DEI, Pietro (Piero), detto Bartolomeo della Gatta
Figlio di Antonio di Giovanni e Margherita di Piero Bencivegni, nacque a Firenze nell'anno 1448; questo pittore, miniatore, musico e architetto è più noto con il nome di don Bartolomeo, preso con gli ordini religiosi, e l'appellativo di Della Gatta, con cui lo ricorda il Vasari che ne scrisse la vita.
La mancanza di una conferma documentaria alle notizie del Vasari (1568) circa la sua presenza come monaco nel monastero fiorentino di S. Maria degli Angeli e poi come abate in S. Clemente di Arezzo indusse il Milanesi nel suo Commentario alla Vita di don Bartolommeo (1906, pp. 227-231), a negare addirittura l'esistenza dell'artista.
La scoperta del vero nome Pietro Dei si deve alla rilevanza data da Crowe e Cavalcaselle (1898) e dal Mancini (1904) a un documento, edito per la prima volta dal Ghizzi (1887), dell'archivio dell'ospedale di Castiglion Fiorentino che, in data 2 ott. 1486, riporta il contratto di allogazione al pittore della tavola con le Stimmate di s. Francesco per la chiesa di S. Francesco, oggi nella Pinacoteca civica della stessa città. Dal documento si vengono a conoscere il nome e la provenienza del D., nonché la sua carica di abate di S. Clemente: "... 1486, die 2 octobris... da et alloca a don Piero d'Antonio Dei da Firenze, priore al presente di San Chimento d'Arezzo dell'Ordine di Camaldoli...".
Il Mancini (1904) trovò ulteriori appoggi documentari relativamente alla nascita e alla iscrizione all'arte degli orafi. Nel 1451 il padre Antonio denunciò al catasto il D., secondo figlio maschio di anni tre: tale denuncia stabilisce che il pittore nacque nel 1448. Di notevole interesse è l'altro documento, riportato sempre dal Mancini, da cui si apprende che a soli cinque anni, nel 1453, il D. fu immatricolato nella compagnia degli orafi dell'arte di Pieve Santa Maria di Firenze, alla quale erano iscritti i membri della sua famiglia che esercitavano per lunga tradizione quest'arte.
Circa l'appartenenza del D. alla vita monastica, il Mancini (1904) riporta due strumenti stipulati il 12 nov. 1470 nel coro della chiesa di S. Maria in Gradi in Arezzo, nei quali si nomina, fra gli intervenuti, "Dom. Pierus Antonii de Florentia" in qualità di monaco professo. Rimane quindi accertato che nel 1470 il pittore faceva parte dell'Ordine camaldolese, ma non a Firenze nel monastero di S. Maria degli Angeli come riporta il Vasari, bensi ad Arezzo; mancano tuttavia notizie di quando sia entrato nella vita religiosa. In un documento del 1482 riportato dal Pasqui (1926, p. 19) il D. viene definito abate di S. Clemente: "Dominus Petrus Antonii de Deis de Florentia prior sancti Clementis de Aretio ordinis camaldulensis...".
Con questo titolo di abate di S. Clemente l'artista si presenta in un Libro dei censi che il D. impostò e redasse in prima persona a cominciare dal 22 dic. 1495 (Bibl. della Fraternita di Arezzo, cod. 294). Il Pasqui (1926, p. 37) ne riporta l'inizio: "In Dei nomine amen. Qui in questo libro fatto e cominciato il 22 dic. 1495... da don Piero d'Antonio de Dei da Firenze abbate del Monastero di San Chimenti dell'Ordine di Camaldoli...". Nell'ultimo ricordo autografo fissato dalla mano dell'abate nello stesso Libro dei censi in data 4 giugno 1502 (Pasqui, 1926, p. 41), egli si definisce abate di S. Clemente e di S. Maria in Gradi: "... con licentia da me don Piero abbate di San Chimenti e di Santa Maria in Grado". Il D. morì nel 1502 presumibilmente a Firenze (ibid., pp. 39 s.).
La caratteristica fondamentale della complessa personalità artistica del D. fu una incredibile versatilità che gli permise di provare la sua arte nei campi più diversi, dovunque la sua instancabile curiosità intellettuale lo spingesse a cimentarsi: oltre che nella pittura, attività nella quale ha lasciato il maggior numero di opere, egli si distinse come miniatore, architetto e costruttore di organi.
Alla base della sua pittura sta la padronanza assoluta della tecnica del disegno che dovette esercitare a lungo, prima applicandosi al bulino e al cesello sotto la guida del padre, in seguito nell'ambito delle botteghe del Pollaiolo e del Verrocchio, alla cui scuola fanno puntuale riferimento le opere giovanili. La sua sensibilità vivacissima, intuitiva e duttile dovette trovare nella bottega del Verrocchio, punto di partenza quasi obbligato per chi intendesse dedicarsi all'arte nel settimo decennio del sec. XV a Firenze, molteplici indicazioni circa il modo di affrontare l'arte e un continuo stimolo alla sperimentazione della propria capacità creativa, suggeriti, oltre che dallo stesso Verrocchio, dalla vicinanza di artisti come il Ghirlandaio, il Botticelli e il Perugino che proprio in quegli anni vi si stavano formando.
Quando, all'inizio del decennio successivo, il giovane approdò ad Arezzo, il pericolo che l'accumulo di tutte le acute suggestioni fiorentine si frantumasse in un eclettismo dispersivo ed episodico fu evitato dalla lezione offertagli dal grandioso ciclo di affreschi di Piero della Francesca. L'adozione delle nitida luce pierfrancescana come elemento unificante stempererà nella luminosità pura sia il segno nervoso e scattante appreso dal Pollaiolo sia il modo spezzato e spigoloso di costruire i volumi secondo lo stampo del Verrocchio, le caratteristiche più evidenti del suo stile in questa prima fase. Probabilmente la piena comprensione della grande lezione di Piero era già stata avviata in un precedente soggiorno a Urbino, favorita anche dallo studio attento dei rapporti spaziali nelle limpide ed equilibrate strutture architettoniche del Bramante che là operava. L'ipotesi di un periodo urbinate del D. sembra confermata dall'amicizia con il vescovo di Arezzo Gentile de Becchi di Urbino (Vasari, 1568, p. 217) e dalla presenza di un foglio miniato in uno dei corali dell'Archivio capitolare di Urbino che gli è stato attribuito dal Salmi (1952, p. 260). Inoltre il gusto di un realismo descrittivo e del particolare episodico di origine nordica potrebbe essergli derivato dal contatto con i due pittori stranieri, Giusto di Gand e Pedro Berruguete, intenti a raffigurare in quegli anni la serie degli "uomini illustri" per lo studiolo di Federico da Montefeltro nel palazzo ducale di Urbino.
Della notevole produzione dell'artista, ricordata dal Vasari, è rimasto purtroppo un numero piuttosto limitato di opere, quasi tutte di altissima qualità stilistica. Il Martini (1960) che, sulla traccia delle indicazioni del Longhi, tese a sottolineare la particolare complessità culturale del D., ha ricostruito il gruppo di quelle appartenenti alla prima fase dell'artista, ne ha acutamente puntualizzato sia i rapporti di connessione con l'attività degli artisti prima ricordati, sia il momento cronologico della realizzazione. Punto centrale del primo periodo giovanile è ormai considerata la grande tela dell'Assunta della chiesa di S. Domenico a Cortona, proveniente dal convento benedettino delle Contesse della stessa città e che può ritenersi l'opera più compiutamente espressiva dell'arte del Dei. Il Martini (1960) fa notare come nella tela tutta l'impostazione e soprattutto il s. Tommaso abbiano puntuali riferimenti stilistici nelle Storie di s. Bernardino (Perugia, Pinacoteca nazionale) che il Perugino dipinse nel 1473, collocando quindi la realizzazione dell'opera intorno alla metà dell'ottavo decennio.
Rinvenuta nella stessa chiesa di S. Domenico a Cortona, fu attribuita al D. dal Salmi (1953) la figura a fresco di S. Rocco, purtroppo deteriorata nella parte inferiore, impostata con sicuro dominio dello spazio entro l'incavo di un sobrio e classico arco bramantesco. Contigui a questa furono rinvenuti frammenti di affresco con tre Storiette di altro santo che, attribuite prima dal Salmi al Signorelli (L. Signorelli, Novara 1953, p. 46), furono poi da questo date al D. (1953, p. 69). Le due opere, pur nella loro parziale restituzione, sono tuttavia assai interessanti per la diversa qualità dello stile che sottolinea l'evoluzione dei riferimenti culturali nel D.: il Martini (1960) pone il S. Rocco cronologicamente vicino all'Assunta, mentre, rilevando nelle Storiette caratteri più descrittivi che rimandano al Ghirlandaio e a Cosimo Rosselli, è portato a posticiparle di qualche anno.
Esempio anticipatore di un modo di comporre più disteso e narrativo, che giunge a risultati di intimo e sereno lirismo, è il S. Lorenzo dellabadia delle Ss. Fiora e Lucilla di Arezzo, prima opera datata che noi conosciamo (1476) e unica rimasta di un gruppo di santi fra cui S. Benedetto, che il Vasari (p. 217) ricorda nella badia aretina, eseguiti dal D. "con molta grazia e con buona pratica e dolcezza".
La rappresentazione di s. Rocco, che è presente nell'affresco di Cortona e già inserita fra gli apostoli dell'Assunta, diverrà una costante della pittura del D., legandosi alla pratica devozionale, in seguito al terribile flagello della peste che si abbatté su Arezzo nel 1478. Passato il pericolo, il D. ricevette l'ordinazione di due tavole con S. Rocco, ora entrambe al Museo statale di arte medievale e moderna di Arezzo. Il primo gli fu commissionato, come si legge nell'iscrizione in basso, nel 1479 dai rettori della Fraternita dei laici.
In una composizione di raro equilibrio e di alta suggestione spirituale si fondono armoniosamente le precedenti esperienze artistiche, nel ductus di una linea che, memore del Pollaiolo nei contorni nitidi e nervosi del corpo del santo, si avvicina ai ritmi botticelliani nel morbido fluttuare delle vesti degli angeli. La grande piazza deserta, lastricata a riquadri in cotto e in fondo ad essa il palazzo della fraternita, descritto con minuziosa attenzione realistica, offrono un'inconsueta veduta di Arezzo quattrocentesca.
Il secondo S. Rocco fu ordinato al D. dalla famiglia aretina dei Lippi per la cappella gentilizia nella Pieve (pieve di S. Maria). Eseguito come il precedente secondo lo schema dello stendardo processionale umbro, probabilmente subito dopo il 1480, è ricordato con parole di lode dal Vasari (p. 215) che lo descrive "bella e rara figura, e quasi la meglio che mai facesse".
Simile al primo per le analoghe qualità dello stile e per l'impianto compositivo - anche qui il punto focale è costituito dalle mani e dal volto rapito in preghiera del santo -,presenta alcune varianti non sostanziali con la figura non più in piedi ma in ginocchio e la veduta della città non più entro le mura, ma in lontananza contro lo sfondo di dolci colline. I due stendardi con il S. Rocco rappresentano il frutto più maturo della prima fase giovanile, perché assommano, trasfigurati dal fervore della mistica personalità dell'artista, vari elementi che si ritrovano singoli in altre opere a lui attribuite relativamente a questo periodo: il S. Girolamo della chiesa di S. Domenico di Pistoia (Martini, 1960, p. 135), con evidenti riferimenti al Verrocchio e al Pollaiolo, e il S. Rocco (ibid., p. 137) della collezione De Boer di Amsterdam, chiaro omaggio a Piero della Francesca. Insieme con esse sono altresì da ricordare in questa prima fase l'Arcangelo e Tobiolo di San Giovanni Valdarno (Longhi, 1951, p. 60; Martini, 1960, p. 135), la predella con un Episodio della vitadi s. Rocco, di ubicazione ignota (Martini, 1960, p. 137), e il S. Rocco del Museo Horne di Firenze (Salmi, 1930, pp. 17 s.), purtroppo di difficile lettura a causa dell'avanzato stato di deterioramento.
Sempre al 1480 viene riferita la tavola con S. Michele arcangelo della Pinacoteca civica di Castiglion Fiorentino (ibid., pp. 23 s., dove la grande e rigida figura dell'arcangelo sembra a malapena essere contenuta nell'angusto spazio della tavola.
Il Vasari (p. 218), che ricorda il dipinto come portello d'organo nella pieve di S. Giuliano o Castiglion Fiorentino, usa invece parole entusiastiche sia per l'arcangelo sia per il bambino in fasce, tenuto in braccio da una giovane donna inginocchiata dietro l'angelo e che è riconoscibile, per uno stemma e un'iscrizione, come una Visconti.
La creatività artistica del D. si rivolse nella giovinezza anche a un'intensa attività di illustrazione di libri miniati, secondo quanto racconta il Vasari, che gli attribuisce miniature eseguite per i monaci della badia di Arezzo e per il duomo di Lucca e in particolare un messale, "donato a Papa Sisto, nel quale era nella prima carta delle segrete una Passione di Cristo bellissima" (p. 213). Della ricca produzione del D. nel campo della miniatura si è persa purtroppo al momento quasi la traccia, a parte alcune attribuzioni: l'iniziale istoriata col Martirio di s. Agata, al f. 41v del corale 6 dell'Archivio capitolare di Urbino (Salmi, 1952, pp. 257-60); l'iniziale miniata con Titiro e Melibeo nel frontespizio della prima Bucolica del Virgilio Vaticano (ms. Urb. Lat. 350, c. 2v), scritto per Federico da Montefeltro e illustrato anche, nella prima parte contenente questo minio, prima del 1474 (Bonicatti, 1958, p. 262). La commissione di entrambi avvenne probabilmente tramite il vescovo di Arezzo Gentile de Becchi di famiglia urbinate.
La Levi D'Ancona (1962, p. 228) ha inoltre riconosciuto la mano del D. in due carte miniate con la Natività e la Crocifissione apparse sul mercato antiquario nella vendita Northwick del 1928 presso la Sotheby's, già facenti parte, secondo le notizie di due cataloghi settecenteschi dell'Archivio di Stato di Roma, di due manoscritti della Sistina, e ha identificato la Crocifissione con quella ricordata dal Vasari (p. 213) nel Messale di Sisto IV. L'Annunciazione di Gragnone, già attribuita dal Salmi (1953) a Luca Signorelli e dal Longhi (1951) al D. e l'affresco con la Madonna e il Bambino fra due angeli, proveniente dalla piazza di S. Agostino ad Arezzo (entrambi nel Museo statale della città), mostrano, alla fine del periodo giovanile, la stretta consonanza con le prime opere del pittore cortonese.
Le affinità stilistiche fra i due avevano, fino a tempi recenti, portato a credere che l'ascendente fosse esercitato dal Signorelli sul D. e non viceversa. L'ipotesi era avvalorata anche dal fatto che veniva considerata in prevalenza signorelliana la realizzazione dell'affresco con Gli ultimi giorni di Mosè che il D. dipinse a Roma nella cappella Sistina, secondo l'indicazione del Vasari (p. 216), in compagnia del Perugino e del Signorelli (fra il marzo del 1482 e il novembre del 1483). Il Martini (1960), pur mantenendo ferma la partecipazione di quest'ultimo, ne aveva ridotto l'importanza a favore dell'intervento del D., a cui aveva dato più spazio nella composizione, facendola però derivare dai cartoni di Luca. Il Bellosi (1970) ribalta invece i rapporti fra i due, negando decisamente la presenza del Signorelli nell'affresco e considerando come fondamentale la lezione del D. nella formazione di Luca.
Alla produzione degli anni successivi appartengono alcune opere aretine come l'Apparizione della Vergine a s. Tommaso del Museo statale, il Beato Iacopo da Faenza della chiesa di S. Pier Piccolo, il S. Gerolamo della sacrestia del duomo e la Crocifissione del duomo di San Sepolcro (Martini, 1960, p. 141). Il Martini attribuisce a questo periodo anche la notevole predella con un Santo che celebra la messa nella collezione Von Hirsch di Basilea. Il momento culminante di questa fase pienamente matura dell'artista, rivolto a dare un'organizzazione più sistematica ed equilibrata alla somma delle sue più diverse esperienze, è rappresentato da due tavole che costituiscono per noi gli ultimi riferimenti certi per la sua opera pittorica. La Madonna col Bambino fra i ss. Pietro e Paolo, Giuliano e l'arcangelo Michele, già nella pieve di S. Giuliano e ora nell'attigua collegiata di Castiglion Fiorentino, porta iscritta la data 1486.
La grandiosità delle figure dei due apostoli dai manti che li contengono a guisa di enormi preziose crisalidi, lasciando scoperti solo i volti e le mani di un'eccezionale resa realistica, si unisce alla dimostrazione di una consumata abilità tecnica nel trono della Madonna ornato di fregi, di festoni e in basso di bassorilievi a grisaille con le scene del martirio dei due santi e ad accenti di pathos nella tensione della figura inginocchiata di s. Giuliano. Della predella della tavola restano solo due quadretti con Scene della vita di s. Giuliano, ora nella Pinacoteca civica di Castiglion Fiorentino.
Le Stimmate di s. Francesco, nello stesso museo, dipinto datato, sulla base di documenti, dal 1486 al 1487 (Ghizzi, 1887), fonde l'appassionato sentimento religioso dei due frati - s. Francesco e il compagno - rapiti nella visione, al senso della natura, con l'ampio scenario dell'aspra foresta appenninica, descritta con realistica attenzione nelle rocce scabre, negli alberi sottili, nell'allocco sul ramo.
Ai rapporti con il Signorelli richiamano ancora opere problematiche come l'Adorazione dei pastori del Kunsthistorisches Museum di Vienna (Longhi, 1951) e l'Annunciazione del Museo del Petit Palais di Avignone, che ne costituiva forse la parte superiore (Laclotte, 1977, p. 23). Allo stile di esse si accosta uno degli ultimi dipinti dell'artista, la Madonna col Bambino fra s. Fabiano e s. Sebastiano del Museo diocesano di Arezzo: lasciato incompiuto dal D. e terminato dalla mano pesante dell'allievo Domenico Pecori (Salmi, 1930, p. 31).
Va ricordata infine l'attività del D. come architetto. Sempre secondo quanto attesta il Vasari (p. 217), il D. eseguì, su ordinazione del vescovo di Arezzo Gentile de Becchi, il disegno per una loggia, poi non realizzata per la morte del committente, che doveva collegare il vescovado con la cattedrale. Il Vasari riporta inoltre che il D. eseguì il modello del tempio di Nostra Donna delle Lacrime, ma che lasciò incompiuta l'opera a causa della morte. La costruzione della chiesa, eretta in onore della Vergine e detta poi anche della Ss. Annunziata, fu iniziata nel 1490 e condotta a termine da Antonio da Sangallo.
Della poliedrica personalità del D. deve essere ancora ricordata la sua qualità di valente costruttore di organi, dei quali uno creato per la badia di S. Clemente, secondo quanto riferiscono le parole ammirate del Vasari (p. 219): "ebbe l'ingegno atto a tutte le cose; ed oltre all'essere gran musico, fece organi di piombo di sua mano: ed in San Domenico ne fece uno di cartone, che si è sempre mantenuto dolce e buono: ed in San Clemente n'era un altro pur di sua mano...".
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