Letteraria, critica e storiografia
Sulla svolta del secondo millennio si è fatta insistente la denuncia di una crisi della critica a dispetto di quei sentimenti d'attesa, propri delle grandi scansioni epocali, che sollecitano piuttosto annunci di rinnovamento. Il 20° sec., peraltro, si era caratterizzato per un incessante incremento dell'attività teorica e pratica che ha coinvolto vari campi del sapere letterario: estetica, erudizione, filologia, storiografia, saggistica accademica e militante. L'idealismo - soprattutto la sistemazione crociana dei problemi dell'arte -, una fervida pubblicistica che ha accompagnato e perfino orientato poetiche di gruppo ed esperienze artistiche individuali, la rinascita dello storicismo desanctisiano in veste gramsciana, la stilistica e la socio-stilistica, infine l'avvento dello strutturalismo, con la convergenza nel suo quadro epistemologico di vari ambiti di ricerca, dalla linguistica all'analisi formale, dalla semiologia alla psicocritica alla culturologia, hanno impresso fino al termine degli anni Settanta un ritmo eccezionalmente accelerato di aggiornamento e ricambio di metodi, e insieme hanno messo a confronto modelli ben definiti di scuola. Fattori esterni e interni hanno poi disarticolato i parametri di riferimento teorico e metodologico. Il principio dell'arte come rispecchiamento della realtà sociale e politica, che sta a fondamento dello storicismo d'orientamento marxista, si è incrinato con il dissolversi progressivo delle certezze ideologiche dall'età del revisionismo post-staliniano fino agli 'anni di piombo', ovvero alla turbolenta stagione del terrorismo.
L'ideologia orientava gli schemi prospettici e i giudizi valutativi dello storicismo, si rifletteva nelle caratterizzazioni più correnti (concetto di culture egemoniche, di intellettuale organico, superiorità dell'arte realista) e garantiva una visione totalizzante della letteratura. Di contro, lo strutturalismo affermava il primato della lingua sulla storia, della sincronia sulla diacronia e ostentava una strumentazione scientifica nello studio dell'opera letteraria affrancata da interferenze extratestuali. Sotto l'ombrello della linguistica la critica letteraria sembrava aver compiuto la sua rivoluzione scientifica segnando il passaggio dal mondo dell'approssimazione all'universo della precisione. Rivoluzione impossibile, anche a voler restringere gli ambiti esorbitanti della letteratura, la sua eteronomia, a quelli della 'letterarietà', di una circoscrivibile specificità. Il radicalismo dei formalisti russi era stato funzionale agli sviluppi dell'arte di fine Ottocento e primo Novecento, in particolare del simbolismo e del futurismo, e in realtà la sua costituzione in 'scuola', come un laboratorio per lo studio del testo nella sua autonomia perfino dall'autore, non cancellava la sua caratterizzazione originaria come poetica solidale con i procedimenti delle avanguardie storiche.
L'aggancio al magistero di F. de Saussure, ai principi della linguistica generale divulgati dagli allievi ginevrini, consentirà più tardi ai fondatori dello strutturalismo letterario, in primis a R. Jakobson, passato dalla scuola di Mosca alla scuola di Praga, di sottolineare la preminenza delle forme sui contenuti, del 'significante' sul 'significato', e di regolare l'esercizio critico con norme di evidenza grammaticale. L'estensione del rapporto langue/parole, ovvero comunicazione/espressione, all'esegesi letteraria, la classificazione dei 'fattori' e delle 'funzioni' della lingua poetica e poi il loro uso per una metodologia che manifesti l'interrelazione degli elementi che reggono un insieme verbale, appunto la struttura del testo, hanno tutti insieme configurato un pattern di stabilità teorica che metteva al sicuro dall'arbitrarietà della prassi critica corrente. E perciò il fervore che animò le ricerche di teoria letteraria, dapprima negli Stati Uniti con il New criticism, poi con la Nouvelle critique in Francia, fu per qualche decennio incontenibile.
In Francia soprattutto lo strutturalismo letterario si manifestò con i caratteri di una generale gnoseologia, come un'enciclopedia del sapere orientata in senso antiumanistico, che mise a suo fondamento il 'sistema' più che il 'soggetto'. E fu in parte proprio questa dilatazione della critica fuori dal suo ambito di stretta competenza, questa sua pretesa a sua volta totalizzante, a determinare dall'interno la crisi dello strutturalismo letterario. Ma paradossalmente vi contribuì la stessa applicazione alla critica di un criterio analogico, quasi di concorrenza con la letteratura: l'esaltazione del 'procedimento' di una scrittura parallela che anziché caratterizzare e valutare producesse a sua volta altre formalizzazioni, e quindi un'esegesi autoreferenziale. La saggistica di R. Barthes appare in questo senso tipica di un'attrazione tutta personale, e si potrebbe dire creativa, verso la materia di volta in volta trattata (oltre la letteratura, il cinema, la fotografia, il costume sociale, il discorso amoroso), sempre però osservata come un 'testo', e quindi con la molteplicità di segni che essa direttamente produce e trasferisce in altri testi. In questo incrocio di campi disciplinari, specie con quelli più soggetti alle variazioni temporali (le diverse tipologie della cultura: mode, miti, consumi sociali), e per questa attribuzione anche alla critica di uno 'spazio letterario' (il mondo della 'scrittura', evocato da M. Blanchot come una dimensione alternativa a quella reale) si indebolivano le posizioni più sistematiche e le pratiche più formalizzanti (fino all'impiego di procedimenti algebrici) dello strutturalismo, adottate nell'intento di emancipare il discorso critico dal suo coefficiente di opinabilità.
Barthes esercitava di fatto una semiologia d'estensione illimitata, senza confini disciplinari, come in Italia, su fondamenti più speculativi, la articolava U. Eco. In questa dilatata area di interessi, i significati facevano sempre più pressione sui significanti, il contesto sul testo. L'istanza interpretativa premeva sul funzionalismo descrittivo, affiorava una neoermeneutica reclamando appunto i diritti dell'interpretazione. Il sintomo più evidente fu, all'inizio degli anni Settanta, l'effetto Bachtin, la grande suggestione che produsse, appena divulgato fuori dall'Unione Sovietica dove circolava in semiclandestinità, il pensiero di uno dei maggiori esponenti dell'intellighenzia russa novecentesca. I volumi di M.M. Bachtin Problemy poetiki Dostoevskogo (1963; trad. it. Dostoevskij. Poetica e stilistica, 1968) e Tvorãestvo Fransua Rable i narodnaja kul´tura Srednevekov´ja i Renessansa (1965; trad. it. L'opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, 1979), tradotti dapprima in Francia, ma presto assimilati in Italia, introdussero i concetti di dialogismo e polifonicità del romanzo, insieme a quelli di 'letteratura carnevalizzata', di comico e di realismo grottesco, che rimettevano in gioco le questioni relative alla significazione storico-sociale, ideologica, religiosa, ma anche simbolica che si manifesta nella vita delle forme.
La poetica bachtiniana ha originato una ripresa della critica referenziale, quasi una rinascita della sua funzione conoscitiva espletata attraverso la letteratura. La valorizzazione del comico comporta il riconoscimento di un'interrelazione tra basso e alto, corpo e spirito, più in generale tra la festività dell'espressione individuale e dell'espressività collettiva ('di piazza'), ma incide sulla categoria del tragico moderno, inscindibile da una deformazione parodistica del sublime, come testimonia lo sviluppo del romanzo quanto meno dopo Cervantes. Lo scambio tra forme di vita e vita delle forme giustifica una nozione di antropologia letteraria in qualche modo conciliativa delle istanze storicistiche e dei principi dello strutturalismo. Guardato dalla specola italiana, il compromesso appare forse più evidente. Un accordo tra sociologia e stilistica era stato favorito in Italia dalla traduzione nel 1956 di Mimesis (1946), la grande inchiesta di E. Auerbach sul realismo occidentale da Omero a Joyce, contribuendo al declino del canone antidecadentistico di G. Lukács. L'antropologia letteraria di Bachtin indurrà a valorizzare le risorse conoscitive della prassi critica, sia da parte dello storicismo sia da parte dello strutturalismo. C. Segre, capofila della neocritica, certo il più attivo nel mettere a disposizione della teoria eccezionali competenze filologiche, linguistiche e analitiche, a distanza di quasi trent'anni dalla nascita della scuola, ha potuto affermare (Notizie dalla crisi, 1993) che, a differenza di quello francese, programmaticamente razionalista, lo strutturalismo italiano è stato piuttosto operativo, nasce in definitiva come post-strutturalismo. Per questo la sua è 'una crisi anomala'. Una volta acquisiti, i suoi risultati si sono riversati in una pluralità di direzioni, nella multilateralità degli approcci testuali e storici che caratterizza la critica degli ultimi due decenni del 20° secolo.
A voler disegnare una mappa di fine secolo si deve rinunciare a tracciare precisi confini: semmai si possono registrare gli sconfinamenti, anche dalla filosofia e dalla storiografia, civile, religiosa, artistica, verso la letteratura, e dalla letteratura verso la filosofia e la storiografia. Dal sodalizio di Strumenti critici, organo dello strutturalismo italiano, sembrava che non dovessero scaturire che applicazioni di linguistica letteraria. Hanno prevalso invece, per usare la terminologia continiana, le varianti del metodo. M. Corti ha aperto le sue indagini ai fenomeni della ricezione, e quindi a una sociologia della comunicazione letteraria, del mutamento, seppure studiato per endogenesi, all'interno della trasformazione dei generi e comunque nel processo storico; infine a ricerche sulle interrelazioni tra campi creativi e filosofici, messe in evidenza soprattutto dall'opera di Dante, al cui studio ha dedicato inchieste innovative.
Senza delineare quadri storiografici generali, la neocritica italiana non ha mai cessato di collaborare a una storicizzazione 'interna' della letteratura definita da una fitta rete di rapporti dinamici. Il testo rinvia a una 'intertestualità' che è memoria esplicita o implicita, per citazioni o allusioni, degli altri testi che lo scrittore seleziona manifestando la sua poetica; si iscrive a sua volta in un sistema di cultura regolato da 'codici', non solo retorici, linguistici, letterari, ma anche etici e civili, rispetto ai quali l'autore rivela un suo proprio comportamento, di adesione o di contrapposizione, con effetti spesso di modificazione, se non di radicale trasformazione; è messo infine in 'situazione', all'interno delle condizioni che caratterizzano un'area culturale a fronte di quelle con cui ha più storiche connessioni: nel caso dell'Italia, con la particolare crescita plurilinguistica della sua letteratura, senza che il modello unitario vincente, il toscano, abbia potuto impedirne lo sviluppo creativo. Il 'ri-uso', vale a dire l'adozione cosciente, di secondo grado, tanto delle risorse espressive popolari, del dialetto, quanto di quelle artificiose del bilinguismo latino-volgare rielaborato come ibrido parodistico nel maccheronico, ha infatti stabilizzato il plurilinguismo come una funzione permanente in seno alla nostra letteratura, generando risultati d'arte che hanno consentito, per limitarci all'esempio più vistoso di prosa novecentesca, di iscrivere il pastiche gaddiano al culmine di una tradizione secolare. Infatti, il 'pasticciaccio' che farcisce l'opera di C.E. Gadda non sigla soltanto un titolo di romanzo poliziesco divenuto proverbiale; è stato e continua a essere il termine parodistico di un'esperienza tutta italiana, perché pluridialettale, di quella tecnica combinatoria che ha caratterizzato la sperimentazione linguistica lungo tutto il 20° sec., ma fuori d'Italia certo con minori riscontri nella letteratura del passato.
A soddisfare un'esigenza storiografica che dia conto di una realtà che non può essere tutta assorbita nello schema di uno sviluppo unitario, i contributi di G. Contini e di C. Dionisotti si sono posti all'incrocio delle due strade, dello strutturalismo e dello storicismo, facendo in definitiva convergere le direzioni di marcia. Le coordinate linguistico-espressive disegnate da Contini hanno indotto a regolare le varianti dalla norma sulla dinamica del testo, quelle geo-storiche di Dionisotti sulla dinamica contestuale: condizioni sociali, istituzioni e vicende inseparabili dalla dialettica dei gruppi intellettuali, parzialmente in coincidenza con gli spunti di ricerca suggeriti dai Quaderni di A. Gramsci. Le teorizzazioni storiografiche della neocritica attingevano però soprattutto a quella tipologia della cultura o culturologia promossa dalla scuola di Tartu di Ju. Lotman che veniva a integrare, individuando nei livelli della cultura contenuti simbolici e schemi antropologici, la semiotica a fondamento linguistico e formale degli strutturalisti. Tipiche in questo senso le indagini di D'A.S. Avalle, indirizzate alla culturologia lotmaniana lungo il tracciato di una 'semiologia dei motivi' elaborata a commento delle morfologie folkloristiche e letterarie di V. Propp e A. Veselovskij.
È comunque un dato ormai accertato che, nella diversità della sperimentazione teorica e critica, la storia ha finito per rinascere dalle ceneri mescolate dello storicismo e dello strutturalismo. È la constatazione più evidente che si ricava dalla situazione della critica italiana dei due ultimi decenni del Novecento. Lo stesso Segre, pur pronosticando una sorta di permanenza della crisi, ha dichiarato di appartenere "alla schiera degli invocanti" una nuova attenzione alla storia e "a un nuovo storicismo che ci abbandona al corso della storia, lasciandoci cercare i punti di appoggio, le triangolazioni e i momentanei approdi" (Segre 1993, p. 284). In questo senso, distinto dallo 'storicismo di stampo hegeliano', il neostoricismo sembra qualificarsi come una funzione piuttosto che come un principio: è l'ombrello della storia che sostituisce quello logoro della linguistica; e infatti sotto la sua cupola trova riparo una pluralità di metodi e pratiche della critica non necessariamente destinati a formulare teorie.
Fra questi, innanzitutto, ovviamente lo storiografismo, vale a dire la ripresa della trattazione storica della letteratura per periodizzazione secolare, alla quale si erano contrapposti altri modelli di enciclopedismo del sapere letterario fondato su distinzioni categoriali, sociologiche e formali: istituzioni, produzione, stili, generi, identità regionali. Dalla manualistica alle 'grandi opere' l'incremento editoriale dello storiografismo si è rivelato negli ultimi decenni del 20° sec. fin troppo incalzante e concorrenziale. E forse è proprio il 'senso della fine' (diagnosticato molto prima della fine secolare da F. Kermode) che sollecita quei rendiconti di cui tutta la cultura ha bisogno e che la letteratura conserva in trascrizione individuale, con l'aggiunta pertanto della coscienza dei fatti, con un di più di verità. Non è un caso che la letteratura sia divenuta una fonte conoscitiva primaria per altri settori della ricerca storica - storia politica, filosofica, scientifica, artistica soprattutto - come da sempre testimoniano gli studi iconologici della scuola di Warburg. La critica letteraria sembra ormai avere a sua volta rinunciato a difendere l'autonomia del suo territorio, a tutelare gelosamente l'ambito ristretto del suo 'specifico' letterario. La ragione storica nella nuova versione dello storicismo, più profilata che realizzata, si identifica alla fine con le istanze dell'interpretazione, vale a dire della neoermeneutica.
Against interpretation era il titolo scelto per un saggio del lontano 1966 da S. Sontag, quasi un invito a convertire l'ermeneutica in una pratica 'erotica' della lettura. Si può dire che quell'invito segni la data d'inizio del postmoderno nella critica, una data da recuperare a futura memoria, quando le stagioni del rigore strutturalista si saranno intiepidite. Oggi si può dire che quell'eros antinterpretativo sia solo un aspetto dell'istanza ermeneutica che dissemina le sue interpretazioni nella variante del 'decostruzionismo', dell'esegesi priva di regole, esercitata sulle tracce meno visibili del senso, sui margini e le derive del testo. Un esercizio della de-costruzione, di una lacerazione dei contenuti apparenti per raccogliere i tanti che preesistono alla forma stessa del testo e si distribuiscono nell'atto di lettura, non ha avuto grande fortuna in Italia. La grammatologia di J. Derrida, che postula all'origine un'indeterminatezza del significante, non solo del significato, e consente perciò un'estrema variabilità interpretativa, ha conquistato una larga parte della critica universitaria degli Stati Uniti, dove il successo della sua filosofia è stato fatto coincidere con quello già affermato in altri campi dell'operatività estetica, specie in architettura. Ed è sintomatica, a confronto con quel radicamento nella cultura americana, la resistenza opposta al postmoderno da un teorico dell'"opera aperta" come Eco, per segnare "i limiti dell'interpretazione", come suona il titolo di un suo saggio, proprio per garantire la validità del segno linguistico, in definitiva i fondamenti della semiotica letteraria.
La fine dello strutturalismo, quanto meno come apparato dottrinario, ha in realtà cooperato a riabilitare la storicità del segno, più esplicitamente della 'parola', che fa storia quanto più la prevalenza dell'immagine nella cultura dei mass media sembra appiattirla a un'effimera evidenza tutta attuale. È vero, comunque, che la rinascita dello storicismo si va sviluppando nel segno di un riscatto dalle premesse più vincolanti della storicizzazione, massimamente dalla pretesa di una convalida ideologica della letteratura dettata da istanze extraletterarie, e dalla preminenza assegnata al carattere di rappresentatività epocale dell'opera (la Commedia espressione del Medioevo, il Furioso del Rinascimento ecc.), che finisce per limitare la durata del 'classico' e addirittura le sue riserve estetiche che nel tempo si rigenerano. Nuove modalità di percezione e conoscenza suggerisce oggi l'universo tecnologico e multimediale che abitiamo, e sembra a molti una minaccia antiumanistica. Forse andrebbe salutata invece, come benefica a una comprensione più partecipe, una cosciente professione di 'anacronismo' storiografico e critico. Anacronistico è in definitiva uno storicismo rovesciato, girato dalla parte di colui che legge, non di colui che scrisse. Il lector in fabula, di cui argomenta ancora Eco, non è solo un fruitore contemporaneo che collabora alla genesi stessa dell'opera (il viaggiatore fermo alle stazioni narrative di partenza in un famoso romanzo di I. Calvino), il soggetto di una 'ricezione' che partecipa di uno stesso codice comunicativo. È un lettore che sintonizza anche a distanza di tempo il codice proprio con quello dell'autore, dal presente al passato, e può sintonizzarsi anche attraverso Freud per captare messaggi lontani. Altrettanto, nel tempo, può essere spostato 'l'orizzonte d'attesa' che nella teorizzazione di H.R. Jauss, il maestro della scuola di Costanza, sembra più contestuale alla contemporaneità del pubblico con l'autore.
La nostra assuefazione, anche nell'ambito della vita quotidiana, a oltrepassare la superficie dei fatti per trarre dal profondo le motivazioni nascoste è una condizione ineliminabile del nuovo modo di fare storia. Simboli e allegorie affiorano dalla lettera del testo al di là delle intenzioni dell'autore. L'intentio operis ha finito per prevalere sull'intentio auctoris: la poetica cosciente dello scrittore non basta; vale più la poetica in atto manifestata nell'opera. E vale per G. Steiner, saggista ricco di allettamenti, l''esperienza' provocata nel lettore dalla rivelazione della poesia (e più ancora della musica) che è presenza di un'alterità, di una verità altra, una 'vera coscienza' che nella critica si traveste in forma di 'narrazione' piuttosto che di interpretazione. Steiner è nettamente avverso alle teorie della letteratura ed è invece incline a fissare nella filologia l'ancoraggio della parola alla sua verità. E tuttavia la priorità dell'esperienza non può che indurre a una ri-creazione dell'opera con un supplemento di significati che trascina fatalmente l'attenzione fuori dalla parola originaria, dell'autore, verso quella secondaria, del lettore. L'invito alla poesia può essere trasmesso per simpatia dall'emozione ma si fa duraturo attraverso la 'comprensione', puntello inamovibile dell'ermeneutica che con H.G. Gadamer si qualifica appunto come teoria della comprensione.
Si capisce che la saggistica di Steiner abbia prodotto una forte suggestione sulla pubblicistica non universitaria, su taluni esponenti di una giovane critica senza obblighi di sistematicità e di ricerca, tra i quali, cessati i fervori della gramsciana battaglia delle idee, si è insinuata una pratica di tipo ascetico alla lettura che ambisce a determinare a sua volta effetti di suggestione. Un modello in questo senso difficilmente eguagliabile è quello di P. Citati per quel suo costante esercizio di scrittura analogica, quasi un 'doppio' d'impasto a sua volta letterario. È vero che già per Lukács di Die Seele und die Formen (1911) il saggio è un genere artistico, "un'autonoma insopprimibile rappresentazione formale di una vita propria e compiuta", è una forma che "diventa destino, principio creatore di destini". Rispetto allo studio, alla monografia, al contributo di ricerca, il saggio presuppone un'alta percentuale di soggettività e richiama di più l'attenzione sullo stile e l'esperienza del critico. In Italia, da F. De Sanctis a G. Debenedetti, passando attraverso il B. Croce lettore del moderno, e via via fino agli autori più recenti, il genere saggio può essere riportato con tutta la sua varietà alla definizione quanto meno formale di Lukács: si pensi a critici come R. Serra, G.A. Borgese, E. Cecchi, P. Pancrazi, A. Tilgher, M. Praz, C. Cases, F. Fortini, G. Pampaloni, L. Baldacci, E. Sanguineti, a scrittori saggisti come L. Pirandello, G. Ungaretti, E. Montale, C.E. Gadda, A. Savinio, A. Moravia, L. Sciascia, I. Calvino, P. P. Pasolini, L. Malerba, G. Manganelli, R. La Capria, A. Arbasino, G. Pontiggia, infine a saggisti-scrittori come, dopo G. Macchia, A.M. Ripellino, P. Citati, C. Magris, C. Garboli, W. Pedullà. Aggiungere a questa minima nomenclatura, la più facilmente memorabile e qui indiscriminatamente censita, un cartellino segnaletico della critica del Duemila è per il momento un azzardo. Resta il fatto che il saggio ha contribuito alla permanenza del dettato discorsivo, antiformalizzante della critica, della discorsività che ormai caratterizza anche la prosa dell'ermeneutica, del resto non scorporabile da una fluidità d'argomentazione.
Si vorrebbe ridurre a un comune denominatore la produzione etichettabile con il cartellino dell'ermeneutica. Ma la fenomenologia della cultura tardonovecentesca è varia e induce a distinguere. Un'estensione del raggio di competenza dell'interdisciplinarità ha assegnato alla scuola di E. Raimondi una funzione di raccordo epistemologico della critica, dalla retorica alla poetica, all'esegesi simbolica e alla scienza (Intersezioni è la rivista che ne testimonia gli sviluppi), che è ormai confermata da molti studi; l'utopismo benjaminiano s'intreccia al pensiero critico-negativo della sociologia francofortese nel lavoro svolto da più gruppi intorno al concetto di allegoria, nell'ottica di un allegorismo che reintegra la centralità del rapporto arte-realtà. Su un altro versante, quello dell'analisi freudiana e della linguistica lacaniana dell'inconscio, viene esperito il sondaggio da più parti su lapsus, omissioni, fratture del testo, quasi una teoria letteraria del 'paradigma indiziario' che faccia emergere le verità latenti dell'autore. Ancora, è l'interdisciplinarità delle ricerche a valorizzare la pregnanza dei significati racchiusi nel testo: letteratura e cultura, letteratura e figurazione, letteratura e musica, letteratura e retorica.
Un ragguaglio necessariamente sommario condotto sul presente non può che indicare sintomi e inclinazioni che il tempo potrebbe anche smentire. È vero però che l'ermeneutica, la gadameriana più che heideggeriana teoria dell'interpretazione, è la carta d'identità più riconoscibile nello scorcio del millennio. Può valere come un passaporto che apra un po' troppo facilmente i confini nelle scuole. Per questo da parte italiana si insiste sulla tutela del iudicium filologico rispetto agli abusi perpetrati sulla parola e il suo senso. La filologia fa parte del nostro patrimonio genetico, perciò il credito offerto alla dilatazione della spesa interpretativa è da noi più contenuto: in questo ci dimostriamo prudenti risparmiatori. Altrove si rischia di più (anche se rapidamente si ritirano i capitali). Un critico di grande ingegno come l'americano H. Bloom ha teorizzato la mis-interpretazione (mis-reading, falsa lettura) in quanto a sua volta creazione, testo anch'esso prioritario come la poesia, attraverso il quale il critico denuncia e nello stesso tempo reagisce all''angoscia dell'influenza'. Ma poi è ancora lui a classificare opere e autori in un canone che con Shakespeare, Dante, Cervantes dà forma alle epoche capitali della storia dell'Occidente, ai suoi 'ricorsi' vichiani. Come a dire che la mis-interpretazione è una prova agonistica che non altera, anzi ribadisce i valori estetici, negli Stati Uniti minacciati da un'ideologia del 'risentimento' politico, i cultural studies, che oppongono alla gerarchia dell'estetico la parità culturale delle letterature delle minoranze (etniche, religiose, sessuali).
Quanto alla filologia, è essa stessa, uno strumento interpretativo della continuità della parola nel tempo. Ad accentuare la sua funzione di restauro testuale giova l'adozione dell'informatica e dei dati quantitativi messi a disposizione dal computer con liste di frequenza, indici, catalogazioni, di elaborazione e consultazione molto più rapide delle procedure cartacee. Ma l'informatizzazione può anche trasformarsi in provocazione per la critica. I censimenti verbali si riorganizzano di fatto come raggruppamenti tematici. In questa fase di ripresa storicistica e di estensione della curiositas ermeneutica al presente e al passato, alla tradizione e all'innovazione, ma anche alla diversità nello spazio, non solo nel tempo, delle culture, e quindi alle loro reciproche alterità, il tema appare sempre più il luogo in cui la critica, saltando il fosso del puro funzionalismo e senza lasciarsi trascinare nella deriva del decostruzionismo, può individuare forme e significati dell'immaginario facendovi convergere interessi diversi di ricerca.
La tematica ha già una sua storia che è iscritta in un libro classico di M. Praz (La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, 1930), poi nella grande mappa dei topoi con cui E.R. Curtius ridisegna la tradizione classica europea, nelle variazioni del modello psicanalitico, tra Freud e Jung, che informa una produzione saggistica francese (o in lingua francese) di consolidato prestigio, con G. Bachelard e Ch. Mauron, J.-P. Richard e G. Poulet, J. Rousset e J. Starobinski. Essa ha subito trovato opposizioni, in primo luogo da parte di Croce, puntualmente reattivo alla topica di Curtius, come del resto alla comparatistica, e poi da parte strutturalista per il rischio evidente della generalizzazione, se non proprio della banalizzazione contenutistica, e comunque di eclettismo che l'uso della tematica comporta. La nozione è certamente inclusiva, ovvero si espande in "costellazioni tematiche", come segnala Starobinski. Estrae da un insieme testuale un mito, una figurazione, un personaggio e ne segue la vicenda postuma nei rifacimenti, nelle reincarnazioni, fa incetta dei materiali che il bricolage letterario produce a sua volta immagazzinando e catalogando oggetti simili e dissimili, archivia le metafore e ne valuta la ricorrenza, assegna valori simbolici a elementi e aspetti della natura o della realtà per verificarne la presenza. Gli itinerari di Ulisse, Orfeo, Oreste, Antigone sono tracciati dalla letteratura stessa, ma la critica può ricomporre dalle singole variazioni il tema: i saggi di Ch. Segal e G. Steiner sono tra tanti alcuni esempi in questo senso memorabili. È invece metodologicamente pionieristico il corposo regesto di F. Orlando per Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura (1993).
La tematica offre in definitiva un inventario dell'interpretazione, più che una teoria (la 'tematologia'), e forse per questo si è potuto parlare con soddisfazione del suo ritorno. Proprio in un reading di W. Sollors (The return of thematic criticism, 1993) si constata questo fenomeno di attrazione per la meno dottrinaria delle teorie letterarie e la pratica critica più tollerante. I saggi antologizzati ne danno conferma e sembrano dar ragione a quel principio di tolleranza che Jauss attribuisce all'ermeneutica letteraria, alla sua disponibilità alla comprensione. E può darsi che una storia per temi, una Stoffgeschichte, orienti meglio della storia rievocata secondo tempi e luoghi verso una compenetrazione delle culture. Sarà paradossale, ma è probabile che in questa prospettiva proprio a un'ermeneutica debole resti affidato l'auspicio a fine Novecento di un superamento della crisi.
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Per la critica tematica, oltre al campionario saggistico raccolto e introdotto da W. Sollors in The return of thematic criticism, Cambridge (Mass.)-London 1993, si veda il volume di F. Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura, Torino 1993, 2ª ed. ampliata 1996.