Culinaria. I campioni del gusto
La classifica 2012 dei migliori cinquanta ristoranti del mondo conferma la rivoluzione degli ultimi dieci anni nel campo dell'alta cucina: scendono Francia e Italia, salgono Spagna e Danimarca. E sulla scena si affaccia l'Asia.
Gli sport possono essere divisi tra quelli decisi da un cronometro e quelli dove il giudizio è lasciato a una giuria. Il pianeta gola apparterrebbe al secondo gruppo.
Con la Guida Michelin a dettare legge con le sue stelle, nessuno fino a inizio terzo millennio si era chiesto quale fosse il miglior ristorante al mondo.
È successo nel 2002 a Londra, alla rivista Restaurant, che lanciò una ‘graduatoria’, The World’s 50 Best Restaurants. Si vota il locale e non lo chef (e questo spiega perché qualche supernova, come l’americano Thomas Keller e l’inglese Heston Blumenthal, sono presenti con due insegne).
E non ci sono modelli: si può votare una ravintola finlandese come un sushibar giapponese o la grand maison parigina. Dieci anni, undici edizioni e quattro chef ad alternarsi sul trono. Mai un francese primo e mai un italiano sul podio, sfiorato dal modenese Massimo Bottura nel 2011, quarto. Ferran Adrià, catalano, primo nel 2002 con El Bulli a Roses in Spagna, chiuso nel 2011; Thomas Keller, primo nel 2003 e 2004; Heston Blumenthal, sugli scudi nel 2005 con il Fat Duck a ovest di Londra; quindi di nuovo Adrià in gloria dal 2006 al 2009, infine i tre successi di René Redzepi, danese di radici macedoni, patron del Noma di Copenaghen, già alla corte di Ferran. I suoi licheni hanno superato le destrutturazioni del catalano, l’allievo che batte il maestro.
La storia dell’alta cucina ha visto la Francia dominare per oltre un secolo. Piaccia o non piaccia a noi italiani (in genere piace poco), i cugini non solo sono partiti prima grazie alla Rivoluzione (1789), per via dei cuochi della nobiltà che si ritrovarono senza lavoro e si inventarono ristoratori, ma hanno saputo costruire un impero della qualità. La prima classificazione dei loro vini è del 1855, il concorso per il miglior giovane artigiano èdi un secolo fa e tutto è pensato in funzione dell’industria turistica e alimentare, con una disciplina e un marketing ferrei. Un francese non criticherà mai gratuitamente un suo chef o un suo prodotto, a meno che la polemica non aiuti a pubblicizzare qualcosa di nuovo.
Accadde con la nouvelle cuisine, il cui manifesto data ottobre 1973, che svecchiò la classicità dell’alta cucina francese, liberandola di troppe salse e cotture divenute criminalmente lunghe, imponendo anche le monoporzioni. Grandissima operazione: la Francia si ringiovanì alla velocità della luce. Tutti salirono sul carro, compreso Paul Bocuse, classe 1926, che non fu tra i firmatari del decalogo ma al quale a lungo fece piacere che tanti lo pensassero. Quando la nouvelle cuisine iniziò a stufare, perché sempre più vuota, la definì un modo perfetto per diminuire i pesi e aumentare i prezzi.
In un certo senso era vero, ma era anche vero che il corpo umano aveva sempre meno bisogno di mangiare quanto l’Obelix dei fumetti. E anche se tuttora in Italia c’è chi, per denigrare un cuoco, afferma che ‘quello lì fa nouvelle cuisine’, la stessa è da lustri affidata ai libri. Noi italiani la scoprimmo grazie a Gualtiero Marchesi che i francesi adottarono subito. Il nostro problema non erano certo cotture e condimenti, bensì disciplina, servizio e presentazioni. Il mito della cofana di pasta non tramonta mai e il sorriso di chi serve sovente vale più di dieci cuochi in cucina.
La Francia sarebbe entrata in crisi a partire dalla prima metà degli anni Novanta perché il mondo si è allargato, prima grazie a un turismo sempre più giramondo e low cost e poi per uno scambio sempre più rapido di informazioni grazie a Internet. Nessuno crede più alle favole come quella di una nazione sola depositaria della verità. Nello sport è accaduto lo stesso: una volta permesso a tutti i popoli di praticare ‘tutti’ gli sport si scoprì che non esistevano gli ‘eletti’.
Gli spagnoli, Adrià in primis ma certo non solo lui, una volta apprese tecniche e disciplina in Francia ne hanno rifiutato prodotti, esecuzioni e forme.
Una cucina irriverente, senza dogmi, pronta ad attingere tecniche e ingredienti dall’industria, da qui l’effimera etichetta di cucina molecolare; un mondo facile al sorriso e alla voglia di confrontarsi, pronto al dialogo; la comunicazione che viaggia in orizzontale quando i francesi fanno cadere gli ordini dall’alto; la voglia continua di trasformare un pasto in uno show teatrale; ci si nutre a casa o alla mensa, nei nuovi localissimi si fa un’esperienza. E, dietro, l’industria alimentare a proporre il suo meglio: olio, frutta, vino, scatolette …
Gli spagnoli hanno avuto il grande merito di avere rivelato al mondo che il re era nudo, che non era più necessario fare il verso ai francesi, liberando così energie ovunque. Redzepi ha accentuato tutto questo, studiando la natura dei paesi nordici e arrivando a far capire che un lichene è buonoquanto il soncino. E con lui ecco il brasiliano Alex Atala farsi ambasciatore dei prodotti dell’Amazzonia, il peruviano Gastón Acurio stupire con i profumi andini e tutti, ovunque, a cercare le proprie radici per cucinare materie e sentimenti personali. Noi italiani ci nutriamo di fantasia, siamo spugne formidabili nell’assimilare qualsiasi lezione, difettiamo in disciplina e regole. La nostra cucina è la più popolare al mondo, pasta e pizza stregano, ma ancora siamo lontani dall’avere un sistema che regoli le nostre eccellenze.
Subiamo le rivoluzioni, e dopo quella del crudo giapponese tutti a chiedersi quando la Cina inizierà a dettare legge in cantina e in cucina, uscendo dal ghetto delle cucine etniche.
Mangia ciò che uccidi
Sia che si tratti di un principio etico o di un fenomeno di tendenza, la novità dell’eat what you kill (‘mangia ciò che uccidi’) apre la strada a due possibili alternative: imbracciare il fucile o macellare gli animali che abbiamo allevato, non come hobby ma come regola di vita. Per chi adotta questa pratica, ‘uccidere l’animale che mangi’ è un modo per riannodare un rapporto ‘etico’ tra uomo e natura, il cui legame è stato reciso dalla crescente industrializzazione della filiera alimentare tradizionale, che si rivela sempre più crudele e inquinante. «È un modo per ricollegarsi al proprio sé primitivo» dice Georgia Pellegrini, autrice di Girl Hunter. Revolutionizing the way we eat. Aspetto peculiare di quello che si può così definire ‘cibo etico’ è il rispetto per l’animale ucciso, motivo tipico di molte culture tribali. Così Lily Raff McCaulou, nel suo Call of the mild, confessa di inginocchiarsi di fronte a un cervo ucciso ed esclama «Grazie, mi dispiace». Un fenomeno di nicchia, una moda snob? Certo è che gode di una crescente diffusione, tanto che ormai è diventato uno stile di vita nella Silicon Valley e in ambienti intellettuali made in USA. Mark Zuckerberg, ad di Facebook, ha adottato i principi del cibo etico per un anno come sfida personale.
Il Mad Food Symposium
Nel mondo greco e romano il ‘simposio’ era un banchetto, o meglio la seconda parte del banchetto, in cui i commensali cantavano, recitavano, e soprattutto discutevano, un po’ come avviene nell’omonimo dialogo di Platone. Il Mad Food Symposium, nato nel 2011 su iniziativa di René Redzepi e ospitato nella ‘sua’ Copenaghen, sembra voler recuperare questo spirito se non altro nel suo approccio al cibo, latamente ‘filosofico’, che mira a promuovere una riflessione ampia, di carattere interdisciplinare, su tutto ciò che ruota intorno all’alimentazione. Il cuoco, secondo Redzepi, ha oggi il compito di informare e far capire al pubblico ciò che è buono e perché lo è, allargando i propri orizzonti culturali e le proprie competenze, se non altro teoriche, per occuparsi di temi quali la storia culinaria, il rapporto tra cibo e offerta alimentare, la sostenibilità e il significato sociale di ciò che mangiamo. La prima edizione del ‘simposio’ aveva visto numerosi ospiti cimentarsi attorno al tema della ‘vegetazione’, con diversi interventi di taglio ecologico. La due giorni del 2012 (dal 1° al 2 luglio), spostando l’attenzione dal mondo delle piante a quello delle persone, ha esplorato invece il tema dell’‘appetito’, inteso come punto di incontro tra la sfera dei nostri bisogni e ciò che offre il mondo esterno.
■ Sono stati sperimentati i limiti del commestibile, assaggiando formiche vive, nutrite con foglie di citronella e coriandolo per migliorarne il sapore, e saggiando così le ultime indicazioni alimentari dell’ONU che suggeriscono di puntare sugli insetti per sostituire la carne senza perdere in proteine.
■ Lo chef italiano Massimo Bottura ha trattato del rapporto tra cultura, tradizione e innovazione.
■ Ferran Adrià ha disquisito sull’appetito e sulla creatività.
Così, tra dibattiti e assaggi, sta prendendo forma un grande laboratorio di idee, che promette di guardare al futuro della gastronomia.
Eataly sbarca a Roma
Onestà e furbizia, queste le doti che Oscar Farinetti si riconosce. Piemontese di Langa, classe 1954, venderà UniEuro nel 2003 per dedicarsi al progetto Eataly. Paradiso della qualità agroalimentare, Eataly è il concetto del Salone del gusto, organizzato ogni anno da Slow Food a Torino, esteso a tutti i giorni dell’anno e in ogni angolo del pianeta. La prima apertura nel gennaio 2007 a Torino, l’ultima a Roma nel giugno 2012 nell’ex Air Terminal dell’Alitalia alla stazione Ostiense, abbandonato dal 1990 e ora vetrina dell’eccellenza tricolore in campo cibi&vini. Farinetti ha dedicato la struttura alla bellezza e nel ristorante top, chiamato Italia, 20 piatti in carta perché 20 sono le regioni, si pranza e si cena ammirando alcune opere di Modigliani (autentiche, non copie). Tiepido fautore del chilometro 0, Farinetti, nemico giurato della burocrazia, è per il continuo scambio di idee e prodotti tra i popoli. Ma a una condizione: che siano eccellenti e, possibilmente, bio.
Lo spazio espositivo
L’ultimo store aperto in Italia da Farinetti è anche il più grande. Realizzato in una struttura (l’Air Terminal) creata per i Mondiali di calcio del 1990 (su progetto di Julio Lafluente) e caratterizzata da grandi vetrate, Eataly Roma sfrutta la luminosità dello spazio architettonico e la sua posizione strategica (il collegamento alla rete ferroviaria e metropolitana). Coerentemente con la filosofia del fondatore («salvare l’Italia con la bellezza») il recupero dello spazio è stato curato nei minimi dettagli da Carlo Piglione (fedele collaboratore di Oscar Farinetti), con illuminazioni intonate agli spazi tra citazioni della belle époque e alberi che arredano le sale espositive. Ogni reparto di vendita è preceduto da ‘aree didattiche ed emozionali’, concepite per raccontare i prodotti e fornire ai clienti gli strumenti culturali per gustare i cibi con le mente oltre che con il palato. Infine, l’apertura del nuovo store rafforza l’alleanza con NTV, la società ferroviaria privata che si è affidata a Eataly per la ristorazione sui propri treni. A questo proposito va ricordato che è stato proprio Luca Cordero di Montezemolo, presidente della nuova società ferroviaria, a promuovere nel 1990, in veste di direttore del Comitato organizzatore dei Mondiali di calcio, la costruzione dell’Air Terminal, per collegare Roma con lo scalo di Fiumicino.