DE ROSA (Rosa), Carlo Antonio
Figlio di Marc'Antonio, nacque nel 1638 a Napoli, da una famiglia originaria di Cava de' Tirreni, che diede al Regno di Napoli, tra i secoli XVII e XVIII, una schiera di avvocati, magistrati, giuristi. Studiò nel collegio gesuitico di Napoli e, conseguito il dottorato, intraprese l'avvocatura. La sua cooptazione in magistratura avvenne nel 1663 con la nomina ad uditore di Capitanata e per quasi un decennio egli esercitò la sua carica in diverse province del Regno: in Abruzzo Citra nel 1665, ancora in Capitanata nel 1668 e in Principato Ultra nel 1670.
Nel 1674 fu richiamato a Napoli come giudice in criminalibus nella Gran Corte della Vicaria. Fu quindi rinviato in provincia come decano dell'udienza di Lecce e solo verso il 1680 poté ritornare nella capitale come avvocato fiscale nel tribunale della revisione. Una carica abbastanza modesta, questa, che il D. esercitò poco: nel 1682 divenne avvocato fiscale della Vicaria, il massimo organo di giurisdizione criminale.
La sua fu dunque una carriera abbastanza faticosa, cui non dovette essere estraneo, almeno agli inizi, un cugino più anziano, Giuseppe De Rosa, magistrato nel Sacro Regio Consiglio, docente di diritto feudale, nonché appassionato cultore di matematica e di astronomia. I due cugini erano molto legati, anche perché avevano sposato due sorelle, Margherita e Caterina de Fusco, nobili di Ravello.Giuseppe, morto senza figli nel 1671, istituì il D. suo erede universale: un gesto che assunse il significato di un'investitura a perpetuare e ad accrescere le recenti fortune della famiglia. E tale mandato il D. assolse ben volentieri. Pubblicò a sue spese alcuni inediti del cugino, che anzi nella praefatio alla sua opera maggiore (Decretorum M. C. praxis criminalis cum pluribus decisionibus per regia tribunalia prolatis, Neapoli 1680) ricordò come fratello "germanus". Ed aggiunse che le sue riflessioni in materia penale rappresentavano il completamento dell'opera di Giuseppe De Rosa: come questi aveva trattato dei premi da conferirsi ai meritevoli, egli si occupava dei castighi da infliggersi ai colpevoli, "cum utraque ad Reipublicae bonum pertineant".
L'opera ebbe grande risonanza e successo. Non altrettanta fortuna ebbe la Civilis decretorum praxis plurimis ac recentissimis S. C. decisionibus illustrata, pubblicata a Napoli nel 1678, per la prima volta e, ancora nel 1707 a Napoli, (Giustiniani, durante il viceregno di Giov. Ema nuele Pacheco, al quale fu dedicata. Invero gli interessi del D. erano prevalentemente rivolti al diritto penale, dove profuse talento ed energie. Nel 1707 sempre a Napoli, pubblicava le Resolutiones criminales, inserite dagli editori successivi come appendice alla ben più consistente Decretorum M. C. praxis. Dedicate all'avvocato fiscale Luigi Petronio, esse raccoglievano ed esplicavano quarantuno sentenze rese dalla Vicaria tra il 1675 ed il 1695.
Rilevante è in queste opere il contributo del D. alla rifondazione del diritto penale. Invero, non appaiono convincenti i giudizi di chi ha visto nella Decretorum praxis l'espressione di una "sapienza prammatica e pratica" (Solari) o, peggio, gli epigoni di una giurisprudenza stantia, non toccata dalla "riforma cuiaciana" promossa da Francesco D'Andrea (Trifone). A parte il fatto che è del tutto improprio attribuire al D'Andrea l'introduzione nel Regno del mos gallicus, è da respingersi l'idea che il D. fosse un piatto e pedissequo seguace della tradizione. Al contrario, il suo contributo in materia penale si pone come uno spartiacque tra vecchia e nuova giurisprudenza. Egli registra e fa propria la crisi di credibilità che aveva investito l'antico sistema probatorio fondato sulla tortura giudiziale, lanciando un ponte verso il principio del libero convincimento del giudice. Nel Regno di Napoli, com'è noto, una prammatica (la XIIde officio iudicum del 1621) consentiva ai tribunali collegiati di poter irrogare, sia pure per particolari delitti, la pena "ordinaria" anche in base a semplici indizi, senza cioè la probatio plena rappresentata dalla prova legale. Contro questa norma, profondamente innovativa, s'erano schierati giuristi e grandi tribunali, costringendo l'autorità vicereale a sancime una parziale abrogazione. Era opinione consolidata che la prammatica non garantisse a sufficienza i diritti degli imputati. In realtà questa difesa della prova legale nascondeva interessi assai meno apprezzabili: destreggiandosi nel vecchio armamentario il giudice poteva egualmente esercitare il suo ufficio in maniera arbitraria, ma in una situazione di totale irresponsabilità. In pratica la prova legale tutelava il giudice, lo metteva al riparo da ogni contestazione.
Èda questo formalismo che il D. prende le distanze. Negata l'attendibilità della tortura come mezzo per il conseguimento della verità, egli sosteneva che il convincimento del giudice dovesse fondarsi sull'esperienza e sull'utilità sociale della decisione. In tal modo travolgeva ogni distinzione tra indizi e prove: la certitudo moralis del giudice era sufficiente per comminare la pena stabilita dalla legge. Non era ancora l'affermazione del principio del libero convincimento, ma se ne ponevano le premesse che, un secolo più tardi, sarebbero state sviluppate dal pensiero illuministico.
La "toga perpetua" nel Sacro Regio Consiglio il D. la conseguì nel 1684, divenendone una delle personalità di maggior spicco. "Prefetto di ruota" e poi decano, nel 1698 ritornò nella Vicaria come presidente della sezione criminale. A coronamento, Carlo II di Spagna gli conferì il titolo di marchese di Villarosa.
In questo periodo il magistrato, ormai autorevole ed influente, confermò la sua formazione scientifica e letteraria dando appoggio al giovani d'ingegno: Giambattista Vico, nell'autobiografia, narra che, allorquando "volle applicarsi a' i tribunali", fu dal D., "Senatore di somma probità e protettor di sua casa", indirizzato allo studio di un anziano e stimato avvocato, Fabrizio Del Vecchio. La testimonianza del Vico sul comportamento del magistrato non fu dovuta soltanto a motivi di gratitudine. Altri concordano nell'attribuirgli "sapienza, un'alta prudenza ed una inarrivabile probità" (Giustiniani). Non tutti concordavano con questi giudizi. In una immaginaria galleria di personaggi celebri, l'anonimo autore di una satira raffigurava il D. come "Pavidità misera a cavallo, viandante per valli e boschi" (Coniglio).
Nel 1703 fu chiamato a difendere, davanti ad un'apposita giunta di Stato, alcuni dei congiurati che avevano partecipato alla rivolta del principe di Macchia. Pur trattandosi della difesa d'ufficio in un processo politico, il D. non si risparmiò per i suoi assistiti. Per loro scrisse e pubblicò ben ventisette Difese a prò de carcerati dalla Giunta di Stato (Napoli 1708), che lo mostrano un patrocinatore agguerrito, pronto a cogliere tutte le opportunità giuridiche e procedurali. Ed i risultati non mancarono: furono eseguite solo due condanne capitali e per molti vi fu l'assoluzione.
Senza voler sminuire i meriti del difensore, bisogna tuttavia riconoscere che l'indulgenza dei giudici dipendeva soprattutto dall'andamento della guerra, sfavorevole al partito angioino. Infatti, come riferisce lo stesso D., all'approssimarsi delle truppe austriache ai confini del Regno, la giunta pose fine ai processi "onde furon parecchi liberati dalla prigione" (ibid., p. 176).
II mutamento dinastico non influì sulla carriera del D., al quale furono anzi affidate le medesime incombenze che aveva assolto con gli Spagnoli. Così quando, nel 1707, fu insediata un'altra giunta per giudicare i partigiani del duca d'Angiò, il viceré Martinitz volle che ancora al D. fosse affidata la difesa degli imputati. Anche in questa circostanza l'attività del tribunale fu blanda. L'unico suo provvedimento di rilievo fu un decreto che bandiva i francesi dal Regno. Insomma il D. non ebbe, questa volta, alcuna occasione per esplicitare i suoi talenti forensi.
Nella nuova situazione costituzionale e dinastica, egli rappresentava la continuità con il passato e fu uno strumento della normalizzazione voluta dagli Asburgo. Anche per la sua poco incisiva personalità politica, non ebbe parte nei conflitti per la nomina delle alte cafiche dello Stato. Svolse anzi una funzione mediatrice reggendo ad interim, fino al luglio del 1708, la presidenza del Sacro Consiglio. Per questa duttilità, nel 1709 ascese ai vertici del ministero togato, con la carica di reggente del Consiglio collaterale.
Morì nella sua casa di Napoli, già appartenuta all'umanista Iacopo Sannazzaro, il 2 febbr. 1712. Fu sepolto in S. Maria delle Grazie a Caponapoli, nella cappella gentilizia fatta costruire da Giuseppe De Rosa.
Non si spensero però le fortune della famiglia, come dimostrano le vicende di alcuni dei figli nati dal matrimonio con Caterina de Fusco: il primogenito Prospero ebbe la carica di corriere maggiore del Regno, Domenico e Gaetano furono entrambi consiglieri, Giuseppe esercitò l'ufficio di avvocato fiscale nel tribunale ecclesiastico di Napoli. Ed altri magistrati vennero nella generazione successiva. Nel 1786 Nicola De Rosa, vescovo e presidente del tribunale misto, ricordava in una solenne iscrizione lapidea come attraverso questi avi fosse stata "quaesita domui Senatoria dignitas".
Di fatto il D. sintetizzò nella sua persona pregi, difetti, propensioni d'ogni "ministro supremo" del suo tempo. Accorto amministratore del patrimonio familiare, lo incrementò con i feudi di Guano e di Castro di Valve; usò del suo potere per creare una sorta di dinastia "senatoria". E tuttavia fu compitamente "ministro", ossia rappresentante ed agente dello Stato assoluto, depositario di un'ideologia e di una scientia non contaminata dalle vicissitudini politiche. In tale veste poté servire con pari lealtà Carlo. II, il duca d'Angiò, l'imperatore d'Austria. Seppe, con disinvoltura, condannare e difendere gli "inconfidenti" dell'uno e dell'altro "partito". Come tanti altri popolari ascesi ai vertici del potere, avvertì il fascino della nobiltà di sangue, quella antica e "generosa". Nelle prime opere, non potendosi definire altrimenti, si diceva patrizio di Cava. In seguito, per una pretesa discendenza da una nobile famiglia abruzzese, si fece reintegrare nel patriziato dell'Aquila. E sui frontespizi tale discutibile nobiltà soppiantò quella di Cava. Poi, ottenuto il titolo marchionale, il D. preferì definirsi "ex dominis Arcis Rosae", gratificato dal favore sovrano "ob sua et Praedecessorum servitia".
Erano questi, più che altro, i segni del successo come magistrato e come giurista. Una fortuna non labile: della sua significativa presenza nel mondo del diritto testimoniano le otto edizioni infolio dell'opera maggiore.
Fonti e Bibl.: I decreti per l'assunzione delle cariche pubbliche sono in Arch. di Stato di Napoli, Officiorum Viceregum, vol. 40, f. 35, 18 marzo 1663; vol. 42, f. 42, 30 maggio 1665; vol. 43, f. 24v, 20 nov. 1668; vol. 43, f. 107v, 29 nov. 1670; vol. 45, f. 126, 30 dic. 1674; Arch. general de Simancas. Secreterias provinciales, lib. 257, f. 74v, 13 luglio 1682; lib.256, f. 20v, 7 febbr. 1684. Per la biografia, quale si è ricostruita nel testo, cfr. D. Confuorto, Giornali di Napoli dal MDCLXXIV al MDIC, a cura di N. Nicolini, II, Napoli 1931, p. 149; F. D'Andrea, Avvertimenti ai nipoti, in N. Cortese, Iricordi di un avvocato napoletano del Seicento, Napoli 1923, p. 186 e n. 4; B. Aldimari, Delle famiglie nobili così spente come vive del Regno di Napoli e d'alcune altre forastiere, Napoli 1691, pp. 441-44; G. B. Vico, Vita... scritta da se medesimo, in A. Calogerà, Raccolta d'opuscoli scientifici e filologici, I, Venezia 1728, p. 157; G. G. Origlia, Istoria dello Studio di Napoli, II, Napoli 1757, p. 176; L. Giustiniani, Memorie istoriche degli scrittori legali del Regno di Napoli, III, Napoli 1788, pp. 122 ss.; F. Palermo, Sulle dottrine la vita e i tempi di C.A.D. marchese di Villarosa, in Museo di scienza e letteratura, n. s., I (1843), pp. 148-69; C. Padiglione, Memorie storiche artistiche del tempio di S. Maria delle Grazie Maggiore a Capo Napoli, Napoli 1855, pp. 253-56; R. Trifone, Le giunte di Stato a Napoli nel secolo XVII, Napoli 1909, pp. 26, 36 s., 42 ss., 52 s.; F. Nicolini, Uomini di spada di chiesa e di toga ai tempi di Giambattista Vico, Milano 1942, pp. 228 s., 250; A. Casella, Costituzione e ordine politico a Napoli all'arrivo degli Austriaci, in IlTrentino nel Settecento fra Sacro Romano Impero e antichi Stati italiani, in Annali dell'Istituto storico italo-germanico, quad. XVII, Bologna 1985, pp. 305, 309; G. Coniglio, Una satira contro il viceré Medinaceli, in Atti dell'Acc. Pontaniana n. s., XXIV (1986), p. 31. Sui fermenti culturali che emergevano nel ceto dirigente, cfr. R. Aiello, Gli "afrancesados" a Napoli nella prima metà del Settecento. Idee e progetti di sviluppo, in IBorbone di Napoli e i Borbone di Spagna, I, Napoli1984, pp. 115-192. Per l'opera giuridica del D. cfr.: R. Trifone, Uno sguardo agli scritti dei giuristi napoletani del Seicento, in Atti dell'Acc. di scienze morali e polit. della Soc. naz. di scienze, lettere ed arti in Napoli, LXX (1959), p. 22; G. Solari, Studi su Francesco Mario Pagano, a cura di L. Firpo, Torino 1963, p. 40; P. L. Rovito, Prova legale ed indizi nella criminalistica napoletana del Seicento, in Storia e diritto, I (1986), pp. 157-187 passim.