feudo, di un organismo autonomo: nell'agosto del 1154, rompendo l'accordo stipulato con Genova, egli occupò con un colpo di mano il castello di Noli. Il Comune genovese intervenne con energia, conducendo una guerra di saccheggio contro il feudo del D., ma senza poter rioccupare il castello per le condizioni avverse del mare, essendo ormai iniziato l'inverno. L'anno seguente si finì con l'arrivare ad un compromesso: la signoria sul castello fu riconosciuta al Comune genovese, che lo cedette in feudo al D. e ai suoi fratelli Manfredo ed Ottone; i tre, a loro volta, rinnovarono il giuramento di abitare a Genova e ottennero la riconferma del diritto di alta giustizia a Noli e la facoltà di tenervi placito per venti giorni annui; implicitamente, tuttavia, i marchesi furono costretti ad accettare l'esistenza di un consolato nel borgo.
A consigliare un accordo in tali termini dovette essere la discesa di Federico I in Italia; non abbiamo notizie sui rapporti tra i marchesi del Vasto e la corte imperiale fino al 1161 quando, sceso il Barbarossa in Italia per la seconda volta, Manfredo e Ugo dovettero raggiungere l'esercito imperiale. Nel giugno dell'anno seguente, il D. assistette alle trattative tra l'imperatore e il Comune genovese, conclusesi a Pavia con un accordo; sempre nello stesso mese, egli ricevette in feudo dal Barbarossa tutto ciò che suo padre Bonifacio possedeva nella città e nella marca di Savona, con tutti i diritti feudali ad essa connessi. Questo atto formale di legittimazione, accanto alla presenza imperiale in Italia, pose il D. al sicuro dall'esplodere delle forze autonome comunali all'interno del suo feudo e allontanò ogni tentativo volto ad indebolire i possessi, che rimasero saldamente nelle sue mani sino alla sua morte. Nell'agosto dello stesso anno, egli seguì Federico a Torino e presenziò alla cerimonia in cui l'imperatore investì Raimondo Berengario III della contea di Provenza. Nel documento in questione il D. è ricordato per la prima volta col soprannome di Weze, latinizzato poi in Guercius.
Non abbiamo sue notizie per gli anni seguenti; sceso per la quarta volta Federico in Italia, il D. dovette unirsi all'esercito imperiale in marcia verso l'assedio di Ancona; nel 1167, infatti, è ricordato come teste in un diploma steso a Rimini. L'anno seguente partì per l'Oltremare e assistette alla firma dell'accordo commerciale in cui ai Genovesi vennero concesse vaste esenzioni fiscali e doganali dal signore di Gibelletto, Ugo Embriaco, la cui figlia Alda divenne moglie di Ottone, primogenito del marchese. Nel 1170 i consoli genovesi intervennero per impedire agli abitanti di Noli di costruire edifici sul pendio del poggio e di edificare nel borgo case o torri difendibili alte piú di 20 piedi; ad essi si proibiva, altresì, di entrare nel castello, rimasto al Comune genovese e al D., che attraverso esso continuava a controllare il borgo. Nel documento non si fa menzione degli altri due condomini, Manfredo ed Ottone, perché il primo forse era già morto, mentre il secondo aveva ceduto la sua parte al fratello maggiore. L'anno seguente il D. si vide costretto dalle continue necessità finanziarie a cedere agli abitanti di Noli l'uso dei mulini e dei forni, dietro il pagamento di una cospicua somma. Nel marzo l'alleanza con Asti, già da tempo salda (come risulta da un atto del 1148), fu rinnovata dal D. (chiamato curiosamente nel documento "Strabo", con un evidente fraintendimento del suo soprannome), che si impegnava a risiedere nella città per un mese, a militare nell'esercito comunale e ad interporre i suoi buoni uffici presso l'imperatore a favore del Comune; in cambio, egli ottenne il riconoscimento di alcuni pedaggi che venivano da lui riscossi sulle merci appartenenti ai mercanti astigiani.
L'alleanza con questo Comune e con quello albese era vitale per il D., che poteva godere di costanti entrate doganali, solo garantendo ai mercanti delle due città sicurezza e libertà di transito sulle strade passanti per il suo feudo. Nel 1172 l'accordo con Genova (rinforzato nove anni dopo da un altro matrimonio, quello del secondogenito Enrico con Simona, figlia del ricco e nobile cittadino genovese Baldovino Guercio) venne messo alla prova dalla rivolta di Opizzo e Moruello Malaspina, appoggiati dalla piccola nobiltà distrettuale, preoccupata per l'espansione genovese nelle Riviere. Il marchese militò, come altri feudatari, nell'esercito comunale; tuttavia, Genova ritenne più prudente, non appena la situazione militare migliorò col ritiro dei Malaspina verso l'entroterra, sciogliere l'esercito e licenziare gli alleati scomodi, di cui si temeva l'infedeltà.Sceso nell'autunno del 1174 nuovamente in Italia il Barbarossa, il D. riprese il suo posto alla corte imperiale. Ebbe l'incarico da Federico, alle prese con l'assedio di Alessandria, di dirimere alcune controversie sorte a seguito della investitura della contea di Forcalquier concessa al conte Guglielmo IV. Nel 1175 fu scelto da Federico, insieme con altri rappresentanti imperiali, per trattare una tregua coi delegati della lega lombarda; il 16 aprile, presso Montebello, si giunse ad un accordo, che prevedeva anche il reciproco rilascio dei prigionieri; il giorno seguente il marchese assistette alla firma della tregua raggiunta coi Comuni di Pavia ed Alessandria, offrendosi mallevadore di parte imperiale insieme con Umberto III di Savoia; nel novembre, fu presente al giuramento fatto dai rappresentanti di Pisa di rispettare la pace tra l'imperatore, Genova e il loro Comune. Tre anni dopo, nel marzo, si trovò a Pavia e nel luglio a Torino, assistendo alle convenzioni stipulate tra l'imperatore e Asti circa la custodia del castello di Annone.
Nel frattempo le spinte autonomistiche che fermentavano all'interno del feudo e che avevano già costretto il marchese ad importanti concessioni per il Comune di Noli, si fecero sentire a Savona, dove da tempo si era affermato il Comune. Alcune controversie degli anni precedenti (lo sfruttamento di una miniera argentifera, il possesso di alcune terre contese con l'abbazia di S. Pietro di Ferrania) testimoniano le tensioni esistenti tra il signore feudale e i suoi sudditi savonesi.
Nel 1179 si venne ad un accordo: il D. e i suoi due figli giurarono di rispettare le consuetudini da tempo riconosciute a Savona e cedettero i diritti di mercato e di pesa pubblica; a loro volta, i consoli del Comune promisero di rispettare i beni allodiali del marchese nel territorio del vescovado; entrambe le parti, infine, si impegnarono a non costruire castelli. Se, formalmente, la sovranità del marchese sulla città veniva salvata, in pratica la sua influenza fu fortemente ridotta da questo atto con cui il Comune di Savona vide riconosciuta la propria autonomia: prima grave defezione all'interno del feudo del Del Carretto. Nei confronti del Comune più piccolo di Noli il marchese riuscì invece, per il momento, a salvare buona parte dei suoi privilegi; nel 1181 egli vide riconosciuta la sua signoria feudale e i conseguenti poteri bannali su Noli, ma fu costretto a cedere al Comune la possibilità di fortificare il borgo e a riconoscergli i diritti di mercato e di macina, su cui vi era controversia.
Il giuramento dell'abitacolo in Genova da parte dei due suoi figli, Ottone ed Enrico (20 luglio 1182), venne a rinsaldare il legame politico tra il feudo e il potente Comune. Ancora nel marzo 1183 il D. risulta trovarsi a Savona; in questo anno si vide affidato da Federico l'incarico di intavolare trattative di pace coi Comuni lombardi, insieme con gli altri rappresentanti imperiali, Guglielmo vescovo di Asti, e frate Teodorico "de Silva Benedicta". Questa scelta non dovette essere casuale: la sua conoscenza del complesso mondo politico subalpino, la sua abilità di negoziatore, da sempre alle prese con l'espansione comunale e coi difficili problemi istituzionali e giuridici da essa creati, la sua preparazione in materia di diritto feudale dovettero spingere l'imperatore a sceglierlo come la persona più adatta a tentare la strada dell'accordo con la Lega lombarda. A Piacenza, il 30 aprile, a lui toccò formulare e sottoscrivere, come plenipotenziario imperiale, la pace. Nell'agosto dell'anno seguente, egli promise di intervenire presso la corte imperiale a favore del Comune di Piacenza; nel settembre dello stesso anno, unitosi all'esercito del Barbarossa, partecipò alla solenne assemblea tenuta dall'imperatore a Milano.
La morte del D. dovette avvenire prima del 1186, anno in cui i suoi due figli procedettero alla divisione del feudo. Nel 1179 egli aveva fondato l'istituzione religiosa e sociale più importante della famiglia, l'ospedale di S. Maria e S. Lazzaro "de Fornellis", posto nel territorio di Cosseria (prov. Savona), dotandolo perché potesse ospitare dodici infermi. Ebbe quattro figli dalla moglie, identificata dal Brichieri Colombo con Beatrice, figlia di Guglielmo II marchese del Monferrato e nipote dell'imperatore Federico I: Ottone, Enrico, Ambrogio, vescovo di Savona dal 1183 al 1193, e Bonifacio, anch'egli vescovo di Savona dal 1193 al 1198. Si ricorda anche una sua figlia, Isabella, sposa di Enrico marchese di Ponzone.
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