DECALOGO (dal gr. δέκα "dieci" e λόγος "discorso")
Serie di dieci precetti, prevalentemente morali, dati da Dio a Mosè sulla vetta del monte Sinai, all'uscire dall'Egitto. Fatto proprio dal cristianesimo, il decalogo è divenuto il codice morale di gran parte dell'umanità. Secondo il racconto dell'Esodo, XIX, arrivato il popolo alle falde del Sinai, Mosè salì alla vetta e vi udì da Dio le parole che dovevano consacrare per secoli Israele a una missione e posizione di privilegio: "Se voi ascoltate la mia voce e la mia alleanza, voi sarete mio popolo particolare fra tutti i popoli: perché tutta la terra è mia, ma voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa" Es., XIX, 5-6. Come primo patto di quella alleanza Dio pose i comandi che siamo soliti designare col nome di decalogo (Es., XX, 2-17). I primi sono naturalmente d'ordine religioso. Jahvè è il solo Dio d'Israele: non solo è proibito il culto d'altri dei, ma altresì ogni raffigurazione della divinità. Il testo a rigore sembra escludere anzi qualsiasi rappresentazione plastica a scopo di culto: ma il riconoscimento nella Legge stessa e nella tradizione religiosa ebraica delle figure dei Cherubini (v.) sull'Arca Santa e nel tempio di Salomone legittima l'interpretazione data, cioè che il divieto si restringa alle immagini della divinità. Seguono i comandi di non nominare il nome di Dio invano (cioè non solo inutilmente, ma, secondo il testo ebraico, a scopo malvagio, come per es., per azioni magiche, per giuramenti falsi, ecc.) e quello della santificazione del sabato. Il sesto comandamento (nella numerazione corrente) ha la forma: "non commettere adulterio"; e il nono-decimo: "Non desiderare la casa del tuo prossimo: non desiderare né la moglie sua né il servo né l'ancella né il bue nè l'asino né qualsiasi cosa di lui" (Es., XX, 2-17).
I comandamenti erano incisi su due tavole di pietra (Es., XXXI, 18). Avendole spezzate, mosso a sdegno dall'idolatria in cui il popolo era ricaduto nella sua breve assenza, Mosè ne portò sul Sinai altre due, sulle quali "Jahvè scrisse... le parole dell'alleanza, le dieci parole" (Es., XXXIV, 28). Le due tavole furono depositate e conservate nell'Arca e andarono perdute in epoca ignota.
Il decalogo è ripetuto con leggiere varianti nel Deuteronomio V, 6-18. Alcuni critici come l'Ewald, il Kuenen, il Wellhausen, seguendo un'idea per la prima volta esposta dal Goethe, hanno trovato un'altra forma di decalogo, profondamente diversa, nei precetti dell'Esodo, XXXIV, 10-26, sostenendo, almeno alcuni, che essa sarebbe anteriore all'altra divenuta corrente. Parecchi precetti sono comuni; ma il primo comando d'adorare Jahvè solo come unico Dio è largamente sviluppato col preannuncio delle cose meravigliose che Dio avrebbe compiute per il suo popolo nella conquista della terra promessa e col comando di abbattere gli altari e i cippi dei popoli pagani che la occupavano e di non contrarre con questi alcuna parentela. È ripetuto l'ordine di non fare "alcun dio di getto": ma seguono ad esso delle prescrizioni rituali, relative ai giorni degli azzimi, all'offerta dei primogeniti a Dio, non solo degli uomini ma anche degli animali. Nel comando del riposo del sabato è specificato che non si deve lavorare neanche nella stagione dell'aratura e della mietitura. È fatto obbligo di comparire tre volte all'anno alla presenza del Signore: e dopo altre prescrizioni rituali è formulato il precetto: "non cuocere il capretto nel latte di sua madre".
Quand'anche si riuscisse a distinguere la serie disordinata di queste prescrizioni nel numero di dieci (o dodici) precetti - cosa non facile - il suo contenuto appare come una ripetizione sviluppata a scopo parenetico dei precetti del primo decalogo, ampliata di altri costumi. È difficile ammettere che se si voleva riassumere in dieci motti un codice da incidere su tavole di pietra e destinato all'uso mnemonico, vi si trovasse posto per tante particolareggiate prescrizioni.
Anche nel decalogo dell'Esodo, XX e del Deuteronomio la divisione dei precetti in dieci, non indicati in testo non è facile e non è stata sempre concorde. Che i comandamenti fossero calcolati a dieci è testimoniato dalla Bibbia stessa. Essi sono "le parole dell'alleanza, le dieci parole" (Es., XXXIV, 28: cfr. Deut., IV, 13 e X, 4). La divisione attualmente in uso presso i cattolici risale a S. Agostino e fu resa universale dal Concilio di Trento. E seguita pure dai luterani. Essa unisce in un precetto unico il comando d'avere un Dio solo e di non farne alcuna scultura o immagine (v. 2 b), tenuti distinti dalla tradizione talmudica (Berakhoth I, n. 8, trad. Schwab, Parigi 1871, p. 18-19) e da Filone Alessandrino. Distingue invece il desiderio della donna del prossimo dal desiderio delle sue sostanze, seguendo il testo del Deuteronomio a preferenza di quello dell'Esodo. Nell'Esodo infatti si comincia col proibire di desiderare "la casa" del prossimo, come un tutto di cui si specificano poscia le parti: la donna, il servo e l'ancella, il bue e l'asino e in genere quanto gli appartiene. Nel Deuteronomio invece si mette a parte e si antepone il comando di "non desiderare la donna" del prossimo, e si colloca in secondo ordine quello di non agognarne la roba. Si noti per altro che nella versione greca dei LXX, che S. Agostino seguiva, il testo dell'Esodo è qui uniformato a quello del Deuteronomio.
Valore del racconto delle origini del decalogo. - La critica che ha sottomesso a esame le origini del Pentateuco, non poteva non valutare la narrazione biblica delle origini del decalogo. Alcuni critici sono arrivati alla conclusione che il decalogo non possa, neanche sostanzialmente, risalire ad una data tanto remota quanto l'epoca mosaica. Fa difficoltà il concetto nitidamente spirituale di Dio e il monoteismo affermato come religione assoluta: due concetti che nello svolgimento della storia ebraica quale fu in grandi linee disegnato dalla scuola del Graf, dello Stade, del Wellhausen si dovrebbero piuttosto attribuire alla predicazione profetica che non alle prime origini della nazione ebrea. La proibizione del culto di ogni scultura o immagine della divinità sembra in contrasto con varî dati dell'antica storia ebraica in cui sembrano in uso raffigurazioni divine, come i teraphim, il serpente di bronzo, forse anche l'ephod e specialmente il culto di Jahvè sotto la forma di toro nel regno delle dieci tribù. La forma stessa letteraria risentirebbe dei documenti ritenuti più recenti nella costituzione del Pentateuco. Il Marti, il Beer, ultimamente il Mowinckel e il Meinhold ritardano quindi la composizione del decalogo sino a verso il principio dell'esilio babilonese, mentre lo Stade, il Meissner, il Wellhausen ed il Duhm lo ritengono più genericamente un prodotto delle concezioni etico-religiose del profetismo del sec. VIII a. C.
Molti altri però affermano il valore della tradizione, e assegnano la breve raccolta di comandamenti all'epoca mosaica, come H. Schmidt, o il nucleo fondamentale di esso, a parte alcune motivazioni dei precetti, a Mosè in persona: come D. Castelli, O. Meier, il Gunkel, il Gressmann, il Jirku, il Gampert. Altri, non meno numerosi, ritengono il decalogo tutto intero di Mosè: così il Lemme e il Koenig e la maggioranza degli studiosi cattolici, come il Hummelauer, il Crampon, l'Eberharter.
Restringendoci per ora alle motivazioni dei precetti, richiama l'attenzione la divergenza fra le due recensioni dell'Esodo e del Deuteronomio. Mentre nel primo l'osservanza del sabato è inculcata pel motivo che "benedisse il Signore il giorno del sabato e lo santificò", il Deuteronomio, V, 15 accenna alla schiavitù d'Egitto ed alla prodigiosa liberazione da essa. È possibile quindi che alcune motivazioni si debbano ad amplificazioni successive parenetiche. Non può però in alcun caso, a meno nell'Esodo, considerarsi come elemento secondario la proibizione di fare sculture e immagini della divinità, perché mancando nel testo dell'Esodo la possibilità di distinguere in due i precetti di non desiderare la donna e i beni del prossimo uniti nel concetto unico di casa, quella proibizione è indispensabile per avere il numero di dieci comandamenti.
D'altra parte l'importanza dominante che ha Mosè nella tradizione ebraica, tanto del Pentateuco quanto del profetismo (traccia del decalogo è già in Osea, XII, 10 e XIII, 4) non permette di escludere, per un concetto evoluzionistico e senza forti ragioni, che a lui risalga la fondamentale concezione ebraica. Pur senza trattare delle origini del monoteismo ebraico, si può osservare che il carattere idolatrico dei teraphim e dell'ephod è troppo incerto per potervi far sopra assegnamento: e che il culto di Jahvè sotto forma taurina è considerato da tutta la Bibbia come una degenerazione della pura religione nazionale. Nel tempio di Salomone non c'è nessuna rappresentazione della divinità ed il monoteismo è già affermato nitidamente dal tempo dei Giudici nel canto indubitabilmente genuino di Debora. Manca anche ogni traccia d'una raffigurazione femminile paredra a Jahvè: ciò che è buona prova del carattere immateriale di questi, trascendente le comuni concezioni religiose.
Se si esamina d'altronde l'elenco degli autori delle diverse sentenze, si rileverà che sono per la negazione dell'origine mosaica del decalogo quegli studiosi che si sono andati specializzando nella critica letteraria delle fonti quale ha prevalso da mezzo secolo in Germania, mentre si mostrano favorevoli all'affermazione coloro i quali più particolarmente attendono allo studio diretto delle nuove fonti storiche, sempre in aumento, di monumenti e ricordi svariati dell'antico mondo orientale. Tali il Gunkel, e specialmente il Jeremias ed il Jirku, i quali hanno raccolto espressamente in grande copia i paralleli alla Bibbia di fonti e documenti dell'antico Oriente. Tali documenti, in notevole parte di recente scoperti, vanno tenuti presenti. Effettivamente la morale dell'antica Caldea come quella dell'antico Egitto, messi per ora in disparte i comandamenti che riguardano la religione, presentano una specificazione di precetti similari molto più particolareggiata di quella mosaica. Il Jirku ha cercato di raccogliere i principali dettami di questo antichissimo codice morale, rappresentato nobilmente, per citare due sole fonti, dal Libro dei morti per l'Egitto e dal Lamento del giusto sofferente per la Caldea. Egli mette in parallelo col decalogo anche quanto può mostrare un avvicinamento del mondo antico orientale all'idea monoteistica ebraica. Se i punti d'accordo sono di fatto insufficienti sotto questo rapporto, qualcosa si può aggiungere, ed è questo: che già nella Caldea, come ha mostrato il Dhorme (La religion assyro-babylonienne, Parigi 1910, p. 211 segg.) il codice morale comprendeva due grandi classi di precetti: i doveri verso la divinità, posti sempre in prima linea, e i doveri verso il prossimo. Il dovere di non nominare il nome di Dio invano, o meglio come traducono il Baentsch, il Hummelauer, il Weiss, per qualche scopo malvagio, era naturalmente d'ogni religione. Così è confermata l'altissima antichità del sabato, non esclusivo del mondo ebraico, ma già noto in terra babilonese: di modo che rimane caratteristica del decalogo solo l'affermazione assoluta dell'unità divina e la proibizione di ogni scultura.
Nuovi elementi monumentali presentano buoni paralleli anche per la forma esteriore del decalogo e per particolari biblici a suo riguardo. Se il Castelli, seguendo il Reuss (L'histoire sainte et la loi, II, p. 66) si preoccupava della superficie sproporzionatamente estesa che avrebbe occupato il decalogo, comprese le motivazioni dei precetti, nella scrittura cuneiforme, e del peso esagerato per il suo comodo trasporto nell'Arca, il Jeremias pone ora a raffronto le due tavole del destino poste al collo della divinità in alcune sculture babilonesi. Il Castelli era soprattutto lontano dall'immaginare che dopo pochi anni sarebbe stato trovato inciso su un unico blocco, occupato nella parte anteriore per grandissima parte dall'immagine della divinità che detta le leggi al re, un codice intero e minuzioso come quello di Hammurabi. Non solo il decalogo, ma anche il codice antichissimo detto dell'alleanza (Es., XXI-XXIII), poteva essere scritto su una pietra, come infatti hanno congetturato alcuni. D'altra parte, anche d'origine assira e hittita abbiamo ora codici o tracce di codici il cui raffronto col codice mosaico è interessantissimo per manifestarci la remota età di costumi e di disposizioni legali. I documenti hittiti di Boğazköy ultimamente scoperti hanno a loro volta fornito illustrazione sul dato biblico della conservazione nell'arca delle due tavole su cui era scritto il decalogo. In alcuni testi biblici l'arca è presentata come lo sgabello di Dio che si asside sui Cherubini. Ora in un documento trovato a Boğazköy abbiamo che il testo d'un trattato d'alleanza fra Ramses II e un principe hittita viene deposto nel paese di Khatti sotto i piedi del dio Tešub, come la sua contropartita in Egitto sotto i piedi del dio Sole. L'analogia delle tavole del decalogo ideato come un patto tra Jahvè e il suo popolo, poste nell'arca sotto i piedi della divinità invisibile, fu già percepita dal Jirku e dal Torczyner ed è infatti impressionante. Il P. Dhorme ha preannunciato che ne moltiplicherà gli esempî semitici (Rev. Biblique, 1926, p. 485, n. 2).
Scritto nei secoli XIV o XV a. C. come riassunto solennemente inciso nella pietra di idee religiose e morali e depositato sotto i piedi della divinità come supremo patto nazionale, quand'anche qualche particolare nelle motivazioni dei comandamenti si dovesse ad amplificazioni posteriori, il decalogo contiene concetti che emergono da quelli dell'ambiente contemporaneo.
L'unità di Dio in un mondo universalmente politeistico: l'esclusione d'una divinità femminile che potesse portare un dualismo nella divinità: il divieto d'ogni raffigurazione di Dio immateriale ed anche della pronunzia irriverente del suo nome: la severità del riposo sabbatico esteso ai servi e persino ai giumenti sono elementi che avranno nel lontano futuro un'influenza religiosa amplissima. Il campo dei precetti strettamente morali è più accessibile ed ovvio. Ma nella loro laconicità sono indice sicuro di elevate concezioni morali la proibizione espressa non solo dell'adulterio e del furto ma anche del desiderare con bramosia la donna e la roba del prossimo. Né va dimenticato il fatto che Dio vi è presentato come il legislatore e il giudice supremo della condotta dell'uomo.
Menzioni esplicite d'uno studio particolare del decalogo presso gli antichi Ebrei ci difettano: non solo le due tavole di pietra, che la tradizione biblica afferma sostituite da Mosè stesso alle prime, andarono perdute, ma andò perduta anche l'arca in cui erano conservate. I profeti ebraici, a cominciare dai primi, Amos e Osea, svilupparono largamente e con intenso sentimento religioso e morale quei concetti.
Il decalogo e il cristianesimo. - Gesù Cristo nel Vangelo intende dare, se non una legge nuova, un nuovo spirito e un'interpretazione più perfetta alla religione e alla morale ebraica. Neanche uno iota della legge mosaica cadrà, ma egli sostituisce all'aridità di precetti schematici lo slancio dell'amore e della generosità verso Dio e il prossimo, la vittoria sull'avidità delle ricchezze, dei piaceri e degli onori. È una via (halaka) che non è quella insegnata dalla tradizione rabbinica a fedele o sofistico commento della legge mosaica: ma cerca qualche cosa di superiore e interiore. Libero dai vincoli delle forme antiche, il nuovo spirito della religione e della morale che s'accentra nei due precetti dell'amore di Dio sopra tutte le cose e dell'amore del prossimo come noi stessi, prende aspetto esteriore di legge per la decisione delle affermazioni anche quando legge non è. Ne venne che il cristianesimo primitivo, e di tutti i tre primi secoli: non insisté ad insegnare il decalogo né ad esso si riferì, ma insegnò invece "la via del Signore". La Didachè è basata sul concetto delle due vie, e se ne possono trovare i primi accenni in S. Paolo stesso. Se si continua a leggere l'A. T., nelle comunità nuove esso non basta più: anzi la nuova sapienza, il nuovo spirito è dato dalla lettura del Vangelo. La novità delle concezioni morali di Gesù Cristo influì decisamente sull'idea di S. Paolo circa i rapporti della legge mosaica col nuovo sistema religioso. Lo gnosticismo a sua volta, sino alle idee nettissime di Marcione e di Mani, forzando le idee del Vangelo e di S. Paolo, non solo ripudiò la legge mosaica, ma tutto l'Antico Testamento considerò come opera di un demiurgo, se non addirittura d'uno spirito malvagio.
Il decalogo viene rimesso in valore come formulario dei doveri umani da S. Agostino, e non è improbabile che tale rivalutazione sia da lui intenzionalmente diretta contro le tesi manichee. Nel Medioevo, a partire dal sec. IX, i dieci comandamenti (v.) prendono posto in diversi luoghi nel programma di catechismo destinato all'istruzione dei fanciulli o a quello dei fedeli. Un decalogo in lingua anglosassone viene premesso alle Leges del re Alfredo il Grande che salì sul trono nell'anno 871; e si conosce anche un'altra antichissima versione sassone.
Troviamo ancora nel Medioevo lo studio dottrinale del decalogo. È specialmente esaminato il rapporto del decalogo con la legge morale naturale. S. Tommaso d'Aquino insegna che tutti i precetti appartengono alla legge di natura, tranne il terzo, che ha un fondamento di natura in quanto prescrive un tempo per onorare Dio, ma è di diritto positivo nella sua determinazione. Secondo Duns Scoto invece i comandamenti della seconda tavola non appartengono alla legge naturale. Egli ne adduce in prova le dispense datene talvolta da Dio nell'Antico Testamento: essi hanno soltanto una grandissima conformità coi suoi principî invariabili, derivando però la loro obbligazione dal comando positivo divino. I teologi posteriori al sec. XIV tennero quasi unanimemente il pensiero e il linguaggio di S. Tommaso.
La questione fu ripresa al sorgere del protestantesimo. Fu rimessa in discussione la legittimità del culto delle immagini sacre, attenendosi i Riformati a un'interpretazione rigorosa del decalogo. I Sociniani sostennero invece che il decalogo era stato sostituito e abolito dal Vangelo. Protestanti più recenti, come J. D. Michaelis e altri, sostennero che il decalogo deve considerarsi come una legge ebraica civile e non morale.
La Chiesa cattolica condannò nel concilio di Trento (Sess. IV, can. XIX) quelli che negano che i comandamenti siano obbligatorî per i cristiani. Nel suo insegnamento catechistico però abbreviò la forma del decalogo mosaico: omise il divieto di fare immagini o sculture della divinità per reazione alle teorie iconoclastiche e alle accuse dei Riformatori del sec. XVI, dichiarando essere ormai talmente limpida nel cristianesimo l'idea della spiritualità divina da non potersi nemmeno prendere in considerazione il pericolo d'idolatria che era la ragione del divieto. Furono pure omesse nell'insegnamento le motivazioni aggiunte ad alcuni comandamenti e la specificazione della "roba" del prossimo, fra cui erano inclusi "servi e serve". Modificò dal tempo apostolico il giorno festivo dal sabato alla domenica: ampliò la proibizione dell'adulterio nella proibizione della "fornicazione", ed ultimamente in quella di non commettere "atti impuri" per includervi gli atti disonesti individuali. Nell'interpretazione dei comandamenti insegna che occorre tener calcolo non solo di ciò che ciascuno di essi proibisce, ma di quello altresì che implicitamente impone: e accanto alla formula dei dieci comandamenti ha collocato l'altra formula evangelica dei "due precetti della carità", dell'amor di Dio e del prossimo, come riassuntivi di tutta la legge. La morale cioè non è tutta compresa nel decalogo, ma esso stesso è illuminato dalla luce del Vangelo, come nei primi tempi del cristianesimo. Un confronto quindi, rinnovato spesso, della morale cattolica con la morale delle altre religioni o di scuole filosofiche non può prendere a base di tutto il pensiero cristiano il decalogo. Il decalogo può invece, collocato nel suo ambiente storico, esser posto a confronto con le idee e con le leggi che si possono largamente considerare contemporanee. Il cattolicesimo, pur rigettando ogni forma gnostica e dualistica che ripudiasse l'A. T., sostenne e sostiene che Gesù "perfezionò" le sue leggi morali. È questa del resto l'idea del Vangelo e di S. Paolo e il fondamento delle modificazioni introdotte nel testo originario del decalogo.
Bibl.: L. Lemme, Die religionsgeschichtliche Bedeutung des Dekalogs, Breslavia 1880; B. Baentsch, Das Bundesbuch, Halle 1892; M. Meinhold, Der Dekalog, Giessen 1927; L. Mowinckel, Le Décalogue, Parigi 1927; A. Eberharter, Der Dekalog, Münster 1929; sul papiro Nash, v. Rev. Biblique, aprile 1904, pp. 242-250 e N. Peters, Die älteste Abschrift der zehn Gebote, der Papirus Nash, untersucht, Friburgo in B. 1905. Si possono altresì consultare i commenti all'Esodo e al Deuteronomio e gli studî di teologia dell'A. T. Per i documenti paralleli d'altri popoli orientali si consultino A. Jeremias, Das Alte Testament im Lichte des alten Orients, 3ª ed., Lipsia 1916 e A. Jirku, Altorientalischer Kommentar zum Alten Testament, Lipsia 1923 che citano anche studî speciali su di essi. Sul decalogo nel cristianesimo cfr. C. Achelis, Der Dekalog als katechetisches Lehrbuch, Giessen 1905; P. Göbl, Geschichte der Katechese im Abendlande vom Verfalle des Katechumenas bis zum Ende des Mittelalters, Kempten 1880. Sulle idee patristiche e della scolastica medievale e successiva cfr. lo studio di E. Dublanchy, in Dictionnaire de Théologie catholique, IV (1924), coll. 164-176.